Riflessioni a margine del libro "Il Colpo di spugna - Trattativa Stato mafia - Il processo che non si doveva fare" di Nino Di Matteo e Saverio Lodato
“Le sentenze della Magistratura devono essere rispettate, ma possono essere criticate. Anche quelle della Cassazione, che non possiedono il crisma della infallibilità”.
Lo precisa il magistrato, il sostituto procuratore nazionale antimafia, Dott. Nino Di Matteo a premessa del suo ultimo libro intervista “Il colpo di spugna – Trattativa Stato - Mafia: Il processo che non si doveva fare”, scritto con il giornalista Saverio Lodato, con l’ineludibile e non più procrastinabile intendimento di raccogliere frammenti di una storia lunga più di trent’anni, e ricollocare al giusto posto i tasselli di quel mosaico che narra di vicende di mafia attraversate e condizionate, lungo tutto questo lunghissimo periodo, dalla ormai famosa “trattativa”.
Un mosaico scomposto, i cui tasselli sono andati in parte dispersi, altri artatamente occultati o modificati tanto da offrire la visione di un quadro che descrive una storia non sempre corrispondente alla realtà.
Un chiarimento necessario, come Magistrato, forse addirittura dovuto nei confronti di sé stesso, per il suo impegno ultratrentennale in prima linea, ma anche a sostegno e difesa di quei giudici che, dice il Dott. Di Matteo, "pur nella parziale diversità delle rispettive conclusioni, avevano avuto il merito di individuare il metodo giusto con un giudizio non atomizzato e parcellizzato su ogni singolo segmento, ma con un approccio completo e di sistema a una serie di condotte, a volte anche omissive, che potevano essere comprese nella loro reale portata solo se tra loro collegate e valutate unitariamente”.
Probabilmente, il Dott. Di Matteo, questa necessità di esprimersi, l’ha avvertita anche nel suo ruolo di “storico”, per coerenza, e nel rispetto proprio di quella sezione della Corte di Cassazione che, nella sentenza in questione, di tale ruolo lo ha investito insieme agli altri giudici di Palermo, con una affermazione che, però, “assume una valenza offensiva proprio nei confronti della professionalità di questi giudici”, sostenendo che avrebbero ricostruito i fatti “secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”.
Ma, se anche volessimo leggere questa vicenda sotto questo profilo, sappiamo bene che la storia del mondo non può fondarsi su autorità ma su verità.
Da qui la necessità, se questo volesse essere l’approccio da seguire, di fare ordine, chiarezza.
Ogni ricostruzione storica può trovare dei limiti nella soggettività dell’analisi dello storico stesso che rischia di essere condizionato dalle proprie idee o credo politico, ma anche dal fatto che, egli, si dovrà avvalere di informazioni e dati offerti dalle fonti che, se falsate o non conformi alla realtà, lo indurranno, sine culpa, a riprodurre non la realtà dei fatti, bensì una sua inattendibile rappresentazione.
Nel caso in specie, elevato è quindi il rischio di offrire al mondo una ricostruzione storica, mistificata e inquinata, dei fatti inerenti alla vicenda della trattativa Stato mafia e del ruolo avuto. In questo ambito, dalle istituzioni e da alcuni uomini che, in posizioni apicali le hanno rappresentate se la primaria fonte che dovrebbe servire a ricostruirla è una sentenza della Corte di Cassazione che lo stesso Dott. Di Matteo, e come non condividerlo, considera “di un impatto devastante”
Novantuno (91), duemilanovecentosettantuno (2971), cinquemiladuecentotrentasette (5237), rappresentano il numero delle pagine delle motivazioni delle sentenze, rispettivamente, della Corte di Cassazione, Corte di Appello e Corte di Assise.
Novantuno (91) sono le pagine del documento contenente le motivazioni della Corte di Cassazione, pagine che, nella loro esiguità e sproporzione rispetto a quelle delle altre corti di primo e secondo grado, danno la sensazione di voler chiudere una volta per tutte la vicenda.
Il tutto, senza lasciar spazio a troppe riflessioni o a ulteriori dilazioni e rinvii, esorbitando lo stesso ambito del controllo di legittimità della Corte, con l’unica urgenza di riporre tra gli scaffali di un archivio, sperando che la polvere faccia velocemente il suo dovere, una vicenda ultratrentennale le cui ottomiladuecentootto pagine (2971+5237) scritte dei giudici di Assise e d’appello, espressione di un immane certosino lavoro, vengono vanificate, ridotte e stigmatizzate come “motivazioni elefantiache o manifestazioni manifestamente sovrabbondanti”.
- "Questo processo non s’aveva da fare, ma, siccome è stato fatto e ha portato a galla fatti inconfutabili, con l’autorità della Suprema Corte di Cassazione, va chiuso definitivamente" - sembrano voler dire gli emeriti ermellini.
Ma la storia del mondo non si fonda sull’autorità ma su verità.
E le “vere” verità sono ben altre rispetto a quelle che emergono dalla interpretazione dei fatti o, forse peggio, dalla interpretazione di una sola parte dei fatti tenuto conto che, come ben precisa il Dott. Di Matteo nel libro “Il colpo di spugna”, “se i fatti fossero stati valutati con una visione d’insieme, non si sarebbe arrivati a una decisione così liberatoria per gli imputati”.
A quanto pare, “un modus operandi” che, ribadisce sempre il Dott. Di Matteo, “troppe volte in passato ha caratterizzato l’approccio giudiziario alle più complesse vicende di Mafia, prassi diffusa quando non si voglia assumere decisioni delicate che rischiano di diventare dirompenti”.
Dirompenti, come la deflagrazione di una bomba, come le conseguenze di un attentato, ma che, se venissero adottate, proprio quelle decisioni ispirate dalla ricerca di verità, nell’essere dirompenti, creerebbero un punto di rottura, soluzione di continuità per una ripartenza dalla quale iniziare a ricostruire un mondo e una società perlomeno diversa da quella attuale.
Ma, purtroppo, le buone intenzioni, le parole di speranza e l’impegno per sconfiggere le mafie, quando e se espresse, sembrano destinate a rimanere note stonate accompagnate da vacue parole del peggior ritornello di una canzone cantata sottovoce.
“Meglio rappresentare ora una magistratura (requirente e giudicante) in preda a fantasie complottistiche che riconoscere come, anche nel periodo delle stragi, una parte dello Stato avesse “parlato” con il nemico. Troppo scomoda questa verità per essere consacrata in una sentenza definitiva”.
Con queste parole del Dott. Di Matteo, sintesi efficace e tragica dello “status quo” e dei meriti che (NON) si sono voluti riconoscere a chi ha dedicato la propria vita alla lotta alla mafia e alla tutela della democrazia, legalità e sicurezza del nostro Paese, potremmo chiudere queste nostre considerazioni.
Ci fermiamo un attimo, rileggiamo velocemente queste poche righe, riflessioni a margine di un nuovo libro sul tema trattativa e, perplessi, ci chiediamo : “Ma di cosa stiamo ancora parlando?”.
E poi, “era proprio necessario andare a riesumare tristi pagine di storie italiane (e non solo siciliane), raccogliere i cocci di uno Stato frantumato dalla vergogna di avere al proprio interno alcuni uomini, apicali espressioni delle principali e più onorate istituzioni militari e civili del nostro Paese, protagonisti di interessenze inaccettabili con apparati della criminalità mafiosa?”
Affinché la storia sia chiara, c’è bisogno di riepilogare ancora i fatti che hanno contribuito a costruire le prove dell’esistenza di un periodo buio del nostro Stato, per ribadire, per l’ennesima volta, l’esistenza di questa “trattativa”?
Sembra quasi di essere diventati dei soggetti affetti da un disturbo ossessivo compulsivo perseguitati, stremati e spaventati dal riproporsi di immagini e pensieri che riconducono a storie di connivenze, depistaggi, collusioni.
In realtà è solo un profondo senso dello Stato ciò che ci riconduce ancora insistentemente a queste domande, temendo che, certe derive, certe inopportune conclusioni giudiziarie, possano creare “anche per il futuro, la possibilità che alleanze di questo genere possano trovare avallo, incentivo, legittimazione in una pronuncia giudiziaria definitiva”.
E allora “Repetita iuvant”, c’è ancora bisogno di parlare della trattativa Stato-mafia.
E’ vero che il diritto non è la matematica dove due piu due fa sempre quattro ma, non per questo il diritto, e le sue espressioni piu significative quali sono le sentenze, non deve essere ispirato a principi di scientificità e non per questo, quale fonte di dignità pari a quella di una ricerca storica, di un articolo o di un reperto, non deve contribuire a costruire una immagine di un Paese, della società, in maniera perlomeno intellettualmente onesta e credibile.
Due piu due anche in questo caso deve fare quattro
E allora, sfogliando ancora questa nuova preziosa guida che vuole accompagnarci nei meandri della Trattativa, “Il colpo di spugna” ritroviamo tante testimonianze, sentenze, le stesse dichiarazioni dell’allora Presidente della Repubblica Napolitano, audito dai magistrati di Palermo, senza dimenticare la vicenda (eloquente e da non sottovalutare) del mancato attentato allo Stadio Olimpico.
Fatti cui si fa riferimento, ormai conosciuti, ma ai quali, qualcuno vorrebbe riconoscere il diritto all’oblio.
Se, in fondo, sommiamo tutti questi dati, come se fossero gli addendi di una operazione matematica, e tiriamo una linea, la loro sommatoria porta al risultato finale che corrisponde a confermare che la trattativa, non sarà certo una fattispecie di reato, ma c’è stata e ha impattato sulla storia della lotta alla mafia con la stessa gravita pari a quella che hanno avuto e hanno certi fatti che reati vengono considerati.
Alla fine anche nel diritto come nella matematica due più due non può non fare quattro.
Se, infatti, con calcoli matematici sbagliati rischiano di crollare i ponti, non da meno, con conclusioni giudiziarie, che disdegnano i fatti e accarezzano i desiderata della politica o assecondano superiori interessi non ben comprensibili ne tantomeno accettabili, rischiano di crollare le società civili, la democrazia e la fiducia nello Stato.
La domanda finale, rimane sempre la solita: “cosa possiamo fare, cosa può il comune cittadino, ci sono alternative?
Ci vengono in mente la rassegnazione, l’indifferenza, atteggiamenti che, regolarmente non fanno altro che spianare e asfaltare strade sulle quali far scorrere quel mondo basato sull’autorità e non sulla verità.
Ma il Mondo e la sua Storia si devono basare non sull’autorità ma sulla verità.
E allora, accanto e a sostegno concreto del lavoro svolto da magistrati, forze dell’ordine e giornalisti di inchiesta, altro deve essere il tipo di atteggiamento da mantenere e, l’unica alternativa vera, è l’antimafia sociale.
L’antimafia interpretata dai cittadini comuni con il loro impegno civile attraverso associazioni e movimenti che operano nel sociale predicando la legalità, non temendo di denunciare l’illecito, sfondando il muro dell’omertà, dell’indifferenza e della rassegnazione, ascoltando le parole degli ultimi e sostenendone le cause.
L’antimafia sociale, quella portata nelle scuole e raccontata ai giovani per riscrivere insieme a loro il significato di legalità, giustizia, democrazia.
L’antimafia sociale, quella per la quale il colpo di spugna di una sentenza non cancella la storia, ma offre nuove pagine bianche dove questa storia possa essere riscritta, riportandone con oggettività e onestà intellettuale i fatti, lasciando così ai lettori, ai cittadini, la possibilità di trarre le conclusioni più giuste, disponendo, in questo caso, di tutti gli elementi, fonti autentiche, per poterlo fare correttamente.
E, in fondo, pensandoci bene, parlare di Mafia negando la trattativa, sarebbe un po’ come raccontare, a una bambina o a un bambino, la favola di Cappuccetto rosso senza parlare del lupo anzi, negandone l’esistenza.
La favola non sarebbe più quella, sarebbe un’altra e, senza il lupo, anche il finale sarebbe diverso.
Probabilmente il narratore sarebbe costretto a scrivere che, anche la povera nonna malata, alla fine, non sia stata mangiata dal lupo ma si sia suicidata.
E, il lupo, al di sopra di ogni sospetto, scagionato da ogni responsabilità, perché il fatto non sussiste, sarebbe libero e continuerebbe a aggirarsi nei boschi, con il rischio che la storia si ripeta.
Se poi, altre nonne ne dovessero rimanere vittime, sarà solo, semplicemente un suicidio, perchè il lupo non esiste.
La stessa fine che, secondo Leonardo Sciascia, citato da Saverio Lodato nel libro “Il colpo di spugna”, dovrebbe fare lo Stato Italiano se volesse davvero sconfiggere la Mafia. Dovrebbe suicidarsi.
Ma la storia del mondo non si fonda su autorità né su fantasie ma su verità.
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