Dal ruolo di Paolo Romeo come “mente pensante” ai collegamenti con pezzi di Stato per accerchiare le istituzioni
Una sentenza che fa storia e che dimostra in maniera chiara e netta l'esistenza, in seno alla 'Ndrangheta, di un'elevata struttura criminale, segreta e collegiale, capace di muoversi su più piani e di gestire rapporti di altissimo livello.
Altro che “visioni” o “teoremi” da parte della pubblica accusa (rappresentata in anni di inchieste e di processi dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo assieme ai pm Sara Amerio, Walter Ignazzitto e Stefano Musolino), ma qualcosa di assolutamente reale e concreto.
E' l'evoluzione della 'Ndrangheta, invisibile o di sostanza, così come è stata chiamata dai collaboratori di giustizia, che decide le linee di indirizzo per tutti i clan.
A comporlo le “menti più raffinate della ‘Ndrangheta”, capaci di “elaborare una strategia alternativa, finalizzata a cambiare il fenomeno criminale, rendendolo ancora più insidioso in quanto più subdolo e di difficile accertamento”.
Quella metamorfosi non era nota al cosiddetto 'livello militare', ma conosciuta tra i 'riservati'. Una segretezza utile anche per garantire la sopravvivenza e la ricchezza di tutti senza inutili spargimenti di sangue. Il Tribunale fa anche riferimento alla “fase storica corrispondente a quella della stagione stragista” dove si ha “un connubio tra criminalità organizzata e movimenti terroristici”. E' in quel periodo che “accanto ai soggetti di estrazione tipicamente criminale, ed allo sviluppo delle strutture organizzative superiori, acclarate in una determinata fase storica nella Provincia articolata nei tre mandamenti, destinata ad applicare le regole tradizionali, si sviluppava l’esistenza di una struttura collaterale, riservata a pochi soggetti di identità occulta alla base, con cui necessariamente la ‘Ndrangheta tradizionale nelle sue strutture apicali doveva interloquire, nell’assicurare il governo della ‘Ndrangheta militare, costituente comunque il bacino della forza operativa”.
Nel tempo la struttura di “invisibili” è stata capace di accrescere il proprio potere, non solo accaparrandosi tutte quelle risorse che a livello comunale, regionale, nazionale ed europeo erano state destinate allo sviluppo della città di Reggio Calabria e della Regione.
Ma anche incidendo sull'economia e quindi la democrazia del Paese.
Si parla anche di questo nelle 7.683 pagine di motivazioni della sentenza di primo grado del processo 'Gotha', prodotte dai giudici del Tribunale di Reggio Calabria (Presidente Silvia Capone, giudici a latere Andreina Mazzariello e Stefania Ciervo). Un procedimento nato dalla riunione delle inchieste "Mamma Santissima", "Reghion", "Fata Morgana", "Alchimia" e "Sistema Reggio".
Con il processo è stato raccontato il cambiamento d'approccio della criminalità organizzata avvenuto immediatamente dopo le faide interne delle due guerre di mafia. Per sfuggire anche all'esposizione e alle conseguenti repressioni delle forze dell'ordine, si era resa necessaria un'opera di inabissamento. Ciò, scrivono i giudici, ha portato “le menti più raffinate della 'Ndrangheta ad elaborare una strategia alternativa, finalizzata a cambiare il fenomeno criminale, rendendolo ancora più insidioso in quanto più subdolo e di difficile accertamento. In tale percorso evolutivo, determinato certamente dalla finalità di preservare il potere criminale acquisito, ha inciso la necessità di contenere gli effetti destabilizzanti della forte e costante operazione di contrasto posta in essere dallo Stato”.
Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo © Emanuele Di Stefano
Quel cambiamento è avvenuto “da determinazioni di soggetti intranei al fenomeno criminale, capaci di strategie riservate a menti raffinate, in quanto difficili da comprendere ai più tra gli adepti. E proprio in quanto metodi inusuali, ed apparentemente antitetici alla stessa essenza prevaricatrice della ‘Ndrangheta, essi sono stati ideati e gestiti da soggetti che hanno mantenuto un ruolo occulto”.
Il primo passo, secondo il Tribunale, sarebbe stato nella “nascita della santa, la prima dote concepita per consentire agli appartenenti alla ‘Ndrangheta di approcciarsi ad esponenti dell’imprenditoria, della politica e dello Stato con il metodo del dialogo”.
Ed è così che la 'Ndrangheta si è interfacciata con tutti gli ambienti di potere dentro e fuori la città reggina.
In tal mondo si è consolidata una “struttura collaterale composta da appartenenti sia alla ‘Ndrangheta tradizionale, nei suoi rappresentanti più capaci dell’elaborazione di strategie di 'accerchiamento' delle istituzioni, sia di soggetti appartenenti alla c. d. zona grigia, e cioè di professionisti, politici, appartenenti alle forze dell’ordine ed ai servizi deviati. Detta struttura, in ragione della sua finalità, che era quella della costituzione di un ponte di collegamento stabile tra criminalità organizzata ed apparati dello Stato, necessariamente era dotata di un livello di segretezza ancora maggiore rispetto a quello intrinseco alla organizzazione criminale tradizionale. Essa trovava humus favorevole nella massoneria e nelle logge massoniche spurie, quale luogo di incontro in contesti segreti secondo le stesse regole massoniche dei due contesti solo apparentemente contrapposti”.
Il ruolo di Paolo Romeo
Il processo si era concluso due anni fa in aula bunker con 15 condanne e 15 assoluzioni.
Imputato principale indubbiamente Paolo Romeo, condannato a 25 anni.
Condanne erano arrivate anche per lo storico braccio destro di Romeo, l'avvocato Antonio Marra (17 anni), per l'ex sottosegretario regionale Alberto Sarra (13 anni), per l'attuale parroco di San Luca ed ex rettore del santuario di Polsi, don Pino Strangio (9 anni e 4 mesi), per l'uomo ombra dei clan in Regione Calabria, Franco Chirico (16 anni), per l'ex antenna del Sismi, Giovanni Zumbo (3 anni e 6 mesi), per il dirigente comunale Marcello Cammera (2 anni, ma assolto dall'aggravante mafiosa) insieme ad altri sei più o meno noti esponenti dei clan. Assolto invece il senatore Antonio Caridi, imputato per concorso esterno, e l'ex presidente della provincia, Giuseppe Raffa, più altre 13 persone. Va ricordato che per 11 di loro, alla luce di una sentenza di Cassazione che rendeva inutilizzabili le intercettazioni, era stata la stessa procura a non chiedere ai giudici la condanna.
Giorgio De Stefano e Paolo Romeo
Romeo, ex parlamentare del Psdi, piduista, vicino alla destra eversiva (per sua stessa ammissione responsabile della latitanza del terrorista nero Franco Freda) e a strutture paramilitari come Gladio, per decenni è stato uno dei massimi riferimenti della cosiddetta "Reggio bene". Secondo i giudici non solo si può parlare di “piena intraneità” di Romeo alla famiglia criminale dei De Stefano con un ruolo di vertice, ma lo stesso va considerato come uno dei capi componenti “della massoneria segreta o componente riservata della ‘Ndrangheta unitaria”.
Prima di arrivare a tale conclusione, però, avvalendosi anche dell'apporto dei collaboratori di giustizia, il Tribunale ha ricostruito la rete di relazioni avute dall'ex parlamentare con le famiglie di 'Ndrangheta.
Secondo i giudici Romeo “ha certamente mantenuto costanti rapporti con il gruppo De Stefano direttamente con il capo Paolo De Stefano, oppure attraverso altri accoliti tra cui Giorgio De Stefano”. Proprio con quest'ultimo condivide la citazione in “plurime conversazioni da soggetti intranei alla criminalità organizzata”.
Gli esempi riassunti dal Tribunale sono diversi: la conversazione tra l’imprenditore Franco Labate e Domenico Barbieri, in cui si discuteva di come gli appalti del Comune di Reggio “avvenivano secondo criteri spartitori definiti da Paolo Romeo e Giorgio De Stefano a cui doveva essere corrisposta la quota estorsiva”; la conversazione intercettata nel circolo Posidonia tra Antonio Marra e Paolo Romeo “in cui il Marra sollecitava il Romeo sulla necessità di riassumere il controllo di Scopelliti attraverso un confronto diretto, ed allo stesso tempo lo metteva in guardia dal rischio di essere scoperti a causa della esposizione connessa all’attività politica ed associativa, dicendo che tale sovraesposizione rischiava di vanificare l’aver operato dietro 'i rovi' e di consentire l’accertamento dell’effettivo ruolo direttivo svolto da Paolo Romeo e Giorgio De Stefano”.
Il terrorista di estrema destra, Franco Freda
La vicenda Freda
Particolamente approfondita nella sentenza è la vicenda “Freda”. “Non si è trattato di una vicenda personale di colorazione esclusivamente politica (come si è sostenuto da parte della difesa) con esclusione di ogni possibile risvolto di natura mafiosa, poichè non è stato un fatto realizzato da esponenti politici (istituzionali o deviati, poco importa), avulso dalla realtà mafiosa locale, – hanno spiegato i giudici - bensì di una situazione contingente particolarmente difficile di un esponente della destra eversiva il quale si è rivolto ad un clan mafioso reggino per ottenere protezione e rifugio. È stato il clan reggino, a sua volta, a servirsi di altro soggetto affidabile e vicino alla organizzazione per realizzare il progetto richiesto”.
Ma a Reggio Calabria Romeo è un riferimento fin dai tempi dei Moti degli anni Settanta e del tentato golpe Borghese, che sarebbe dovuto partire proprio dalla città dello Stretto.
Numerosi collaboratori, confermano i giudici, “hanno espressamente riferito di un interesse del gruppo De Stefano ad una certa svolta politica sino a nutrire una palese speranza verso un eventuale golpe; non si tratta di fantapolitica, come più volte eccepito dalla difesa, ma di semplici indicazioni afferenti una realtà ormai innegabile sulla scorta delle numerose pronunzie giurisdizionali che hanno riconosciuto in alcuni episodi il nefasto legame esistente tra politica e mafia in uno scambio utilitaristico di dare ed avere”.
E guardando a Romeo i giudici hanno evidenziato come la sua ideologia politica sia “sempre orientata a destra sin dai tempi degli studi universitari che, poi, lo hanno portato ad essere eletto negli organi del Comune di Reggio Calabria e alla Camera dei Deputati (prima nel partito M. S. I. e poi nell'altro partito P. S. D. I.), contestualmente agli stretti legami con il gruppo De Stefano, avevano certamente contribuito alla sua partecipazione alla vicenda Freda”.
Secondo il collegio è chiaro che “non si spendono energie di uomini e mezzi per assicurare fuga e protezione ad un brigatista, mettendo a repentaglio la sicurezza di accoliti di un gruppo mafioso (si pensi allo spiegamento di Forze di Polizia all'epoca attuato per catturare il brigatista) se non per identità di ideologie che garantiscano il soddisfacimento di interessi. Un boss mafioso, quale era Paolo De Stefano, ben difficilmente avrebbe posto la propria organizzazione (attraverso il Romeo, Giorgio De Stefano, Filippo Barreca e poi Carmelo Vadalà) a disposizione di un brigatista in mancanza di un proprio tornaconto personale che, dato il momento storico, coincideva perfettamente con i programmi eversivi del Freda”.
(continua)
Foto di copertina © Emanuele Di Stefano
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