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Il boss trapanese, spavaldo, dice ai medici: "Sono stato bravo nel mio campo"

Reparto detenuti dell’Ospedale San Salvatore a L’Aquila. Molto probabilmente è qui che Matteo Messina Denaro, protetto da un numero considerevole di forze dell'ordine, Esercito compreso, che presidiano gli ingressi del nosocomio, trascorrerà il tempo che gli resta prima di essere vinto definitivamente dalla malattia.
Il tumore al colon è in stato avanzato e da quando è stato nuovamente ricoverato i medici starebbero somministrando solo le cure per il dolore e l'alimentazione parenterale, cioè la nutrizione per endovena, mentre è stata sospesa la chemioterapia. All'Aquila da qualche tempo si sono trasferite la figlia Lorenza Alagna, che di recente ha chiesto di potere avere il cognome del padre, e la sua legale, e nipote, l'avvocata Lorenza Guttadauro.
Indiscrezioni giornalistiche raccontano di un Messina Denaro che scambia parole con i medici, parlando anche del tema della morte.
“Dottore, secondo lei di tutti quelli che muoiono, quanti vengono ricordati? Il 5 per cento?” avrebbe domandato qualche tempo fa. E quando il medico avrebbe risposto che, a suo modo di vedere, la percentuale era più bassa, il boss trapanese avrebbe aggiunto: “Vabbè, dottore: a lei la ricorderanno. E pure a me. Perché come lei è bravo nel suo campo, pure io sono stato bravo nel mio”.
Ieri è stato avviato, davanti al Tribunale di Marsala, il processo che lo vede imputato nell'ambito delle inchieste "Annozero" e "Hydi". Al boss si contesta di avere impartito direttive, attraverso rapporti epistolari, costituendo il punto di riferimento mafioso decisionale in relazione alle attività e agli affari illeciti più importanti, gestiti da Cosa Nostra, in provincia di Trapani e in altre zone della Sicilia. Ovviamente non poteva essere presente e l'udienza è stata aggiornata al 18 ottobre. Ma ovviamente non è dato sapere quanto tempo di vita resta ancora all'ex superlatitante.
Lo scorso 20 luglio nei suoi confronti è stato confermato in appello l'ergastolo per essere stato mandante delle stragi del 1992 in cui morirono i giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte.
Del resto Messina Denaro è uno di quei pochi capomafia che di quella stagione di sangue e bombe conosce i misteri.


conferenza stampa mmd debph

La conferenza stampa dell'arresto di Matteo Messina Denaro lo scorso 16 gennaio © Deb Photo


"Messina Denaro è stato testimone e protagonista della stagione dell'attacco mafioso allo Stato - ha detto ieri su Rai 3, intervenendo nella trasmissione 'Il cavallo e la Torre', il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia - sarebbe importante se ci aiutasse a ricostruire quella stagione e la ragione per cui si scelse di attaccare i luoghi d'arte. Vorremmo capire anche chi fossero gli ispiratori di questa strategia stragista fuori dalla Sicilia: Cosa nostra ha sempre esercitato la sua violenza in Sicilia, ma nel 1993 scelse in modo anomalo e innovativo di spostarsi sul territorio italiano".
Per il momento, però, Messina Denaro non sembra affatto disposto a collaborare con la giustizia. "Non mi farò mai pentito. Voi mi avete preso per la mia malattia" aveva detto ai magistrati di Palermo che erano andati ad interrogarlo dopo l'arresto del 16 gennaio 2023.
Così come era avvenuto davanti al Gip Alfredo Montalto (“Dal punto di vista economico non mi manca niente”) anche in quell'interrogatorio, riassunto in settanta pagine, aveva mostrato tutta la propria strafottenza. Sapeva dove erano nascoste le telecamere degli investigatori. Lo sapeva grazie ad un apparecchio di rilevamento delle microspie, ma anche perché veniva informato. Da chi? "Amici miei, che non dico" aveva risposto al Procuratore de Lucia e all'aggiunto Paolo Guido.
In quell'interrogatorio Messina Denaro nega di aver fatto parte di Cosa nostra (“Non sono uomo d’onore. Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali”. “La mia vita non è che è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata"), respinge le accuse di stragi e omicidi, specie quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore di giustizia rapito, strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi di prigionia. Quindi smentisce di aver mai trafficato in droga (“ero benestante, mio padre faceva il mercante d’arte”).
Ovviamente mente, sapendo di mentire.


denaro messina matteo tratta da repubblica palermo

Messina Denaro da giovane


Lui è stato a tutti gli effetti un "mandante" dell'omicidio del piccolo Di Matteo. E molto di più.
Lui sa perfettamente di essere uno spietato killer sanguinario. Ai suoi fedelissimi aveva confidato di aver “ucciso tante persone da poter riempire un cimitero”.
Fu lui a far parte del commando che uccise Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo che, raccontano alcuni collaboratori di giustizia come Armando Palmeri, avrebbe voluto ribellarsi alla strategia stragista di Riina.
Sempre lui fu ad uccidere la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, incinta di tre mesi, che aveva un parente appartenente all’Arma dei Carabinieri che aveva lavorato anche per il Sisde.
Nel 1993, a soli 31 anni, fu favorevole alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi insieme ai boss Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.
A causa delle bombe di Firenze, Milano e Roma morirono dieci persone (tra cui Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente di 9 anni e di 50 giorni) e vi furono 106 feriti a cui sono da aggiungersi i danni al patrimonio artistico. Stragi per cui è stato condannato all'ergastolo con sentenza definitiva nel 2002.
Di tutti questi delitti conosce retroscena e segreti. Lui è il possessore, così come ha raccontato il collaboratore di giustizia Nino Giuffré, dei documenti di Totò Riina.
Potrebbe spiegare quel che avvenne nel gennaio 1992 quando, assieme ad altri boss di Brancaccio, il giovane “Diabolik” venne richiamato da Roma dove era stato inviato a valutare la possibilità di uccidere Giovanni Falcone, e l’allora ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, a colpi di kalashnikov, fucili e revolver.


riina salvatore aula bunker shobha

Il 'capo dei capi', Totò Riina © Shobha


Sembrava tutto pronto quando Salvatore Riina, forse “preso per la manina” da qualcuno come ha poi raccontato il pentito Salvatore Cancemi, cambiò idea optando per un altro luogo ed un'altra modalità per la strage, virando sull’autostrada Palermo-Punta Raisi, fatta saltare in aria con il tritolo all’altezza dello svincolo per Capaci.
Matteo Messina Denaro è anche consapevole di ciò che sarebbe avvenuto dopo.
“Se mi succede qualcosa i picciotti sanno tutto” avrebbe detto Totò Riina a Giovanni Brusca nel dicembre 1992. I picciotti erano due: Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Sono loro i custodi principali dei segreti di Cosa nostra.
Matteo Messina Denaro conosce la verità sul progetto di attentato contro il magistrato Nino Di Matteo, secondo gli inquirenti ancora in corso. Ai mafiosi di Palermo, nella missiva che aveva inviato nel dicembre 2012, così come raccontato dal pentito Vito Galatolo, uccidere il magistrato era una richiesta che proveniva da altri mandanti perché Di Matteo “si era spinto troppo oltre”.
Se Matteo Messina Denaro vuole essere ricordato dovrebbe fare una scelta precisa, netta, coerente e coraggiosa: arrendersi per davvero e collaborare con la giustizia, senza se e senza ma, svelando i nomi di quei mandanti esterni delle stragi che hanno portato alla morte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri innocenti.
Così davvero resterebbe nella storia, non per il suo essere mafioso, ma per essere colui che ha sconfitto il Sistema criminale, superando la morte.

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