I testi inneggiano all’omertà e all’odio contro le vittime di mafia.
6 febbraio 2014
Blitz contro un laboratorio anti-cosche per studenti di medie e superiori dove le musiche vengono demitizzate
Mettono in musica il culto dell’omertà e la venerazione per i boss, il fascino della lupara e l’odio contro le vittime di mafia. Ospitano strofe composte dai latitanti che infatti si firmano «anonimo». Mandano avvertimenti nemmeno poco espliciti ai collaboratori di giustizia: copertine dei cd a loro dedicate con disegno (sagome impiccate a un albero) e slogan («Siete sbirri figli di p...»). Eppure adesso i cantanti di ‘ndrangheta chiedono perfino il rispetto e il conseguente pagamento dei diritti d’autore. L’hanno chiesto per esempio a un laboratorio anti-cosche che insegna ai bambini e ai ragazzini di Reggio Calabria a non cadere nel tranello, a non mitizzare la ‘ndrangheta. Men che meno a prestarle ascolto.
L’AGGUATO - Dalla Germania, dove hanno un successo incredibile, un cantante e un manager sono volati a Reggio Calabria, hanno noleggiato in aeroporto la macchina più vistosa che c’era, hanno puntato il laboratorio, ospitato dal Museo della ‘ndrangheta, e giù offese e minacce. Un avvertimento mafioso. Un’azione intimidatoria. I due sono stati indagati. E per la prima volta una Procura, quella di Reggio Calabria, metterà occhi e mani dentro un fenomeno di business, spettacolo e apologia, di messaggi in codice nascosti nei testi, di controllo del territorio. Le indagini potrebbero allargarsi e daranno fastidio alle cosche, che oramai consideravano questo tipo di musica sacra quanto la famiglia: e dunque inviolabile.
SPETTACOLI, INCASSI, TITOLI - Gli indagati si chiamano Francesco Sbano e Demetrio Siclari. Hanno 50 e 62 anni. Uno cosentino, l’altro reggino. Il personaggio chiave è Sbano. Sulla ‘ndrangheta ha girato anche un film: «Uomini d’onore». Se le cosche esistono, è il messaggio in sintesi, è tutta colpa dello Stato assente. Sbano ha fatto i soldi vendendo canti di ‘ndrangheta e di mafia. Il titolo «Ammazzaru lu generali», sul generale dalla Chiesa, è roba sua. Vive, lavora e incassa in Germania. Quella Germania che, nonostante la colonizzazione silenziosa delle cosche e nonostante certi vistosi manifestarsi (la strage di Duisburg, nel 2007, sei morti ammazzati, il mondo intero che scopriva la ‘ndrangheta), continua a sorridere delle canzoni di malavita, perché a dire dei tedeschi sono melodie capaci di raccontare l’animo romantico della criminalità.
LA VIOLENZA E IL SANGUE - Di romantico non c’è niente. Dice Claudio La Camera, a capo dell’Osservatorio: «La grande forza suggestiva dei canti di malavita potenzia la mitologia mafiosa». E alimenta, prosegue il combattivo La Camera, «la convinzione che il modello culturale da scegliere sia quello rappresentato dalla violenza e dall’odio verso lo Stato». Nel laboratorio dell’Osservatorio i testi vengono ascoltati, analizzati, commentati. A volte un canzone viene spogliata delle sue parole, rimodellata con altre strofe: nello stesso tempo i ragazzi imparano a cancellare un testo e farlo tornare a nuova vita.
LA GALERA COME PREMIO - Fra i tanti in commercio c’è un cd, s’intitola «Il Vangelo di malavita» e contiene uno slogan che non necessita di traduzione. Eccolo: «Cu senti e taci avi sempri paci. Cu senti e dici avi sempri nemici». Non ci girano intorno, questi sedicenti artisti. Le parole parlano di sgarbi da lavare a ogni costo, del carcere che diventa un premio, una medaglia, dei lupi dell’Aspromonte, del sangue che chiama sangue, di ergastolani e di «cu sgarra paga». C’è il fascino del male che viene emanato da canzoni e album, che ha facile presa sui ragazzini e finisce nelle suonerie dei cellulari. Sapete cosa ha urlato Sbano una volta arrivato ai cancelli del Museo della ‘ndrangheta? Che «ci state causando un sacco di danno. In Germania, in tutto il mondo i nostri concerti sono acclamati, abbiamo proiezioni e concerti nei più grandi teatri... Grosse orchestre...». Ad avvisare Siclari e Sbano di quanto avviene nel laboratorio, a raccontare per filo e per segno, a elencare nomi e cognomi, insomma a far da spie e aizzare cantante e manager, sono state delle insegnanti che hanno accompagnato le scolaresche al Museo della ‘ndrangheta.
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