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ciancimino-vito95Il boss: mi fecero arrestare Ciancimino e Provenzano
di Giovanni Bianconi - 2 luglio 2013
Palermo, l'ultimo indizio sulla trattativa fra lo Stato e la mafia all'epoca delle stragi arriva dalla viva voce di Totò Riina, colto da «improvvisa e anomala loquacità», come scrive il direttore del carcere in cui è rinchiuso; alcune confidenze del «capo dei capi» di Cosa nostra a un ufficiale della polizia penitenziaria sono a conferma - per l'accusa - non solo dei contatti tra il boss corleonese e le istituzioni, ma anche dei presunti misteri sulla sua cattura del gennaio 1993, fra le bombe in Sicilia e quelle sul continente.
Prima che la Corte d'assise decida se celebrare il processo a Palermo o mandarlo altrove, i pubblici ministeri giocano la carta piovuta sui loro tavoli qualche settimana fa: una relazione di servizio della guardia carceraria che nella prigione milanese di Opera accompagna Riina dalla cella alla saletta da dove segue in video-conferenza i dibattimenti che lo riguardano. Compreso quello sulla trattativa, che mostra di «mal sopportare» in modo particolare.
L'assistente capo ha riferito che in due occasioni il capomafia gli si è rivolto dilungandosi sulle vicende di vent'anni fa trasformatesi nel processo che lo vede alla sbarra accanto ad altri mafiosi, politici ed ex carabinieri. «Io con la magistratura non ci parlo, è inutile che vengono, ma se vuole a lei quattro cose gliele racconto» ha detto Riina al poliziotto il 21 maggio scorso. E poco dopo: «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino, e non come dicono i carabinieri... Io glielo dicevo sempre a Binnu di non mettersi con Ciancimino».
Una rivelazione che contrasta con precedenti dichiarazioni dello stesso boss, e che - detta e riferita così - sembrerebbe andare nella direzione dell'accidentata trama narrata da Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo divenuto testimone e imputato della trattativa.
Quello stesso giorno la «vena chiacchiericcia» di Riina ha riguardato anche il famoso e mai provato bacio con Giulio Andreotti («Mi ci vede? Io posso solo dire che era un galantuomo, e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre»), i presunti rapporti tra lo Stato e la mafia, eventuali patti inconfessabili e il processo che ne è scaturito: «Visto quante persone hanno chiamato a testimoniare? Vogliono chiamare circa 130 persone... Le pare giusto? Mi vogliono condannare per forza, mi stanno mettendo sotto pressione a me e a tutta la mia famiglia».
La tesi del boss è che «La vera mafia in Italia sono magistrati e politici che si sono coperti tra di loro, e scaricano ogni responsabilità sui mafiosi». Dopodiché, ecco una sorta di rivendicazione: «La mafia quando inizia una causa la porta a termine assumendosi tutte le sue responsabilità. Io sto bene, mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura».
Sciorinate alcune allusioni a ipotetiche e già accennate complicità dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via D'Amelio, nonché sulla scomparsa dell'agenda rossa di Borsellino, Riina è tornato a parlare con l'ufficiale della Penitenziaria il 31 maggio, seconda udienza del processo sulla trattativa. Prima di sentirsi male e rientrare in cella ha detto: «Io non ho cercato a nessuno, erano loro che cercavano me». Per la Procura di Palermo è un riscontro a ciò che il pentito Giovanni Brusca ripete dal 1998: fu Riina in persona a dirgli che rappresentanti dello Stato «si erano fatto sotto» dopo la strage di Capaci e lui, per tutta risposta, aveva fatto recapitare «un papello tanto» di richieste. Papello che però il capomafia, anche alla guardia carceraria scelta come «confessore», nega di avere mai visto: «Io non ne so niente».
Ricevuta la relazione di servizio, gli inquirenti hanno convocato l'assistente capo e un collega presente alle conversazioni, i quali hanno confermato le parole di Riina che appariva «lucido, cosciente e padrone di sé». Il boss sta bene, e «ha scandito quelle frasi perché noi le sentissimo chiaramente». Ma al di là del valore investigativo attribuito dai pm ai due episodi, l'interrogativo principale riguarda il motivo per cui, proprio adesso, il numero uno di Cosa nostra ha deciso di abbandonarsi a queste dichiarazioni. Quando lui si sente vecchio ma in salute «come un orologio svizzero», mentre Provenzano, l'altro depositario dei segreti mafiosi di quella stagione, sembra vicino a concludere i suoi giorni. È difficile immaginare che Riina, dopo oltre vent'anni di detenzione al «41 bis», non abbia pensato che le sue confidenze sarebbero arrivate ai magistrati. Con i quali ribadisce di non voler parlare, ma intanto dà loro in pasto qualche brandello della sua «verità», che se non confermata dall'interessato resteranno di scarso peso probatorio. Tuttavia: perché il «capo dei capi» ha abbandonato la sua abituale «riservatezza»? Che strategia c'è dietro? Si tratta di messaggi rivolti a qualcuno? A chi, e con quali obiettivi?
Il suo avvocato Luca Cianferoni, nella memoria in cui contesta la competenza dei giudici di Palermo, insiste sulla teoria del boss divenuto «parafulmine buono a ogni bisogna, per tenere alta la tensione», quando ormai «è evidente a ognuno che Riina sia stato oggetto, e non soggetto, di una trattativa». Se però fosse vero quel che il suo assistito ha fatto trapelare, e cioè che qualcuno lo cercò dopo la strage di Capaci, questo andrebbe a suffragare l'ipotesi accusatoria secondo cui Riina fu prima soggetto della trattativa, e solo dopo — quando entrò in gioco Provenzano, sempre tramite «don» Vito Ciancimino — ne divenne oggetto.
Per dimostrarlo, la Procura chiede che il processo si celebri a Palermo e davanti alla Corte d'assise, poiché il ricatto mafioso è collegato al delitto dell'eurodeputato dc Salvo Lima, assassinato sul lungomare di Mondello proprio per innescare la minaccia da cui prese avvio la trattativa. Per il difensore di Riina, invece, tutto è già scritto nella sentenza di Firenze sulle bombe del '93 realizzate con la «precisa strategia diretta, come è ormai noto, a costringere lo Stato a giungere a trattative con la mafia siciliana». Per le stragi — sostiene l'avvocato — e dunque anche per la sottesa trattativa, Riina è già stato condannato e non può subire un altro processo. I pm ribattono che si tratta di fatti parzialmente diversi, e a Firenze non fu giudicata la minaccia al governo. La corte deciderà giovedì.

Il Corriere della Sera

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