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carcere-41bisParla Roberto Pannunzi, l'Escobar italiano: «Così seminavo l'Fbi»
di Giovanni Bianconi - 4 agosto 2013
Nella cella di massima sicurezza dov'è rinchiuso ai rigori del «41 bis» per scontare le vecchie condanne, il boss del narcotraffico Roberto Pannunzi s'è visto recapitare una nuova accusa. È l'avviso per un affare da 220 chili di cocaina fatti arrivare in Sicilia e in Calabria nel 2002; una storia antica che s'intreccia con le evasioni del contrabbandiere di droga. Quando l'hanno condannato a 18 anni di galera per quell'operazione, infatti, per Pannunzi detto «Bebè» mancava l'estradizione dalla Spagna dov'era stato riacciuffato all'indomani della prima fuga; sentenza annullata per «non doversi procedere», dunque. Adesso, dopo che Bebè è scappato un'altra volta e un'altra volta è stato ripreso (a Bogotà, il 6 luglio scorso) la giustizia italiana ci riprova. E il boss dovrà decidere se provare a difendersi dalle accuse o collaborare con i magistrati, cercando di ottenere qualche sconto di pena che a 65 anni d'età potrebbe fargli gola. Al momento dell'ultimo arresto ha provato a corrompere il poliziotto colombiano offrendogli cinque milioni di dollari, ma — forse a differenza che in passato — gli è andata male.
Al funzionario della Direzione centrale per i servizi antidroga che ne ha coordinato la cattura e l'ha accompagnato nel viaggio verso Roma, Bebè ha risposto declinando educatamente l'invito. Ma nelle lunghe ore della traversata transoceanica gli ha raccontato qualche particolare della sua vita di narcotrafficante e fuggiasco, in hotel a cinque stelle spesso in compagnia di belle donne.
Quando aveva 26 anni, nel 1974, Pannunzi era già a New York per occuparsi degli affari mafiosi della famiglia Badalamenti. Con «Don Tano», morto detenuto negli Usa nel 2004, era entrato in contatto grazie al suo padrino di battesimo, e dalla contabilità del denaro passò in fretta alla gestione diretta dei rapporti con i raffinatori di eroina del Clan dei marsigliesi. Negli Stati Uniti affinò le tecniche per seminare gli investigatori del Fbi e della Dea, l'antidroga americana. «Loro mi mettevano i localizzatori a calamita nella macchina — si vanta Bebè — e io mi divertivo a portarli in giro. Quasi ogni giorno facevo un controllo sull'auto o nei luoghi in cui mi fermavo per più di una settimana, e quando trovavo il trasmettitore o una microspia non li toccavo». Non ce n'era bisogno, gli bastava scoprire quei marchingegni per renderli innocui, senza farlo capire agli inseguitori.
Al funzionario italiano il boss che trafficava all'estero ha fatto i complimenti per come lavorano le polizie nostrane, confidando di non aver mai utilizzato il telefono per fissare un appuntamento, né un'automobile per andare sul luogo di un incontro. Tutto avveniva tramite i tradizioni «pizzini», e quando doveva vedere qualcuno lo faceva soltanto in luoghi pubblici. Quasi sempre centri commerciali, dove arrivava in taxi facendosi scaricare a una certa distanza. E una volta raggiunta la persona, dopo un caffè, prima di cominciare a parlare di lavoro si spostava di nuovo, in un punto scelto da lui solo in quel momento.
Così lavorava Bebè, chiamato anche il «Pablo Escobar italiano», che ricorda con nostalgia i tempi in cui ha conosciuto il vero Escobar e — sempre in Colombia — i fratelli Ochoa, anch'essi al vertice del cartello dei narcotrafficanti di Medellìn: «Ci si sedeva a tavola solo se c'era da parlare di almeno una tonnellata di cocaina. Oggi invece ci sono tanti millantatori. In Colombia sono sei o al massimo sette le persone con cui si può parlare di certe quantità, e occupano posti di rilievo in società». Forse per questo Pannunzi sostiene, se fosse vero, che da quando è scappato dalla clinica romana dove s'era fatto ricoverare nel 2010 non ha fatto più negocios, affari con la droga. Decidendo di dedicarsi a tempo pieno all'altra sua passione: las mujeres, le donne. Dice che da Roma, una volta evaso, raggiunse Parigi dove rimase qualche mese. E poi il Venezuela, «dove ci sono belle donne e un italiano passa inosservato; basta evitare di usare macchine di lusso e frequentare luoghi mondani». Lui si accontentava degli alberghi a cinque stelle per passare qualche ora in dolce compagnia, ogni tanto. Sempre di giorno, però. La notte è pericoloso muoversi per un fuggiasco.
Adesso è tutto finito, e la vita è nuovamente scandita dai ritmi del «carcere duro» italiano che aveva già sperimentato a metà degli anni Novanta, dopo il primo arresto e la prima estradizione dalla Colombia. Lo misero in compagnia di Totò Riina, nella prigione milanese di Opera. «Mi ricordo le passeggiate con lui all'ora d'aria — ha raccontato all'agente dell'Antidroga — e le partite a carte. Solo che Riina le guardava prima di distribuirle, io me ne accorgevo e glielo dicevo: "Don Totò, accà stamo a Opera, no semo a Palermo", e ci mettevamo tutti e due a ridere». Come due uomini d'onore, che hanno ciascuno rispetto dell'altro.

Corriere della Sera

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