Spesso in questi anni c'è chi ha voluto far credere che le stragi sono un periodo chiuso, una storia di 30 anni fa. Nel 1992 sono morti Falcone, Borsellino e gli uomini delle scorte. Nel 1993 la mafia alza il tiro colpendo i monumenti e uccidendo vittime innocenti a Firenze e Milano. Su quel biennio stragista nonostante i decenni trascorsi e le numerose sentenze giunte all’ultimo grado di giudizio, restano aperte tante domande e sullo sfondo sono presenti troppe opacità.
In mente vengono le parole dette dal Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo durante la requisitoria di primo grado del processo 'Ndrangheta stragista, laddove veniva ricordato che ciò che è avvenuto negli anni delle stragi appartiene "all'eterno presente perché le stragi di mafia, in questa nazione, non sono solo fatti del passato. Perché quelle stragi eversive, spaventose, drammatiche, consumate ai danni di tutti noi e di uno Stato di cui tutti noi siamo cittadini, sono proprio la rappresentazione giudiziaria del concetto filosofico dell’eterno presente" e continueranno ad esserlo finché non verrà colmato il desiderio di verità delle vittime e di tanti cittadini onesti.
L'attentato di via Palestro
Sono le 23.14 quando a Milano, la notte del 27 luglio, si sente un forte boato provenire da via Palestro.
Ad esplodere, davanti al Pac (il Padiglione d'Arte Contemporanea), è un'autobomba. Lo stabile viene completamente distrutto e a causa dello scoppio muoiono Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, vigili del fuoco e il vigile urbano Alessandro Ferrari, intervenuti sul posto perché dal cofano di quell'auto, una Fiat Uno, usciva del fumo. Muore anche Driss Moussafir, migrante raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva poco più in là, su una panchina dei giardini pubblici. Altre dodici persone rimangono ferite.
Trent’anni dopo l'attentato sono tante le domande inevase. Così come è avvenuto per la strage di via d'Amelio non sappiamo chi ha imbottito quella macchina di esplosivo e neanche chi l'ha guidata fino al luogo della strage. Resta la testimonianza di chi vide una donna bella, bionda e magra, probabilmente sotto i trent'anni, allontanarsi dal veicolo poco prima dell'esplosione. E cosa ci faceva una donna lì? E' un fatto noto che in Cosa nostra nessuno ha mai indicato donne all'interno delle "squadre" messe in campo per compiere delitti ed attentati.
La commemorazione della strage di via Palestro questa mattina a Milano © Imagoeconomica
La procura di Firenze, diretta da Giuseppe Creazzo, che ha creato un pool che vede l'impegno dei procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco. E sono loro ad aver ripreso in mano gli identikit da cui emerge che le figure femminili dietro le stragi sarebbero non una, ma addirittura quattro.
Adesso i verbali con le testimonianze raccolte dopo le stragi sono stati ripresi dalla Procura fiorentina.
La Procura di Firenze ha anche iscritto nel registro degli indagati tale Rosa Belotti, una 59enne di Bergamo. Secondo l'accusa potrebbe essere lei ad aver guidato la Fiat Uno imbottita d’esplosivo fino in via Palestro.
Si è giunti alla sua persona tramite un software, che ha incrociato l’identikit della donna, costruito sulla base dei racconti dei testimoni, con una vecchia foto che ritraeva una giovane: era stata ritrovata durante una perquisizione del settembre del 1993 in un villino di Alcamo, in provincia di Trapani. Quell’abitazione, gestita da due carabinieri, nascondeva un gigantesco deposito di armi clandestino: all’epoca si disse che quelle armi servivano alla struttura di Gladio nel trapanese, ma poi le accuse caddero. La foto, invece, è rimasta agli atti e molti anni dopo ha messo nei guai Rosa Belotti. La donna, sentita dai magistrati, ovviamente ha respinto ogni accusa asserendo che lei in via Palestro non era presente. Ma ha anche confermato che la donna della fotografia di Alcamo era lei.
Le indagini e i processi
Parte della verità sulla strage di via Palestro venne ricostruita grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Così, nel 1998, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993.
Parliamo del gruppo che faceva capo a Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio ritenuti "propulsori" della strategia stragista in Continente.
Ma le sentenze mostrano che dietro a quella strategia stragista vi potesse essere anche altro. “Purtroppo - si legge - la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica 'esterna'”.
Un nuovo capitolo si è poi aperto nel 2002 quando, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso ("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente l'attentato. I fratelli Formoso vennero condannati nel 2003 all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano ed il giudizio venne confermato anche nei successivi gradi di giudizio.
Una nuova spinta è giunta nel 2008 quando ha iniziato la propria collaborazione con la giustizia Gaspare Spatuzza, ex boss di Brancaccio che ha contribuito a riscrivere la verità sulla strage di via d'Amelio.
Con le sue dichiarazioni di fatto Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo. Ciò non bastò a portare alla revisione del processo tanto che nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano.
Con le stesse motivazioni, di fatto, è stato assolto in via definitiva anche Filippo Marcello Tutino, accusato di essere stato il basista della strage.
Filippo e Giuseppe Graviano
Dopo Milano, Roma
Pochi minuti dopo la stessa scena si verifica a Roma dove esplodono due ordigni: uno sul retro della Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia, l’altro davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle stesse ore viene registrato un black out a palazzo Chigi, la sede del Governo e le linee telefoniche rimangono isolate per alcune ore.
Sono gli attentati di quella lunga notte della nostra Repubblica di cui ieri ricorreva il triste anniversario.
Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente del Consiglio, interrogato dai magistrati di Palermo che indagavano su quella stagione di bombe e misteri ed in particolare sulla trattativa Stato-mafia, riferì di essersi particolarmente preoccupato per lo strano black out di Palazzo Chigi. Addirittura temette l'esecuzione di un Colpo di Stato.
Certo è che il clima politico di quella estate era particolarmente teso. Un anno prima in Sicilia erano stati uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e a pochi mesi di distanza c'erano stati gli attentati in via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti).
Ciampi, dopo la notte delle bombe, annunciò di voler riformare i servizi segreti e il 2 agosto 1993, partecipando a sorpresa alla commemorazione della strage di Bologna del 1980, intervenne dal palco: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. A cosa si riferiva Ciampi quando parlava di “torbida alleanza di forze”?
Il sospetto che dietro a quelle stragi vi fosse la mano di Cosa nostra emerse sin da subito e le indagini passarono in fretta dalla procura di Milano a quella di Firenze in quanto l'esplosivo utilizzato nell'attentato era lo stesso di quello utilizzato in via dei Georgofili.
Tuttavia è possibile credere che dietro a quelle iniziative vi fosse solo la mano mafiosa e l'interesse della sola Cosa nostra?
Da Ciolini ad Annacondia
Un altro elemento inquietante è la "profezia" di Elio Ciolini, soggetto legato all’estrema destra, condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, che nel marzo 1992, con larghissimo anticipo, aveva scritto una lettera (inviandola ai magistrati) per raccontare l’esistenza di “nuova strategia della tensione in Italia”, che sarà attuata con una serie di “eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico”.
Altro spunto di approfondimento è quello che fu dato da Salvatore Annacondia. Quest'ultimo fu sentito in Commissione antimafia il 30 luglio 1993, e disse di aver appreso a l'Asinara, in una sezione con napoletani e siciliani, di un progetto stragista a monumenti e strutture con l'obiettivo di annullare il 41 bis (carcere duro che verrà individuato come causale di quelle stragi dai funzionari della Dia e dello Sco appena un mese dopo, ndr).
Ma Annacondia all'antimafia disse anche di aver detto le stesse cose all'autorità giudiziaria, un magistrato ed un ufficiale della Dia di Bari, già nel gennaio 1993. Ben prima che le stragi in Continente si consumassero portando l'Italia ad essere messa a ferro e fuoco. Che fine fecero quelle dichiarazioni?
Strage di via dei Georgofili il 27 maggio 1993 a Firenze
Quelle bombe per il 41 bis
Ma torniamo all'estate del 1993. Abbiamo già ricordato quale fosse il clima che si respirava all'epoca. Oltre a Ciampi anche l'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sentito davanti alla Corte d'Assise di Palermo nel processo Stato-mafia, ebbe a dire o disse che a seguito di quelle bombe ai livelli più alti delle istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza di un attacco diretto da parte della mafia. Addirittura l'ex presidente parlò esplicitamente “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”.
In una nota della Dia, datata 10 agosto 1993, si parlava di una strategia “per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”. Un documento eccezionale dove per la prima volta compare il termine “trattativa”, utilizzato per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi.
“La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati - scrivevano gli analisti - Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
“Verosimilmente - continua la nota - la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”.
Gli investigatori della Direzione antimafia avvertivano anche dei rischi che si sarebbero corsi qualora vi fosse una revoca “anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis”. Questa infatti “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
Le domande dietro le stragi del 1993
Nonostante le inchieste ed i processi, a quasi trent'anni di distanza sono ancora troppi i tasselli da dover mettere al loro giusto posto.
La Procura di Firenze, è noto, da tempo ha riaperto il fascicolo sui mandanti esterni delle stragi in Continente e sotto indagine erano finiti ancora una volta l'ex Premier Silvio Berlusconi (oggi deceduto) e l'ex senatore Marcello Dell'Utri (già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa).
Quest'ultimo, addirittura, è stato indicato da un collaboratore di giustizia, Pietro Riggio, come colui che "indicò i luoghi da colpire". Ovviamente un fatto tutto da dimostrare, ma è chiaro che su quella stagione i punti oscuri da chiarire sono molteplici e proprio la scelta dei luoghi rappresenta un'anomalia nella logica di Cosa nostra.
Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica
Non ci appartiene
"Capaci ci appartiene, via D'Amelio anche. Ma Firenze, Milano e Roma sono una storia diversa, sono morti che non ci appartengono" disse Spatuzza nei processi. Tutte le bombe del 1993 sono rivolte a musei, monumenti, luoghi d’arte ed è chiaro che attentare al patrimonio artistico e culturale di un Paese, non manifesta solo la volontà di metterlo all'angolo, ma quasi annientarlo.
“Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa?”, avevano suggerito a Nino Gioè, nel tentare di convincere la mafia a procedere con gli attentati per tutta la Nazione. A dargli l'idea, forse, la Primula Nera, l'ex terrorista nero, trafficante di opere d'arte e legato ai servizi segreti, Paolo Bellini.
A parlare di quella inquietante domanda era stato il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, che si era nascosto dietro a una porta per origliare il colloquio tra Gioè e l’ex estremista nero.
Bellini, da parte sua, ha sempre negato, affermando che la frase sulla Torre di Pisa fu detta da Gioè. Quest'ultimo, però, non potrà mai chiarire in quanto morto "suicidato" nel carcere di Rebibbia proprio nei giorni caldi delle bombe del 1993. Il corpo senza vita di Gioè lo trovano la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93: esattamente 24 ore dopo la strage di via Palestro, di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro.
Sempre rispetto alla figura di Bellini è emerso che l’ex primula nera si trovava in Sicilia, nelle zone di Enna, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992. Lui ha sempre detto di essere stato lì per recuperare alcuni crediti, ma la città di Enna è il luogo in cui si tennero le riunioni in cui Riina aveva esposto agli altri boss l’intenzione di dichiarare guerra allo Stato.
Una terribile coincidenza. Perché è sempre in quelle riunioni che il Capo dei capi ordinava di rivendicare stragi e omicidi utilizzando la firma della Falange Armata (sigla di una sedicente organizzazione terroristica che era comparsa a Milano già nel 1991, quando la ‘Ndrangheta del clan Papalia uccise l’educatore carcerario Umberto Mormile).
Anche da questi elementi si rafforza il sospetto che dietro a quegli attentati non vi fosse solo Cosa nostra.
Dunque restano altri inquietanti interrogativi: chi ha indicato alla mafia i luoghi da colpire?
Cosa si nasconde dietro la sigla "Falange Armata" con cui furono rivendicati anche quegli attentati?
Quale messaggio si voleva dare colpendo quei monumenti? Si può essere certi che erano quelli gli obiettivi?
Ancora una volta sono le parole di Spatuzza a far sorgere il dubbio dichiarando che “a Milano sorsero problemi e l’obiettivo venne mancato di 150 metri”.
Vale la pena ricordare che in quelle zone vi era una sede del Centro europeo di comunicazione, una sede massonica che faceva riferimento al Gran Maestro Giuliano Di Bernardo; alcuni uffici coperti riferibili ai servizi di sicurezza ed anche gli uffici di Marcello Dell'Utri. Quella bomba che secondo i pentiti non avrebbe dovuto fare vittime, doveva essere un messaggio per queste organizzazioni o per lo stesso ex senatore?
Gli organi inquirenti si stanno muovendo a 360° anche se gli anni trascorsi rendono sempre più difficile giungere a risposte certe.
Abbiamo già detto dell'inchiesta che riguarda Marcello Dell'Utri. Secondo i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, l'ex senatore avrebbe istigato i Graviano “a organizzare e attuare la campagna stragista e, comunque, a proseguirla, al fine di contribuire a creare le condizioni per l’affermazione di Forza Italia”.
Nel decreto di perquisizione notificato all’ex senatore nelle scorse settimane i pm ipotizzano che le stragi del ’93 servirono "per indebolire il governo Ciampi".
Accuse tutte da dimostrare e che nel corso degli anni sono state archiviate più volte.
Nelle ultime settimane si è anche appreso che la procura toscana indaga anche Paolo Bellini, già condannato in primo grado per la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 ed ora accusato ufficialmente di essere il ‘suggeritore’ delle bombe del ’93 a Firenze, Roma e Milano.
Quel che è certo è che sulla bomba di via Palestro ci sono troppi elementi che non tornano e la speranza è che, al netto degli sforzi di questi anni, possa essere arrivato il tempo per far luce anche su quella stagione di bombe e delitti che hanno colpito al cuore la nostra Repubblica.
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