Il magistrato all'evento delle Agende Rosse: "Manganellate a Pisa e il 23 maggio scorso a Palermo, sconfitta dello Stato e dell’antimafia”
Questo articolo, che riproponiamo ai nostri lettori, è stato scritto in data 05-03-2024.
Oggi è difficile raccontare ad un giovane la storia delle stragi, spiegandone la complessità e ordinando i fatti emersi negli ultimi 30 anni. È difficile fare chiarezza sui depistaggi, sulle mistificazioni e sui troppi silenzi che hanno prodotto giorno dopo giorno un vuoto incolmabile nelle speranze e nelle aspettative di tanti cittadini e di un intero Paese. Ma è fondamentale farlo, creando ed organizzando momenti di confronto, di riflessione e di dibattito nelle scuole, nelle piazze e nei nostri spazi e territori. È quello che è successo ieri nel Teatro Carlo Felice di Genova, con una platea di più di 2000 studentesse e studenti, nell’evento organizzato dalle Agende Rosse intitolato “Sicurezza e Legalità”, dove sono intervenuti Salvatore Borsellino e Angelo Garavaglia, rispettivamente fondatore e cofondatore del Movimento, il Sostituto procuratore nazionale antimafia Antonino Di Matteo, il caporedattore di ANTIMAFIADuemila Aaron Pettinari e il Presidente della commissione regionale antimafia Roberto Centi. Un incontro importante, non solo per collegare il nostro passato al nostro presente e far sentire vicina una storia che continua inevitabilmente a condizionare la vita politica, sociale ed economica del nostro Paese, ma anche per parlare di diritti e di libertà costituzionali che in questo momento storico vengono messi sempre più in grave pericolo. Come ha affermato il magistrato Nino Di Matteo, “questo Paese è avviato ormai da anni in un declino di perdita di memoria e di consapevolezza, in cui c’è il rischio della indifferenza rispetto ai grandi problemi”, come quello riguardante la mafia, “che non è una questione di mera criminalità, ma una questione di limitazione della libertà e della democrazia nel nostro Paese”.
Lo viviamo nella semplificazione estrema e fuorviante della realtà operata dal mainstream rispetto ad argomenti complessi che invece richiederebbero riflessioni di più ampio respiro. Lo abbiamo vissuto anche nella ricostruzione, spesso stigmatizzante e accomodante, che per anni si è fatta del fenomeno mafioso, come di una faccenda riguardante soltanto la Sicilia e il Sud Italia. Per questo motivo, durante l’incontro, tracciando un unico filo conduttore fino ai giorni nostri, il Sostituto procuratore antimafia ha cercato di ripercorrere i fatti emersi in sentenze definitive, riguardanti personaggi che hanno governato e determinato per decenni (e alcuni di loro tutt’oggi) la politica e la vita del nostro Paese.
Parliamo della sentenza del processo Andreotti, “che fino al 1980 ha ritenuto provata la sua condotta di collusione con i mafiosi e il reato veniva dichiarato estinto per prescrizione. Un uomo delle istituzioni, sette volte Presidente del consiglio e ventuno volte ministro della repubblica aveva rapporti con alti livelli della mafia siciliana e venne in Sicilia ad incontrare i capi mafia di allora e a parlare prima e dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella del perché Mattarella dava fastidio ai mafiosi e del perché lo avevano ucciso”. Oppure della sentenza definitiva che ha condannato il co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, “un partito che è attualmente al governo”, dove c’è scritto che “Dell’Utri è stato per almeno 18 anni mediatore di un patto tra le famiglie mafiose principali dell’area palermitana e l’allora imprenditore Silvio Berlusconi: un patto che ha comportato reciproci vantaggi e reciproca protezione. Quanti di voi ragazzi sanno queste cose?”. E ancora, ha continuato il magistrato, “quanti di voi sono stati messi nelle condizioni di sapere, proprio in relazione alla capacità di Cosa nostra di intessere rapporti con il potere, che Salvatore Riina è stato latitante per 30 anni ed è stato catturato praticamente a casa sua; che Bernardo Provenzano è stato latitante 43 anni ed è stato catturato in un casolare di Corleone o che anche Matteo Messina Denaro è stato latitante per 30 anni ed è stato catturato recentemente praticamente a casa sua? Quanti di voi possono pensare che queste situazioni sono soltanto frutto dell’abilità di chi si sottrae alla cattura e non di vere e proprie coperture anche istituzionali di cui questi personaggi hanno goduto?”. Sono fatti che oggi si cerca in tutti i modi di dimenticare e di cancellare, il cui insegnamento non è previsto nei programmi scolastici e che sicuramente non troviamo scritti nei libri di scuola. E proprio di fronte a queste lacune formative è necessario esercitare “il nostro diritto di essere informati, sancito dall’articolo 21 della nostra Costituzione, andando oltre quello che viene espresso dalla stampa, con le vostre possibilità, ascoltando anche i processi e facendovi domande”, ha detto il giornalista Aaron Pettinari agli studenti presenti nel teatro. “È importante chiedersi perché dopo più di 150 anni la mafia non è stata ancora sconfitta e perché il problema non viene affrontato sul piano politico”, ha continuato, proprio per essere consapevoli che “oggi la mafia, soprattutto la ‘Ndrangheta, è insediata in tutti i territori, anche a Genova, nel cui porto passano ingenti carichi di droga”. Anche nel traffico internazionale di stupefacenti la mafia si serve e si nutre del rapporto stretto con ambienti esterni alla stessa. Infatti, anche in Liguria, ha spiegato il Presidente della commissione regionale antimafia Roberto Centi, “ci sono imprenditori, politici, funzionari amministrativi di altissimi livelli, avvocati, commercialisti che curano gli interessi della mafia, della Ndrangheta in particolare. Gli stessi fanno e fanno fare lauti guadagni. Il 40 % della cocaina sequestrata nei porti italiani passa dai porti di Genova, di La Spezia, di Vado e di Savona. Ed è solo quella che è stata trovata”.
Nino Di Matteo con Simone Botta
Il processo Trattativa e la narrativa sulle stragi
Durante l’incontro di ieri, moderato da Giuseppe Carbone (presidente del movimento delle Agende Rosse Liguria gruppo 'Falcone Borsellino'), Simone Botta e Antonino Carbone (Vice presidenti del movimento delle Agende Rosse Liguria gruppo 'Falcone Borsellino'), si è avuta la possibilità di affrontare più nel dettaglio i fatti emersi in alcuni processi storici riguardanti le stragi degli anni ’90, tra cui il processo Trattativa Stato-mafia e la narrativa che oggi a più livelli si sta alimentando. Recentemente la commissione parlamentare antimafia è tornata a parlare della vicenda mafia-appalti che, come affermato da Salvatore Borsellino, “non può rappresentare veramente il motivo dell’accelerazione della strage di Via d’Amelio, i motivi sono altri”. Motivi che si ricollegano alle indagini e a ciò che Paolo Borsellino aveva scoperto dietro l’ideazione e l’esecuzione della strage di Capaci e conseguentemente al furto dell’Agenda rossa che, come ha ricordato Angelo Garavaglia, “venne portata via da uomini di Stato”. Perché di depistaggi nella ricerca della verità sulle stragi di Stato ne abbiamo viste anche troppi in questi anni.
Rispetto agli attuali lavori della commissione, anche il procuratore Di Matteo ha chiarito che l’errore che si sta commettendo “è quello di cercare di approfondire una strage, addirittura solo una pista come movente di quella strage”. Intorno alla strage di Via d’Amelio, ha proseguito “non si potrà mai addivenire alla verità completa se non consideriamo quello che è avvenuto prima e quello che è avvenuto dopo. La parcellizzazione, l’atomizzazione delle conoscenze ha sempre fatto male nella considerazione dei fatti che presentano una natura complessa”.
Così è successo anche con il giudizio della Cassazione sulla sentenza Trattativa Stato-mafia, che ha assolto “per non aver commesso il fatto” i tre ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Di fronte ad una sentenza basata su motivazioni assolutamente contraddittorie ed illogiche rispetto alla ricostruzione dei fatti operata in primo e secondo grado, ci sono alcuni dati che, come ha chiarito Di Matteo, rimangono incancellabili: “Il dialogo a distanza intrapreso da una parte dello Stato subito dopo la strage di Capaci con la c.d. ala moderata di Cosa nostra per sconfiggerne un’altra”; la mancata perquisizione del covo di Totò Riina come “segnale di distensione e di manifestazione di intento di proseguire nella trattativa”; la protezione di cui ha goduto Provenzano da parte di alcuni investigatori perché “in quel momento (lo affermano i giudici di secondo grado), per indicibili ragioni di interesse nazionale era necessario che Provenzano (che rappresentava la c.d. ala moderata), restasse in libertà”.
Inoltre, è un dato di ricostruzione storica che quella trattativa iniziata dagli ufficiali del Ros per mezzo del sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, portò nei fatti ad altre stragi, che colpirono anche le città di Roma, Firenze e Milano nel 1993, provocando la morte di civili innocenti, tra cui quella di due bambine (Nadia e Caterina Nencioni). “Questo non è accettabile”, ha continuato Borsellino, “oggi purtroppo quegli imputati sono stati assolti ed è ignobile assistere alla loro eroizzazione. Queste persone girano l’Italia vantandosi di quello che hanno fatto quando quello che hanno fatto è stato provocare la morte di Borsellino e dei ragazzi della sua scorta”.
La verità è che il processo Trattativa Stato-mafia non si doveva fare; non si dovevano toccare certi fili, certi nomi, certi fatti. Troppo scomodo, troppo imbarazzante, troppo sgradito e faticoso da digerire e conseguentemente da perdonare. Una seccatura che fin da subito si è cercato di eliminare con delegittimazioni, mistificazioni, isolamenti da parte del mondo politico, istituzionale, accademico ed intellettuale. Addirittura, come ha ricordato Aaron Pettinari, direttamente da Totò Riina arrivarono le “minacce di morte nei confronti del dottore Di Matteo” e il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, nel 2014, parlò del “progetto di attentato” nei suoi confronti. Quindi, “anche quando diciamo che la mafia non ammazza più dobbiamo stare attenti, perché ci sono determinati momenti in cui si vanno a toccare con certi processi i fili della tensione e in cui tutto questo può immediatamente ritornare”.
In conclusione, oggi è necessario parlare delle stragi con un’ottica di insieme, che sappia ordinare le verità emerse in questi anni e che sappia inserirle all’interno di un contesto storico preciso e complesso, in cui Cosa nostra non fece ovviamente tutto da sola: ci fu una sinergia con altre organizzazioni mafiose e una cointeressenza e convergenza di interessi con ambienti esterni alle stesse. Questo è emerso recentemente anche dal processo ‘Ndrangheta stragista il quale, ha spiegato il caporedattore, “ha dimostrato anche la partecipazione della ‘Ndrangheta alla strategia stragista e addirittura lo aveva fatto già nel 1991, quando venne ucciso il giudice Scopelliti, il magistrato che avrebbe dovuto portare in cassazione il Maxi processo di Falcone e Borsellino”.
Aaron Pettinari
Il ruolo dei giovani: la voglia di riscatto e la necessità di una rivoluzione culturale
Di fronte a questo scenario è facile venire sopraffatti da un senso di rassegnazione e di impotenza. Spesso è più semplice accettare lo stato delle cose, scendere a compromessi e convincerci che non possiamo fare nulla. In quei momenti è importante ricordarsi delle lotte di tanti nostri martiri, come Pio La Torre e Peppino Impastato, che ci hanno insegnato quanto la difesa dei nostri diritti, dei nostri territori e soprattutto dei nostri spazi di libertà e di espressione passi attraverso la nostra voglia di riscatto e di rivendicazione. E come questa reazione possa e debba provenire prima di tutto dai giovani.
“Stiamo vivendo nel nostro Paese e nel mondo un momento particolarmente difficile, un momento di guerre, di violenze inaudite, di sterminio di un intero popolo, quello palestinese a seguito dei gravissimi fatti del 7 ottobre. Stiamo vivendo un momento in cui si manifesta una sorta di insofferenza nei confronti della magistratura, ma di fastidio anche nei confronti della informazione: una sorta di bavaglio alla stampa che diventa una limitazione dei diritti di libertà e di democrazia per ciascuno di noi cittadini”. Sono state le parole del dottore Di Matteo di fronte ai 2000 studenti presenti nel teatro. “Io non ho mai creduto a quello che vogliono fare credere che i giovani sono indifferenti”, ha continuato. “I giovani hanno solo bisogno di punti di riferimento, di credere in loro stessi, di lottare per ideali per cui vogliono lottare e lo devono fare. E giudico particolarmente grave, insopportabile ed indicativo di un clima che non mi piace, il fatto che dei giovani che manifestano liberamente e pacificamente, come è accaduto recentemente a Pisa e il 23 maggio dell’anno scorso a Palermo, vengano manganellati. Quella è una sconfitta enorme dello Stato. Così come è stata una sconfitta incredibile dell’antimafia il fatto che il 23 maggio scorso alcuni attivisti delle associazioni antimafia (non quelle istituzionali che vanno bene a tutti), che cercano di sviluppare lo spirito critico e la loro conoscenza dei fenomeni mafiosi, sono stati manganellati per impedire loro di arrivare all’Albero Falcone per commemorare Giovanni Falcone e i caduti della scorta del giudice Falcone. Ribellatevi a tutto questo, pacificamente e la prima forma di ribellione è la conoscenza”. Per sconfiggere la mafia è necessario recidere ogni suo legame con il potere ufficiale e oltre agli strumenti legislativi-processuali e all’impegno politico-governativo, serve una vera e propria rivoluzione culturale, “che deve partire e che partirà dai giovani”. Un rinnovamento di idee, di visioni e di prospettive che passi “dal rifiuto, dal ripudio e dall’abbandono di quelle logiche sul cui terreno cresce la cultura mafiosa: la logica della raccomandazione, della lobby, dell’appartenenza e della prudenza. Sono logiche che costituiscono l’humus della mentalità mafiosa e che soltanto voi potrete capovolgere. La lotta alla mafia non può essere soltanto lotta delle istituzioni, ma come ci hanno insegnato con il loro esempio alcuni politici del passato, deve essere una lotta di popolo, per la libertà e dignità e per il rispetto effettivo di quello che c’è scritto nella nostra Costituzione”.
Foto © ACFB
Del 15 marzo 2024
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