di Roberto Scarpinato
C’è un luogo in questa città che da 31 anni resta interdetto ai riti della retorica di Stato e alle passerelle delle autorità.
Quel luogo è via D’Amelio.
Da 31anni lo Stato ed i suoi rappresentanti in occasione delle commemorazioni della strage del 19 luglio 1992 non hanno l’animo di celebrare i loro riti recandosi in quella via, e se ne tengono prudentemente lontani, defilandosi in altri luoghi più appartati inaccessibili alla gente comune.
Si tratta di una tacita convenzione, di una consuetudine ormai consolidata, e quasi rimossa nella coscienza collettiva.
Rimossa perché questa prolungata forzata assenza dei rappresentanti dello Stato dal luogo della strage, è un fatto perturbante.
Significa che lo Stato non può presentarsi in quel luogo con la coscienza a posto, con la coscienza di poter escludere con certezza la compromissione nell'ideazione e nell'esecuzione della strage di apparati interni allo Stato, con la coscienza di avere fatto tutto il possibile per accertare l’identità di mandanti e complici eccellenti.
E quindi i suoi rappresentanti si defilano, si sottraggono al pericolo e al disagio di pubbliche contestazioni.
Questa frattura tra Palazzo e Piazza, tra luoghi del Potere costituito e popolo, si è manifestata nei giorni immediatamente successivi alla esecuzione della strage, in occasione di un evento drammatico senza precedenti nella storia del nostro paese che racchiude in nuce la cifra oscura della tragedia che si era consumata il 19 luglio 1992 e l’intuizione popolare anticipata di una giustizia che sarebbe rimasta dimezzata, incompiuta.
Di una verità che sarebbe rimasta inaccessibile perché destinata ad essere oscurata dall’egida impenetrabile del potere.
Mi riferisco a quanto accadde il 21 luglio 1992 in occasione della celebrazione dei funerali dei cinque agenti della scorta di Paolo Borsellino trucidati con lui nella strage del 19 luglio: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Quel giorno una folla di circa diecimila persone che tracimava nel sagrato antistante la Cattedrale di Palermo, iniziò a gridare ripetutamente nei confronti delle pubbliche autorità che si trovavano all’interno della chiesa la frase “Fuori la mafia dalla Chiesa”.
E quando il presidente della Repubblica ed il capo della Polizia uscirono dalla Chiesa, la folla ruppe gli argini dei cordoni di polizia e si avventò contro di loro circondandoli in modo quasi minaccioso mentre si levava il grido “Assassini”.
Furono scene drammatiche di panico e si temette il peggio.
Dunque quel che accadde fu che il popolo invece di stringersi solidale intorno alle figure simbolo dello Stato, il Presidente della Repubblica ed il Capo della Polizia, invece di riconoscersi e di rispecchiarsi in quei simboli, li accusava di essere l’emblema di uno Stato in cui non ci si poteva riconoscere.
Non solo perché non aveva saputo o voluto proteggere la vita di Paolo Borsellino nonostante quella di Paolo fosse una morte annunciata come lui stesso aveva anticipato in più occasioni, ma anche perché la mafia - gridava la folla - stava dentro la chiesa, cioè dentro lo Stato.
Espressione cruda e semplificatrice che, tuttavia, coglieva un nucleo profondo di verità, e cioè che il male non stava tutto fuori dallo Stato, non albergava solo nei cuori malati di assassini come Riina ed altri consimili, ma stava anche dentro lo Stato, si annidava nelle pieghe segrete dello Stato, corrodendolo dall’interno.
A distanza di 31anni, dobbiamo riconoscere che quel grido che si levò dal cuore della folla quel giorno, quel grido che accusava una parte dello Stato di essere complice della strage, quel grido che allora sembrò incomprensibile, inconsulto e irrazionale, conteneva un seme scandaloso e profondo di verità.
Abbiamo tutti gli elementi oggi per poter dolorosamente ammettere la tragica verità che la strage di via D’Amelio non fu solo una strage di mafia, ma una strage che chiama in causa componenti interne allo Stato.
Componenti che hanno occupato postazioni strategiche tali da essere in grado di operare ripetutamente e continuativamente nel tempo per depistare le indagini ed impedire così che emergessero responsabilità di mandanti e complici eccellenti.
Lo hanno fatto sia nell’immediatezza facendo sparire con straordinario tempismo l’agenda rossa, tempismo possibile solo perché erano a conoscenza in anticipo del luogo e del tempo dell’esecuzione e quindi erano complici.
Hanno continuato a farlo operando a distanza negli anni, mediante la costruzione a tavolino nel 1994 di falsi collaboratori di giustizia con una complessa orchestrazione che vide agire di concerto vertici di polizia e di servizi segreti.
Hanno proseguito nel tempo con inquietante continuità sino ai nostri giorni, con un’azione depistante, una presenza inquinante che si è mossa nell’ombra, dietro le quinte e che ci fa comprendere come la strage di Via D'Amelio sia ancora una partita aperta. Come la strage sia ancora tra noi.
Come un vulcano che sembra spento ma che in realtà nelle sue viscere conserva un magma infuocato che si teme possa esplodere, travolgendo nella sua verità devastatrice non solo destini individuali ma la tenuta stessa di alcuni contrafforti della Repubblica.
Alcuni di questi tentativi continui di depistaggio sono rimasti solo nella conoscenza dei magistrati che nel tempo hanno condotto le indagini.
Altri invece hanno occupato la ribalta mediatica nazionale come ad esempio l’insidiosissimo tentativo di depistaggio posto in essere nel 2021 dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola congegnato in modo tale da escludere la partecipazione di qualsiasi soggetto esterno alla strage di via D Amelio.
Oltre alla continuità nel tempo dei depistaggi, c'è un’altra inquietante continuità che deve far riflettere.
La continuità nel tempo dei silenzi di coloro che conoscono i segreti della strage di Via D Amelio, della strage di Capaci, delle stragi di Firenze, di Milano e Roma e che continuano a tacere.
Quando i segreti durano così a lungo nel tempo, significa che su di essi è impresso il sigillo del potere.
Significa che coloro che conoscono questi segreti e tra essi in primo luogo alcuni dei boss stragisti condannati all’ergastolo, ritengono che una valutazione realistica dei rapporti di forza non consente di rompere il silenzio.
I boss conoscono la realtà del potere molto meglio di noi normali cittadini.
Sanno che la realtà dello Stato è molto complessa. Sanno che accanto allo Stato visibile e legalitario convive uno Stato profondo e occulto dotato di una forza con la quale essi devono fare i conti.
Lo Stato è il magistrato che entra in carcere per interrogarti ed indurti a collaborare, ma lo Stato è anche l’uomo dei Servizi o degli apparati che entra nello stesso carcere poco dopo senza lasciare traccia e ti chiede come stanno a casa.
Lo Stato erano anche gli uomini che hanno preso l’agenda di Borsellino e poi hanno depistato.
I mafiosi all’ergastolo sanno che lo Stato è anche quello che ti può fare trovare impiccato nella tua cella al 41bis come è accaduto ad Antonino Gioè a Rebibbia, poco prima che, secondo varie testimonianze, si accingesse a collaborare rivelando le verità sconvolgenti di cui era a conoscenza.
I mafiosi ricordano quello che è accaduto al capo mafia Luigi Ilardo assassinato pochi giorni prima che iniziasse a collaborare con i magistrati ai quali aveva anticipato che avrebbe rivelato il coinvolgimento di uomini dello Stato in omicidi e stragi di mafia.
I mafiosi sanno che lo Stato è anche quello che - come ha rivelato Giuseppe Graviano con ricchezza di dettagli ad un suo compagno di detenzione nel corso di una conversazione in carcere intercettata - ha consentito ai fratelli Graviano di incontrare segretamente in carcere le loro mogli e di procreare dei figli, benché reclusi al 41 bis in regime di massima sicurezza.
I boss stragisti condannati all’ergastolo sanno che i segreti scottanti di cui sono depositari sono una lama a doppio taglio.
Dipende da come li gestisci. Puoi morire se non li sai mantenere, ma puoi essere premiato con l’uscita dal carcere mediante l’abolizione della norma sull’ergastolo ostativo o con la revoca del 41 bis se tieni la bocca chiusa ed hai fiducia che nel tempo saranno mantenute le promesse fatte da complici ai vertici del potere.
E la fiducia alla fine è stata ripagata.
L’approvazione della legge sulla riforma dell’ergastolo ostativo che consente ai condannati all’ergastolo per le stragi di mafia del 1992 e del 1993 di uscire dal carcere senza collaborare purché sia accertata la cessazione della loro pericolosità, cioè in sostanza con la semplice dissociazione, senza neppure l’obbligo di motivare le ragioni del rifiuto di collaborare, assume il significato inequivocabile di una rinuncia dello Stato a conoscere i segreti delle stragi.
Assume il significato di una autorizzazione al silenzio, di una legittimazione e normalizzazione della cultura dell’omertà, pilastro della cultura mafiosa.
Dunque la strage di via D’Amelio è ancora tra noi con i suoi inquietanti nodi irrisolti e le sue verità indicibili e quell’urlo della folla del 21 luglio 1992 “Assassini” continua nella sua crudezza a risuonare nell’aria e attraversa il tempo e giunge potente sino a noi oggi qui.
Quel grido si placherà solo se e quando sapremo la verità che sino ad oggi ci è stata negata.
Così pure non riusciranno a spegnere l’altro grido della folla quel giorno del 21 luglio 1992: “Fuori la mafia dallo Stato”
Un grido che è risuonato anche quest’anno il 23 maggio 2023 rinnovato dai partecipanti al corteo organizzato dalle associazioni giovanili studentesche, dalla Cgil, da tante altre sigle, con l’adesione di ANTIMAFIADuemila e dell’Associazione Nazionale Partigiani di Italia.
Cittadini ai quali è stato vietato a colpi di manganello, come se fossero pericolosi rivoltosi, di potere accedere alla via Notarbartolo e giungere all’Albero Falcone, perché si temeva potessero in qualche modo turbare l’esibizione delle pubbliche autorità sul palco dinanzi all’albero Falcone sul quale era stato invitato a salire il sindaco di Palermo, eletto a quella carica con l’assist di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro.
Abbiamo così ufficializzato che esistono due antimafia.
Da una parte una antimafia autorizzata che ha il timbro governativo, che continua a raccontare al pubblico una mafia da corriere dei piccoli, una mafia costituita cioè solo dai soliti brutti, sporchi e cattivi personaggi come Riina e Provenzano, indicati come unici responsabili del male di mafia e unici artefici delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Una mafia ormai sconfitta e consegnata al passato, si suole ripetere.
Una antimafia innocua che mette tutti insieme appassionatamente e che non crea alcun imbarazzo a personaggi politici eletti alla carica di Sindaco e di Presidente della Regione grazie ai placet e di personaggi come Dell’Utri e Cuffaro.
Dall’altra abbiamo un‘antimafia popolare non autorizzata, dei disobbedienti, che quindi deve essere messa a tacere e manganellata perché questa storiella, questa falsificazione della verità e della storia non è disposta a bersela, e con il grido “Fuori la mafia dallo Stato”, rinnovato il 23 maggio 2023, continua a ricordare una verità che nessun governo, nessun manganello, nessuna carica di polizia potrà cancellare, perché è scritta e accertata con decine e decine di sentenze scritte grazie al sangue dei nostri martiri.
La verità che la mafia è stata dentro lo Stato ed ha avuto i volti di Presidenti del Consiglio, deputati, senatori, sottosegretari di Stato, Presidenti della Regione, assessori regionali, Capi dei Servizi Segreti e della Polizia e tanti altri sepolcri imbiancati che con la mafia e grazie alla mafia hanno costruito carriere politiche e fortune economiche.
La verità accertata con le sentenze è che i Riina, i Provenzano, i Matteo Messina Denaro sarebbero rimasti volgari criminali assicurati alle patrie galere in breve tempo senza questo livello di protezioni.
La verità è che i Riina ed altri personaggi di tal fatta sono stati usati per le stragi e condannati non solo all’ergastolo ma anche al silenzio sui loro complici eccellenti.
Quest’anno, più ancora che in tutti gli anni precedenti, lo Stato non potrà presentarsi in via D’Amelio con una delle sue massime espressioni: Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Il presidente Meloni ha più volte dichiarato che proprio la strage di via d’Amelio era stato l’evento che l’aveva indotta a iniziare la propria attività politica.
E’ evidente che la Meloni cammin facendo ha lasciato per strada Borsellino e ha scelto nuove figure guida.
Non è possibile infatti affermare di ispirare la propria azione ai valori di legalità di Paolo Borsellino e poi dichiarare il lutto nazionale con atto di imperio politico totalmente discrezionale per la morte di Silvio Berlusconi.
Non è possibile dichiararsi ammiratrice di Paolo, e nello stesso tempo indicare a tutti gli italiani e al mondo come esempio da seguire, come modello di virtù repubblicane un uomo come Berlusconi che è stato l’antitesi vivente di tutti i valori ai quali Paolo ha dedicato la propria esistenza e per i quali ha sacrificato la propria vita.
Un uomo - Berlusconi - che quando era ancora un imprenditore era entrato nell’orbita dell’interesse investigativo di Falcone e Borsellino per i suoi rapporti con mafiosi e i suoi rapporti economici con Cosa Nostra, che con la mafia ha scelto di convivere e stretto intese, e poi da politico ha portato la mafia dentro lo stato, arruolando ai vertici delle istituzioni alcuni campioni nazionali della peggiore borghesia mafiosa, referenti di Cosa Nostra, della Camorra e della ‘Ndrangheta, tutti condannati per concorso esterno in associazione mafiosa: dal senatore Marcello Dell’Utri suo mediatore nei rapporti con Cosa Nostra sin dagli anni Settanta e da lui riproposto alla pubblica ammirazione sino alla fine, ad Antonino D’Alì nominato al ruolo chiave di sotto segretario agli Interni dove si è attivamente operato a favore dei mafiosi capeggiati da Matteo Messina Denaro, al sottosegretario al ministero dell’economia Nicola Cosentino referente del clan dei casalesi, uno dei più potenti della camorra, al deputato Amedeo Matacena collegato alla ‘Ndrangheta.
La Meloni crede che gli italiani vogliano continuare a bersi la favoletta di Stato che la mafia sia costituita solo dai soliti noti “brutti sporchi e cattivi”?
Personaggi come Riina e Matteo Messina Denaro da esibire al pubblico come unici artefici del male di mafia?
Abbia rispetto per i nostri morti Presidente Meloni.
Noi siamo le nostre scelte. Lei ha scelto da che parte stare, scelte che dimostrano che Paolo Borsellino non le appartiene.
Sul fronte dell’accertamento della verità sulle stragi, dopo l’ultima legge sull’ergastolo ostativo, siamo in una situazione di stallo.
Vi sono però alcuni fatti nuovi che, a saperne cogliere il profondo significato, aprono la possibilità di nuovi scenari e che, in ogni caso, offrono importanti chiavi di lettura per comprendere le causali occulte delle stragi del 1992 e del 1993 e, tra queste, della strage di via d’Amelio.
Ho iniziato il mio intervento citando via d’Amelio come luogo nel quale le pubbliche autorità hanno pudore e imbarazzo a recarsi per i motivi che ho accennato.
C’è un altro luogo simile in Italia nel quale le pubbliche autorità vivono pure momenti di grande imbarazzo.
E’ la città di Bologna dove ogni 2 agosto si celebra l’anniversario di una strage che causò 85 morti e 200 feriti quel giorno del 1980.
Anche la strage di Bologna come quella di via d'Amelio è una strage di stato, una strage cioè alla quale hanno preso parte componenti rilevanti dello Stato.
La magistratura di Bologna ha accertato che quella strage fu eseguita da esponenti di formazioni neofasciste su mandato di Licio Gelli, vertice della P2 di cui facevano parte tutti i capi dei servizi segreti del tempo, e fu organizzata da Umberto Federico D’Amato, uomo potentissimo ai vertici dello Stato, capo dell’Ufficio Affari riservati del Ministero dell’interno e referente della Cia in Italia.
Ciò detto gli esiti delle ultime indagini e le sentenze più recenti hanno messo in luce vari fattori che dimostrano che esistono importanti vasi comunicanti tra la strage di Bologna e le stragi del 1992 e del 1993, tanto da potersi ipotizzare che siano due parti della stessa tragica storia.
Un primo vaso comunicante sono i depistaggi di Stato.
Le indagini sulla strage di Bologna sono state segnate da gravissime e ripetute azioni di depistaggio poste in essere da uomini ai vertici dei servizi segreti - il generale Musumeci e il colonello Belmonte - che per questo motivo sono stati condannati con sentenze definitive unitamente a Francesco Pazienza altro importane agente segreto collegato con i servizi americani.
I depistaggi realizzati per le strage di via d’Amelio, così come quelli realizzati per la strage di Capaci, sembrano la replica a distanza di anni dello stesso protocollo operativo di quelli posti in essere a Bologna, e che in precedenza erano stati realizzati in altre stragi neofasciste come quelle della Banca dell’Agricoltura di Milano del 1969 e per i quali sono stati condannati pure con sentenza definitiva due vertici dei servizi segreti (SID): il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio La Bruna.
Un secondo vaso comunicante sono Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, condannati come esecutori della strage di Bologna del 2 agosto.
Entrambi furono infatti individuati da Giovanni Falcone come esecutori dell’omicidio eseguito a Palermo pochi mesi prima il 6 gennaio 1980 di Piersanti Mattarella, Presidente della Regione siciliana, che si apprestava a proiettarsi sullo scenario nazionale rilanciando nel congresso della democrazia cristiana del febbraio di quell’anno la linea politica del compromesso storico dopo l’omicidio di Aldo Moro.
Linea politica strenuamente avversata dagli stessi soggetti che si resero responsabili pochi mesi dopo di quello stesso anno dell’organizzazione della strage di Bologna del 2 agosto e dei successivi depistaggi e cioè, come ho già accennato, i vertici della loggia massonica P2, di cui facevano parte oltre ai capi dei servizi segreti del tempo, Licio Gelli e Umberto Federico D’Amato, già capo dell’ufficio affari riservati del Ministero dell’interno, uomo Cia in Italia.
Gelli e D’Amato, i quali secondo l’ultima sentenza della Corte di Assise di Bologna del 5 aprile 2023, utilizzavano come killer Valerio Fioravanti, Gilberto Cavallini ed altri esponenti della destra eversiva garantendo loro denaro e impunità.
Un terzo robusto canale di collegamento è venuto alla luce con la condanna come ulteriore esecutore della strage di Bologna di Paolo Bellini, esponente di Avanguardia nazionale, uomo dei servizi segreti, il quale fu in missione in Sicilia nel corso del 1992, nello stesso periodo in cui era presente Stefano delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale già in collegamento con Umberto Federico D’Amato.
E’ stato accertato che Bellini dialogò ripetutamente in quei mesi con Antonino Gioè, esecutore della strage di Capaci, a sua volta uomo cerniera tra la mafia e i servizi segreti, al quale, come ha dichiarato Giovanni Brusca, suggerì di alzare il livello dello scontro con lo Stato effettuando attentati contro i beni artistici nazionali, idea questa maturata già nel 1974 all’interno di Ordine Nuovo, formazione della destra eversiva i cui esponenti sono stati riconosciuti colpevoli delle stragi di Milano del 1969 e di Brescia del 1974 e che, come è stato accertato, hanno goduto di protezioni statali ad altissimo livello.
Nella motivazione della sentenza di condanna di Cavallini depositata il 7 gennaio 2021, la Corte di Assise di Bologna ha dedicato quasi cento pagine alla rivisitazione dell’omicidio Mattarella, giungendo alla conclusione, anche alla luce di nuove acquisizioni, dell’esattezza della pista nera individuata da Falcone ed evidenziando le connessioni tra quell’omicidio e la strage di Bologna che già Falcone aveva colto.
Mi risulta personalmente che Falcone era fermamente intenzionato a riprendere quelle indagini se fosse stato nominato procuratore nazionale antimafia. Non gliene diedero il tempo, massacrandolo il 23 maggio a Capaci.
Stessa sorte riservarono a Paolo Borsellino affrettandosi prima che avesse il tempo di dichiarare alla Procura di Caltanissetta quanto aveva appreso da Falcone e da alcune fonti che oltre a rivelargli le collusioni di Bruno Contrada, vertice dei servizi segreti, con la mafia, lo avevano informato di riunioni svoltesi nella provincia di Enna nelle quali un gruppo di selezionati capi di Cosa Nostra avevano messo a punto un complesso piano stragista e di destabilizzazione politica il cui primo atto era stato la strage di Capaci, e che vedeva la compartecipazione di altri potenti forze criminali, le stesse che avevano animato la strategia della tensione nei decenni precedenti: cioè esponenti della massoneria come Gelli, esponenti della destra eversiva ed alcuni uomini politici.
Circostanze di cui aveva preso nota nella sua agenda rossa. Un'agenda che dunque doveva sparire prima che finisse nelle mani dei magistrati, i quali seguendo il filo di Arianna tracciato in quelle pagine, da Palermo potevano forse risalire passo dopo passo sino a Bologna, facendo così uscire dagli armadi tanti scheletri della prima repubblica che invece sono transitati nella seconda, contribuendo a sostenerne le fondamenta.
Le indagini che abbiamo svolto alla Procura di Palermo nell’ambito dell’indagine Sistemi criminali hanno pienamente riscontrato come dietro le stragi del 1992 e del 1993 si sia mosso un complesso sistema criminale.
Lo stesso pool di forze criminali che avevano organizzato la strategia della tensione, stragi come quella di Bologna e omicidi eccellenti: Massoneria deviata, destra eversiva neofascista e servizi segreti collusi ai quali per le stragi del 1992 e del 1993 si aggiunse la mafia.
Sino alla caduta del muro di Berlino gli appartenenti a tali poteri criminali avevano goduto al pari dei mafiosi di altissimi livelli di protezione che ne avevano garantito l’impunità.
Dopo la caduta del comunismo e la fine della guerra fredda, costoro si trovarono in una situazione di gravissimo pericolo.
Il sistema di potere della prima repubblica e l’ordine internazionale che sino ad allora li aveva protetti si stava sfarinando di giorno in giorno, e si annunciava l’arrivo al governo di una sorta di nuovo compromesso storico: una alleanza tra gli eredi dell’ex PC e la sinistra Dc erede della linea Moro- Mattarella.
Se questo nuovo governo si fosse realizzato alcune postazioni strategiche dello Stato come il Ministero della Giustizia, il Ministero degli Interni, il Capo della Polizia, il Procuratore nazionale Antimafia, sarebbero state occupate da uomini come Luciano Violante, Giuseppe Ayala, Giuseppe Di Gennaro, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino che, si temeva, avrebbero aperto una stagione di regolamenti di conti con il passato.
Sarebbero così fioccati ergastoli non solo per i mafiosi ma anche per tanti altri coinvolti nelle stragi neofasciste e sarebbe stata la fine della stagione dei grandi affari sporchi.
Da qui l’esigenza di unire le forze e il piano discusso nelle campagne di Enna alla fine del 1991 con una precisa divisione dei compiti.
Cosa Nostra avrebbe avuto il compito di braccio armato. Avrebbe dovuto eseguire le stragi nei tempi e nei luoghi indicati dalle menti raffinate che avevano ordito il piano e che erano specialisti del linguaggio delle bombe.
Le stragi dovevano assolvere il compito di impedire l‘arrivo al potere di un governo delle sinistre e nello stesso di preparare il terreno alla discesa in campo di un nuovo soggetto politico che in un primo momento doveva essere una alleanza tra lega Nord e leghe meridionali per realizzare una Italia federale divisa in tre macroregioni, assegnando la macroregione del Sud alla mafia, e in un secondo momento fu sostituito da un nuovo soggetto politico: Forza Italia che nel frattempo si era costituita.
Così come previsto il piano prese avvio in Sicilia con la strage di Capaci che eliminò di mezzo Falcone ritenuto pericolosissimo perché in grado di capire cosa stava per accadere e di sventare il piano.
Proseguì con la strage di via d’Amelio che subì una accelerazione perché non era previsto che Borsellino svolgendo autonome indagini acquisisse da alcune fonti, tra cui Leonardo Messina e Alberto Lo Cicero, importanti notizie sull’esistenza del piano stragista.
Dopo questa prima fase, le stragi, come era previsto, vengono spostate al Nord e al centro dell’Italia in modo da seminare il terrore in tutto il paese e dispiegare così tutto il loro potenziale destabilizzante.
Vengono eseguite subito dopo che il 28 aprile 1993 si insedia il primo governo Ciampi, perché quel governo che vede per la prima volta l’ingresso di tre ministri dell’ex Pci sembra la prova generale del nuovo compromesso storico che si prepara.
Le stragi subiscono una accelerazione quando si viene a conoscenza di un accordo che era stato siglato tra Occhetto segretario dei PDS e Martinazzoli segretario della DC che prevedeva l’alleanza tra la sinistra DC e i PDS per le elezioni del 1994 con la Presidenza del Consiglio affidata a Carlo Azeglio Ciampi.
Le stragi cessano quando il risultato viene raggiunto con la vittoria alle elezioni politiche del 1994 di Forza Italia sulla quale Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta fanno confluire i voti delle organizzazioni.
Nasce così la seconda Repubblica le cui fondamenta sono intrise del sangue di tante vittime innocenti, le vittime delle stragi neofasciste della stazione di Bologna, della Banca dell’ Agricoltura di Milano, di Piazza della Loggia di Brescia, le vittime delle stragi politico mafiose di Palermo, di via Georgofili a Firenze, di via Palestro a Milano, e intrise del sangue di tanti uomini dello Stato - magistrati, esponenti delle forze di polizia, politici - trucidati perché leali alla Costituzione e difensori della repubblica democratica e quindi considerati ostacoli da abbattere da poteri criminali nemici della democrazia che hanno potuto contare su complicità di tanti traditori dello Stato.
Stasera vorrei idealmente ricordare tutti questi caduti insieme a Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
E dedicare a tutti loro le stesse parole che un grande padre della Nostra Costituzione Piero Calamandrei dedicò il 7 agosto 1947 in occasione di una solenne riunione del Parlamento ai caduti nella lotta al NaziFascismo che avevano sacrificato la propria vita per fare rinascere la democrazia nel nostro Paese
“Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia.
A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.
E noi, costi quel che costi, non li tradiremo.
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