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Il memoriale dell'ex procuratore generale di Palermo inviato alla Commissione antimafia

Stragi mafiose, ambienti legati alla destra eversiva, 007 italiani ed esteri, così come massonerie e molteplici interessi che si intrecciano e si amalgamano nel disegno stragista del 1992 - '94. E poi i depistaggi, le telefonate di Paolo Borsellino sparite nel nulla, come la sua agenda rossa, le confidenze che il magistrato ucciso in via d'Amelio aveva ricevuto da Giovanni Falcone.
Prima dello scoppio delle bombe si erano affacciati sulla scena dei "suggeritori esterni", a detta di Riina "massoni"; per Leoluca Bagarella furono loro "i veri ideatori" che hanno pianificato le stragi con un "piano che era stato preventivamente stabilito o concordato" con Cosa nostra.
E poi le anticipazioni di Elio Ciolini e dell'agenzia 'Repubblica' (non il quotidiano) che profetizzarono le bombe che da lì a poco sarebbero scoppiate in tutta Italia.
L'ex procuratore generale di Palermo e oggi Senatore Roberto Scarpinato ha inviato alla commissione Antimafia nelle scorse settimane una memoria lunga 58 pagine sottoscritta anche da Federico Cafiero de RahoMichele GubitosaFrancesco Castiello e Luigi Nave.
Questo documento indica con precisione alla commissione antimafia i tanti 'buchi' che ancora vi sono nella ricostruzione di quel terribile periodo: "Chi erano i soggetti esterni di sesso femminile che – come emerge dalle più recenti indagini della magistratura - parteciparono alle stragi di Firenze e di Milano?
Tenuto conto che tali soggetti non potevano appartenere alle organizzazioni mafiose, di quali entità criminali esterne facevano parte?
Quali erano gli interessi di cui tali entità erano portatrici?
Le forze di polizia refertarono che la miscela di esplosivi utilizzata era diversa da quella utilizzata per le altre stragi del 1992 e del 1993 ed analoga a quella utilizzata in passato in attentati della destra eversiva.
"Chi erano i personaggi importanti che – come hanno riferito in pubblici dibattimenti i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Francesco Onorato – indussero Salvatore Riina a revocare l’ordine di uccidere Falcone a Roma con modalità tradizionali disponendo il rientro dalla capitale il 5 marzo 1992 del commando capitanato da Messina Denaro, per dare corso ad un attentato con modalità esplosive eclatanti che richiedevano un livello elevatissimo di competenze tecniche?
Chi erano gli ignoti che subito dopo la strage di Capaci si introdussero nella stanza del dott. Falcone al Ministero della Giustizia violando i sigilli apposti dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta, per esaminare i files del suo computer concernenti Gladio e i delitti politici, come risulta dalla consulenza tecnica esperita dalla magistratura?
Come fu possibile tale ingresso abusivo in una stanza posta sotto sequestro, con quali complicità?
Perché gli ignoti erano interessati a conoscere quali informazioni il dott. Falcone aveva acquisito su tali temi mentre, con elevata probabilità, si apprestava a ricoprire l’incarico di Procuratore Nazionale Antimafia? Chi soppresse alcuni files delle sue agende elettroniche?" L'elenco è lungo e la ricerca della verità sul periodo stragista potrebbe essere ulteriormente ostacolato qualora la commissione antimafia decida di ignorare quanto ancora resta da scoprire e investire energie su altre piste.


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L'arresto di Leoluca Bagarella © Archivio Letizia Battaglia


I "suggeritori" esterni delle stragi: “I massoni vosiru ca sifìci chistu”
Scarpinato ha riportato all'interno del documento che "i collaboratori Giuseppe Ferro, condannato per la strage di Via Georgofili a Firenze, e il collaboratore Tullio Cannella" hanno "entrambi dichiarato nel processo per la strage di Via Georgofili a Firenze che Leoluca Bagarella disse loro in circostanze diverse che l’indicazione per le esecuzioni delle stragi venivano da ambienti esterni a Cosa Nostra". Cannella, davanti alla Corte di Assise, all’udienza del 25 giugno 1997, disse che Bagarella gli riportò che "la ideazione delle stragi non è sua" ma è in realtà "il frutto di un determinato piano che era stato preventivamente stabilito o concordato. Bagarella inoltre disse che tutta la responsabilità sta venendo scaricata "su Salvatore Riina o su di me. Ma altri hanno questa responsabilità". "Ma intendo precisare - dichiarò Cannella - che il signor Bagarella mi disse in maniera molto chiara ed evidente che erano da ricercare in ambienti economico, politico, massonico, i veri mandanti e ideatori della strage". "Questa non è una interpretazione", rimarcò, "ma una espressione chiara". Giuseppe Ferro, invece, dichiarò di aver riferito a Bagarella alcune perplessità in merito alle stragi, in particolare alla perdita di consenso di Cosa nostra sulla popolazione: "Bagarella Leoluca allargò le braccia e mi rispose: 'Vogliono che facciamo rumore'".

E poi ancora: "Quando mi dovevano arrestare (si tratta dell’arresto della fine del 1992 ndr), ebbi un incontro con Bagarella a Castellammare. Gli chiesi se c’era un modo per evitare l’arresto, ricorrendo a qualche aiuto esterno a 'Cosa nostra', e Bagarella Leoluca mi rispose che al momento non c’erano aiuti e che erano 'gli altri, quelli che in passato erano stati aiutati, che chiedevano ora a noi aiuto'. Aggiungo ora che Cosa nostra riceveva informazioni anche da ambienti esterni che potevano essere quelli politici o quelli della massoneria". Ad aggiungersi vi furono anche le dichiarazioni rese alla Procura della Repubblica di Caltanissetta l'8 aprile 1988: Riina dopo avere incontrato Matteo Messina Denaro, aveva affermato in sua presenza che le stragi le avevano richieste i massoni: “I massoni vosiru ca sifìci chistu”. Infatti l'ex padrino corleonese "intercettato nel carcere di Opera nel corso del suo colloquio con il detenuto Lo Russo del 18 agosto 2013 esprimeva in modo infervorato tutto il proprio disappunto perché dopo il suo arresto erano state eseguite stragi fuori dalla Sicilia, in particolare a Firenze, accusando i mafiosi che avevano assunto tale decisione di essersi prestati a fare il gioco degli altri, altri espressamente indicati come i massoni. Il Riina qualificava i mafiosi che avevano deciso di eseguire la strage a Firenze come sbirri e infamoni, che nel gergo mafioso equivale a vicini ai poliziotti e ai servizi segreti". Infine, come ha rivelato il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi in dibattimento, il capo mandamento Raffaele Ganci resosi conto dell’irrazionalità della decisione di Riina di compiere le stragi tentò di dissuaderlo ma questi tagliò corto dicendo “mi assumo la responsabilità”. Uscito dall’incontro con Riina, Ganci disse a Cancemi “questo è pazzo, porterà alla rovina l’organizzazione”. Cancemi ha dichiarato che a quel punto lui e Ganci capirono che Riina aveva preso un impegno con soggetti esterni e che stava sacrificando gli interessi di Cosa nostra.


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L'ex ministro degli Interni, Vincenzo Scotti © Imagoeconomica


Le 'anticipazioni' del "botto" di Capaci
Ben 48 ore prima della strage di Capaci, ha riportato Scarpinato, "l’Agenzia Giornalistica 'La Repubblica' (che non ha niente a che fare con il famoso quotidiano ndr) anticipava che di lì a poco si sarebbe verificato 'un bel botto esterno' per interferire sulle elezioni in corso del nuovo Presidente della Repubblica".
Le indagini svolte dalla Dia "hanno permesso di appurare che il direttore responsabile dell’agenzia era Ugo Dell’Amico, figlio di Lando Dell’Amico, a sua volta 'Direttore politico' e fondatore (fin dal 1980) dell’agenzia. Lando Dell’Amico era stato per anni militante nell’estrema destra, legato al principe Junio Valerio Borghese, ed era stato coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana, nell’ambito delle quali nel 1974 era stato tratto in arresto in esecuzione di un mandato" di cattura emesso dai magistrati di Milano.
Ma vi è anche un altro caso: "alla fine del 1991 veniva tratto in arresto Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna. Al momento dell’arresto Ciolini veniva trovato in possesso di documenti e numeri di telefono attestanti i suoi rapporti con i servizi segreti statunitensi, italiani e di altre nazionalità".
Ciolini, il 4 marzo 1992, indirizzò una missiva al giudice istruttore presso il tribunale di Bologna: “Nel periodo marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone 'comuni' in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale 'omicidio' di esponente politico PSI, PCI, DC sequestro ed eventuale 'omicidio' del futuro Presidente della Repubblica". Questo appunto verrà poi riportato dall'allora capo della polizia Vincenzo Parisi in una nota riservata. Lo stesso giorno Ciolini consegnò un appunto "esplicativo della complessa strategia stragista e di destabilizzazione politica in corso di esecuzione che coinvolgeva oltre alle mafie, esponenti della massoneria, e che prevedeva che nel prosieguo di “distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia". A seguito di queste rivelazioni l'ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti, davanti alla commissione affari costituzionali del Senato disse che "nascondere ai cittadini che ci troviamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo". Andreotti giudicherà l'allarme lanciato da Scotti come "una patacca".

Leonardo Messina, le riunioni di Enna e i piani politici di Cosa nostra
Molti collaboratori di giustizia riferirono "che negli ultimi mesi del 1991 si erano svolte riunioni nella provincia di Enna riservate solo ad una ristretta élite di capi regionali di Cosa Nostra, nel corso delle quali era stato approvato un piano tenuto segreto al di fuori di quella cerchia ristretta di capi e quindi tenuto segreto anche ai componenti della commissione provinciale di Palermo ai quali alla fine del 1991 Riina comunicò solo le motivazioni interne attinenti agli specifici interessi di Cosa nostra, senza fare alcuna menzione della partecipazione di soggetti esterni e di quanto era stato deciso nelle riunioni di Enna".


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Leonardo Messina


Tale piano elaborato su indicazione di soggetti esterni appartenenti alla massoneria, al mondo politico, alla destra eversiva e prevedeva che gli omicidi e le stragi eseguite da Cosa nostra venissero indirizzate a fare l'interesse di un sistema criminale molto più ampio e "creare le condizioni per la discesa in campo di un nuovo soggetto politico in fase di formazione".
Inizialmente questo nuovo soggetto politico furono le leghe meridionali - di stampo indipendentista e separatista - poi cambiò e divenne Forza Italia.
A prescindere dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la compartecipazione alle stragi di complici eccellenti integrati in un complesso aggregato di forze criminali fu rilevata autonomamente dalla Direzione Investigativa Antimafia già in un'informativa del 1993 nella quale si evidenziava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse” e che dietro gli esecutori mafiosi c'erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Il primo collaboratore di giustizia a rivelare i contenuti delle riunioni di vertice ad Enna nel 1991 fu Leonardo Messina, audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia il 4 dicembre 1992.
"Avevano fatto la nuova strategia e avevano deciso i nuovi agganci politici, perché si stanno spogliando anche di quelli vecchi" disse Messina aggiungendo che "Cosa nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro". "In tutto questo Cosa nostra non è sola, ma è aiutata dalla massoneria", ci "sono forze nuove" non "tradizionali" e che "non vengono dalla Sicilia". "Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria - ha detto - Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra".

La Falange Armata
Vari collaboratori di giustizia hanno dichiarato che Salvatore Riina nel corso di alcune riunioni segrete svoltesi nella provincia di Enna nella seconda metà del 1991 aveva comunicato che tutti gli omicidi e le stragi dovevano essere rivendicate con la sigla “Falange Armata”. "Dalle indagini svolte sui contenuti dei comunicati della Falange Armata risulta che i suoi componenti erano a conoscenza di fatti segretissimi concernenti l’attività istituzionale all’estero e la vita privata del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, circostanza questa che conferma la loro appartenenza a circuiti istituzionali interni agli apparati statali". L’ambasciatore italiano all'O.N.U Francesco Paolo Fulci, Segretario del C.E.S.I.S. tra il 1991 ed il 1993, ritenne di individuare i componenti della Falange Armata in alcuni soggetti nominativamente indicati, appartenenti alla struttura Gladio. Chi erano dunque i componenti della Falange Armata?


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© Archivio Letizia Battaglia


Le confidenze ricevute da Paolo Borsellino da Giovanni Falcone
"In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone" disse Paolo Borsellino quel 25 giugno 1992 a Casa Professa: "Sono testimone perché (togliere o rileggere perché così è incompleto), avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze".
Da questo punto si deve considerare che Paolo Borsellino "si apprestava a formalizzare dinanzi alla Procura della Repubblica di Caltanissetta quanto da lui appurato in ordine alle causali e agli autori della strage di Capaci a seguito delle confidenze ricevute da Giovanni Falcone e delle rivelazioni a lui anticipate, ma non ancora verbalizzate, da parte di alcuni collaboratori ed altre fonti a tutt’oggi non individuate".
Ne è conseguita un'accelerazione "improvvisa della strage e la richiesta a Riina di eseguire la strage con estrema urgenza.
Accelerazione che come risulta dalle intercettazioni dei colloqui in carcere di Riina, fu richiesta al medesimo da terzi i quali gli evidenziarono che erano sopravvenuti motivi di estrema urgenza". "E’ evidente tuttavia che non era sufficiente la soppressione fisica di Borsellino. Se l’agenda rossa nella quale egli aveva annotato tutte le informazioni che si apprestava a riferire alla Procura di Caltanissetta e a verbalizzare in proprio per quanto di sua competenza, fosse finita nelle mani dei magistrati, lo scopo dell’accelerazione della strage sarebbe stato frustato. I mafiosi dopo avere fatto esplodere l’autobomba non potevano attardarsi a cercare e prelevare l’agenda rossa, perché potevano essere visti da qualcuno dalle numerose finestre degli appartamenti degli stabili circostanti. Tale compito doveva essere assolto da insospettabili che grazie alle loro credenziali pubbliche potevano subentrare sulla scena della strage senza destare sospetti.
Da qui il perfetto sincronismo operativo tra mafiosi esecutori della strage e la discesa in campo di uomini dei servizi segreti completamente disinteressati alle vittime e ai feriti, e interessati esclusivamente alla borsa di Paolo Borsellino da cui venne prelevata solo l’agenda rossa, lasciando al suo posto un’altra agenda non ritenuta di interesse".
Risulta che Borsellino per ricostruire le cause della strage di Capaci "si avvalse delle confidenze e delle informazioni ricevute in precedenza dal dott. Falcone". Tra queste due stragi, si evince, vi è un nesso: questo "emerge dal fatto che ignoti appartenenti al circuito istituzionale dopo avere effettuato la cancellazione di files delle agende elettroniche di Giovanni Falcone, fecero sparire anche i tabulati telefonici delle telefonate in entrata sull’utenza mobile di Paolo Borsellino".
Gioacchino Genchi, già esperto di informatica e telefonia, riferì che "il traffico telefonico del cellulare di Paolo Borsellino in entrata è stato fatto scomparire". "Io l'ho chiamato" disse il maresciallo Canale, ma queste chiamate non risultano. Il non avere a disposizione le chiamate in entrata sul telefono di Borsellino "ha indubbiamente sottratto importanti piste investigative che se percorse subitaneamente avrebbero consentito di ricostruire più agevolmente gli ultimi giorni di vita" del magistrato "senza dover ricorrere, a distanza di molti anni, ad assunzioni testimoniali che per loro natura - a prescindere dalla buona o malafede del dichiarante - si prestano a maggiori imprecisioni".


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Il generale Antonio Subranni


"Subranni è punciuto"
Agnese Piraino Borsellino
, moglie di Paolo Borsellino, riferii che “il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto. Mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu". "Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l'Arma dei Carabinieri era intoccabile". "Tre giorni dopo, durante una passeggiata sul lungomare di Carini, mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”. "Dalle dichiarazioni della vedova di Borsellino si traggono tre conseguenze: In primo luogo - si legge - Borsellino aveva ricevuto le informazioni sopra specificate da fonti da lui ritenute pienamente attendibili e che a tutt’oggi non sono state identificate. In secondo luogo che la strage di Via d’Amelio ha sortito un tale effetto intimidatorio nei confronti di tali fonti da ridurle al silenzio. In terzo luogo che tali fonti non sono individuabili proprio grazie alla sottrazione dell’agenda rossa". "Circostanza questa che ancor più evidenzia la inscindibile connessione della strage di Via d'Amelio non solo con quella di Capaci, ma anche con quelle del 1993, atteso che il perfetto sincronismo operativo dell’azione omicidiaria del dott. Borsellino eseguita da appartenenti a Cosa Nostra con il repentino intervento sul luogo della strage di individui appartenenti ad apparati istituzionali per sottrarre l’agenda rossa nella quale il dott. Borsellino aveva annotato quanto aveva intenzione di riferire alla Procura di Caltanissetta, appare inequivocabilmente finalizzato a occultare indizi suscettibili di coinvolgere personaggi esterni a Cosa Nostra coinvolti nella strage di Capaci e suggeritori delle stragi successive eseguite nel 1993".

I segreti delle stragi nella morte del 'suicidato' Nino Gioè
Il boss di Altofonte, Antonino Gioè, nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 venne ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali bollarono frettolosamente il fatto come un suicidio, ma oggi è evidente a tutti che dietro a quel decesso vi fosse molto altro. Secondo gli inquirenti di allora con quel gesto il capomafia, che si trovava a Punta Raisi il giorno della strage di Capaci, si sarebbe tolto la vita prima che fosse la stessa Cosa nostra ad intervenire. La sua "colpa" sarebbe stata nelle intercettazioni registrate dalla Dia nel covo di via Ughetti (la famosa palazzina in cui si era nascosto nei mesi successivi all'arresto di Riina assieme a Gioacchino La Barbera). Lì sono stati registrati i dialoghi in cui si parla dell'“Attentatuni” di Capaci, di droga ed anche altri riferimenti su possibili attentati al Palazzo di Giustizia di Palermo o contro gli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Pianosa.  Come si spiega che i carabinieri di Altofonte con nota dell’8 agosto 1967 prot. 2810/5 abbiano attestato che il Gioè, sebbene figlio di un noto pregiudicato mafioso più volte tratto in arresto, era un “giovane che offre fiducia per la sicurezza e ritenuto idoneo a disimpegnare particolari incarichi di natura riservata”? Scarpinato ha riportato il fatto che il mafioso di Altofonte era il contatto fornito dal pentito Francesco Di Carlo a tre esponenti dell’intelligence. Trafficante di droga con base in Inghilterra, accusato di essere l’assassino di Roberto Calvi, nel 1989 Di Carlo si trovò nella prigione di Full Sutton, in Gran Bretagna, quando ricevette la visita di tre persone, tutti agenti dei servizi: un tale Giovanni, che si era presentato come amico di Mario Ferraro, uomo del generale Giuseppe Santovito, già capo del Sismi; un secondo uomo di nome Nigel che si qualificò come uomo dell’intelligence inglese e un altro italiano, di cui Di Carlo non percepì il cognome. Che volevano questi agenti segreti dal mafioso detenuto? Secondo Di Carlo gli chiesero un contatto con Cosa nostra per attuare un “piano di delegittimazione” del giudice Falcone, costringendolo ad andare via da Palermo. Lui li indirizzo verso Gioè, che era suo cugino. Tempo dopo il pentito riconobbe sul giornale la foto del terzo agente, quello di cui non aveva sentito il cognome: era Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo che negli anni successivi gestirà la collaborazione di Vincenzo Scarantino, il falso pentito al centro del depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino. “Esiste una connessione tra questa richiesta di La Barbera e il suo successivo ruolo nel depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio?”, domanda Scarpinato nel documento.


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Il collegamento con Paolo Bellini
Nel documento redatto da Roberto Scarpinato viene ricordato che Gioè poco prima che iniziasse a collaborare con la magistratura secondo quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia Gioacchino La Barbera e Santo Di Matteo - fece espresso riferimento a Paolo Bellini come “infiltrato” nella missiva redatta prima di morire. Ricordiamo che Paolo Bellini fu esponente di Avanguardia Nazionale, uomo collegato ai servizi segreti, condannato in primo grado come esecutore della strage di Bologna del 2 agosto 1980, presente in Sicilia nel periodo della strage di Capaci, di Via d’Amelio e suggeritore degli obiettivi da colpire con le stragi del 1993.L'ex terrorista nero "dialogò ripetutamente in quei mesi con Antonino Gioè, esecutore della strage di Capaci, a sua volta uomo cerniera tra la mafia e i servizi segreti, al quale, come ha dichiarato Giovanni Brusca, suggerì di alzare il livello dello scontro con lo Stato effettuando attentati contro i beni artistici nazionali, idea questa maturata già nel 1974 all’interno di Ordine Nuovo, formazione della destra eversiva i cui esponenti sono stati riconosciuti colpevoli delle stragi di Milano del 1969 e di Brescia del 1974 e che, come è stato accertato, hanno goduto di protezioni statali ad altissimo livello".

Rielaborazione grafica di copertina by Paolo Bassani

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