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Nel rinnovare la mia infinita stima a quei pochi che ancora si impegnano e lottano nonostante tutto nel cercare e tutelare la verità per assicurare il rispetto di quei valori di libertà e democrazia che noi cittadini abbiamo affidato allo Stato, con questo articolo voglio far seguito alle parole i fatti.
Lo faccio a mio modo, che è l’unico che conosco avendo fatto per tutta la mia carriera di ufficiale dell’Arma sempre e solo l’investigatore.
Desidero rendervi partecipi di una indagine importante e complessa che avevamo avviato io e il col. Bozzo su incarico del gen. dalla Chiesa, poi ripresa dopo la sua morte come impegno anche morale ed ogni nostra successiva inchiesta ci vide aggiungere tassello dopo tassello a quel quadro iniziale.
Fu lo stesso Generale a darne sintetica menzione in una sua verbalizzazione il 12 maggio 1981 ai magistrati milanesi G. Turone e G. Colombo dichiarando che certe manifestazioni criminali, proprie dell’estrema destra, potessero trovare supporto o sostegno in ambienti politici e non lontani dall’ambiente della Massoneria.
Il col. Bozzo sempre a quei magistrati milanesi con verbalizzazioni il 25 aprile e il 14 maggio 1981 confermò il quadro investigativo rappresentato da Dalla Chiesa ponendo poi particolare accenno su un gruppo di potere esistente presso la divisione carabinieri Pastrengo di Milano, formato da un certo gruppo di ufficiali ruotante intorno la figura del comandante, il generale Giovan Battista Palumbo, molto legato a Licio Gelli ed iscritto alla Loggia P2.
Queste dichiarazioni furono riprese e pubblicate da Giuseppe Fava sul suo quotidiano “I Siciliani” in un pezzo titolato “Generali Eccellenti i nemici di Dalla Chiesa”.
La strage di Peteano fu oggetto di nostra attenzione e ne seguimmo l’iter giudiziario, fui io a sottoporla a Bozzo per aver conosciuto alcuni di quegli attori.
La sera del 31 maggio 1972 una telefonata anonima ai Carabinieri di Gorizia segnalò la presenza di una Fiat 500 bianca abbandonata in una stradina poco fuori Peteano di Sagrado, con fori sul parabrezza che sembravano causati da proiettili.
Giunsero i carabinieri sul posto e il sottotenente Angelo Tagliari nell’aprire il cofano azionò la leva ma a questa era agganciato un detonatore che innescò l’esplosivo posto nel bagagliaio anteriore, provocando una esplosione che causò la morte di tre carabinieri e il ferimento grave di Tagliari.
Le indagini su disposizione del comandante della Divisione Pastrengo di Milano, il piduista generale G.B. Palumbo, furono assunte da un suo fedelissimo, il colonnello Dino Mingarelli comandante della legione di Udine, già distintosi negli ambienti del “piano Solo” 1964.
Questi si avvalse di un ufficiale di sua fiducia il cap. Antonino Chirico sempre in servizio a Udine, diede apporto anche il ten. col. Michele Santoro, altro ufficiale di quel gruppo di fedelissimi del Palumbo.
Questi ufficiali, dopo aver prima tentato di accreditare una pista rossa, indirizzando l’attenzione verso alcuni militanti di lotta continua di Trento, nella evidente assenza di riscontri (tanto che fu subito bocciata in sede d’istruttoria), indirizzarono allora le indagini verso un gruppo di balordi criminali comuni di Gorizia che furono tratti in arresto nel giugno 1973.
Poco dopo quegli avvenimenti nel settembre 1973 giunsi al comando della tenenza di Muggia (TS), in dialetto triestino Muja.
Avevo lasciato il battaglione allievi carabinieri di Iglesias in provincia di Cagliari sede del mio primo incarico con le parole di un mio collega che ancora si rincorrevano nella mia testa.


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Il giornalista Giuseppe Fava


Mi aveva confidato in un suo momento di particolare apprensione di aver avuto un ruolo molto importante nel golpe Borghese e nelle vicende che seguirono.
Ricordo che le giudicai frutto di una sbruffonata, in linea con il personaggio che tutti noi suoi colleghi al battaglione conoscevamo: un simpatico guascone totalmente inaffidabile.
Anni dopo riscontrai, che mi ero sbagliato, quella storia era vera.
A Muggia ultimo lembo d’Istria ancora italiana, che s’incuneava nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslava del presidente Tito, arrivai in auto e nell’attraversare la zona industriale posta a mo’ di cuscinetto tra la periferia della città e Muggia, con curiosità guardai l’immenso oleodotto del SIOT.
Il complesso aveva lunghi pontili ai quali attraccavano le navi che portavano il petrolio greggio che confluiva in enormi cisterne di stoccaggio; erano più di 30 poste in prati rasati come biliardi e circondati da alte reti di recinzione, per poi essere pompato lungo oleodotti nell’est Europa, specialmente in Germania.
Guardai con curiosità per vedere se erano presenti ancora tracce di quel tragico attentato dinamitardo che nell’agosto dell’anno precedente il 1972 fu effettuato dal gruppo terrorista Settembre Nero, fedain palestinesi collegati ad Al-Fatah costola dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat).
L’attentato provocò la distruzione di tre serbatoti e di oltre 160 mila tonnellate di greggio preda del fuoco con colonne di fumo alte più 6 chilometri e il ferimento di una ventina di persone, nella maggior parte vigili del fuoco.
Ingentissimi furono i danni ambientali.
Settembre Nero che rivendicò l’attentato, un mese dopo in settembre firmerà il tragico assassinio di undici atleti componenti la squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco in Germania.
Nel giungere a Muggia non sapevo ancora che l’attentato al SIOT, oltre ad essere una delle prime azioni terroristiche tese a colpire le fonti energetiche occidentali per rendere insicure quelle nazioni che intrattenevano rapporti con Israele, era stato anche il precursore di quella strategia che condusse un anno e mezzo dopo il Governo italiano a stabilire un accordo con le organizzazioni terroristiche palestinesi che diventerà noto come il “Lodo Moro”.
Un accordo che in parole povere dava la possibilità a terroristi palestinesi di muoversi indisturbati sul suolo nazionale spostando anche armi con l’impegno di non commettere attentati in Italia.
In primo grado di giudizio per questo vile attentato dinamitardo i quattro terroristi palestinesi, nel frattempo individuati, tra cui due donne (per il giudice istruttore erano almeno otto) furono condannati in contumacia a 22 anni di carcere.
Nel successivo processo di appello la pena fu ridotta a 6 anni derubricando l’accusa a semplice incendio doloso e assolvendoli dall’accusa di associazione per delinquere, nessuno dei terroristi fece un giorno di carcere.
Alla solita giustizia italiana, si contrappose quella di Israele.
La mattina del 23 giugno 1973 a Parigi, Mohamed Boudia mente ed organizzatore dell’attentato al SIOT e del massacro al villaggio olimpico di Monaco di undici atleti israeliani, morirà nell’esplosione causata da una bomba a pressione posizionata dagli agenti del Mossad sotto il sedile della sua auto.


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Il magistrato Gabriele Ferrari


Ero da poco arrivato a Muggia, tenenza che confinava con quella di Aurisina, nota per il ritrovamento del nasco 203 (nasco-ndiglio), depositi clandestini di armi ed esplosivi ad uso di “Gladio”, troncone italiano di Stay behind, struttura segreta della Nato sciolta nel 1991, che doveva combattere un’ipotetica invasione sovietica, quando fui avvisato che sarebbe venuto il colonnello Dino Mingarelli, comandante della legione di Udine, a fare una ispezione.
Immediatamente mi diedi da fare affinché fosse tutto in ordine e in piena efficienza ed io pronto a rispondere alle eventuali domande su compiti, impiego del personale e criticità del territorio.
Con mia sorpresa l’ispezione fu una mera formalità, il col. Mingarelli mi chiese di radunare il personale dei vari uffici del comando e quello venuto a salutarlo dalle stazioni e dai posti di frontiera, per poi limitarsi a dare uno sguardo distratto in giro dicendosi pienamente soddisfatto dell’ispezione.
In sala mensa tenne un lungo discorso illustrando con enfasi e passione le indagini che stava conducendo con il suo staff sull’attentato di Peteano, che avevano già condotto in carcere nel giugno un gruppo di criminali comuni goriziani, e che erano ancora in corso per acquisire ulteriori prove delle loro responsabilità.
Nell’andar via non prestò alcuna attenzione quando gli dissi che quell’attentato mi aveva notevolmente colpito, non solo per la morte dei tre carabinieri, ma perché ero anche amico del sottotenente Tagliari, conosciuto a Roma dove lui aveva svolto il corso applicativo per diventare ufficiale effettivo dell’Arma provenendo dal complemento ed io l’applicazione, dato che provenivo dall’Accademia.
Si fermò invece davanti al comandante del radiomobile, un giovane maresciallo ben piantato e dall’aspetto deciso.
Con fare amichevole gli disse che gli sarebbe stato utile disporre di una persona come lui per avvicinare la moglie di uno degli arrestati, farla invaghire e ottenere così ulteriori prove della colpevolezza del marito.
Appena Mingarelli salì in auto e andò via, presi in disparte il maresciallo e con fermezza gli dissi di non prendere in nessuna considerazione quella proposta che mi sembrava assurda, frutto di letture di libri gialli e pericolosamente provocatoria.
Il maresciallo sorridendo mi rassicurò dicendo che non era intenzionato ad accettare quell’incarico, e se aveva mostrato interesse lo aveva fatto solo per compiacere il superiore e far concludere positivamente la visita ispettiva.
Il quesito che mi posi quel giorno era perché il comandante della legione di Udine avesse sottratto l’inchiesta sulla strage di Peteano al Comando Gruppo Carabinieri di Gorizia, competente per territorio e che ritenevo giustamente motivati a far luce sulla morte dei loro colleghi individuando i responsabili della strage.
Le cronache giudiziarie poi evidenziarono una realtà che tutt’ora ci perseguita, ogni processo per strage chi cerca la verità si scontra sempre con chi inquina le prove, mente con arroganza, protegge i criminali e non esita a commettere reati.
Più chiare di ogni dire sono le parole pronunciate dal dottor Gabriele Ferrari, Pubblico Ministero nel processo “Peteano Bis”, che sintetizzano perfettamente l’essenza della strage di Peteano: “In un solo processo quello per l’uccisione dei tre carabinieri a Peteano, si sono visti uniti nella congiura contro la verità, al completo tutti i poteri dello Stato”.
Quel processo si concluse dopo più di sette anni e spostamenti di sede giudiziaria con la condanna di due ex ufficiali del Sid per falsa testimonianza e del perito di tribunale Marco Morin per favoreggiamento e peculato, condanne queste che andarono ad aggiungersi a quelle inflitte 3 anni e 10 mesi agli ufficiali dell’Arma Dino Mingarelli e Antonino Chirico per falso materiale ed ideologico e soppressione di atti.


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Antonino Chirico


Nel frattempo, tutti gli inquirenti magistrati e ufficiali dell’Arma accusati pesantemente per gli inquinamenti commessi saranno prima promossi e poi prosciolti dal Tribunale di Venezia, nel 1979 i magistrati completamente e poi nel 1980 Mingarelli e Chirico, questi ultimi per mancanza di dolo.
Nel giugno 1979 la Corte Assise d’Appello di Venezia assolverà con formula piena i sei goriziani.
Esito finale per la strage di Peteano nessuno è colpevole.
Chi sono i mandanti delle deviazioni? Ancora oggi nessuna risposta, è un’altra strage che si vuole dimenticare, impossibile pensare che un piano del genere possa essere stato studiato e messo in essere dal solo Mingarelli e Chirico.
Unica certezza è che i veri responsabili della strage i due aderenti a Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini erano stati a lungo sottratti per questi depistaggi all’azione della giustizia.
Tutto questo tempo è servito solo ad accertare l’innocenza dei sei goriziani e l’inconsistenza della pista criminale comune dopo quella rossa, ma allora perché le parole del magistrato il dottor Gabriele Ferrari?
La risposta a questo interrogativo la fornirà nel 1984 Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine Nuovo che dopo un periodo di latitanza trascorso prima in Spagna e poi in Argentina decise nel 1979 di costituirsi alle autorità italiane rendendo poi spontanee dichiarazioni.
Vinciguerra, senza ripudiare il suo passato rivoluzionario, ammise la piena responsabilità per l’attentato di Peteano perché si era reso conto che le sue azioni rivoluzionarie di destra, commesse fino ai giorni prima della strage, erano state dettate da camerati, come Stefano Delle Chiaie suo vecchio amico, che agivano in ossequio ad una strategia voluta da un ambiente di potere nazionale e internazionale posto al vertice dello Stato.
Vinciguerra spiegò ancora di aver scelto come obiettivo i Carabinieri perché interni a questa strategia con la quale aveva voluto rompere, che vedeva una intesa segreta tra i gruppi eversivi di destra, l’Arma, i servizi segreti e alcuni politici per porre in atto una serie di azioni criminali, golpe ed attentati stragisti condotti allo scopo di condizionare materialmente e psicologicamente l’ambiente sociale e politico.
Grazie alle dichiarazioni del Vinciguerra si accerteranno anche le responsabilità di Carlo Cicuttini altro aderente a Ordine Nuovo che dopo ventisei anni di latitanza sarà arrestato nell’aprile 1998 a Tolosa in Francia ed in seguito morirà in carcere per grave malattia.
Gli aspetti di questa vicenda ripresero per me attualità ed importanza quando decisi per mio conto di riprendere ad approfondire alcuni temi dell’indagine Grande Oriente nata dalle informazioni del collaboratore Ilardo Luigi, figura di alto livello in Cosa nostra, e che avevo trasfuso nell’omonimo rapporto dell’agosto 1996 e mai sviluppati dai colleghi del Ros che non volevano che scrivessi quel rapporto.
Notizie che ritenevo importanti anche in relazione alle ragioni che avevano determinato l’assassinio del collaboratore tradito da uomini dello Stato.
Ilardo già all’inizio della sua collaborazione, mi aveva fatto presente per diretta conoscenza che stragi e attentati degli anni Novanta erano stati ispirati da quegli stessi ambienti, che già dai primi anni Settanta avevano commesso attentati, golpe e stragi per diffondere paura e incertezza per meglio stabilizzare il potere politico di riferimento, legittimando posizioni sempre più autoritarie.


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Luigi Ilardo insieme alle figlie, Luana e Francesca


Ambiente composto da uomini delle istituzioni, politici, agenti dei servizi segreti, massoni che avevano stretto patti scellerati con la criminalità organizzata di stampo mafioso in primis Cosa nostra, utilizzando o strumentalizzando un sottobosco di giovani estremisti di destra pronti a mandare allo sbaraglio.
Quadro di complicità del tutto simile a quello delineato dal Vinciguerra, ma con una unica fondamentale diversità: Ilardo era pronto a rendere dichiarazioni in merito ai magistrati.
Lo confermerà con parole chiare e dirette il 2 maggio 1996 quando lo presentai al colonnello Mori nella sede del Ros poco prima di incontrare i magistrati siciliani: “Molti attentati che sono stati addebitati esclusivamente a Cosa nostra sono stati commissionati dallo Stato”.
Il 10 maggio 1996 Ilardo sarà assassinato.
Se Peteano ha visto la volontà di coprire la matrice nera della strage per coprire di rimando la struttura della strategia della tensione, che allora insanguinava l’Italia e per Vinciguerra anche Gladio, la Trattativa con le sue vicende giudiziarie ha visto la volontà di coprire trattative passate e in corso per tutelare e ristabilizzare quel sistema di potere politico che stava cambiando nel frattempo solo la maschera.
Sono trascorsi 50 anni dalla strage di Peteano e simili sono ancora oggi le risultanze processuali con la Trattativa, vicende che avevano visto scendere in campo ufficiali dell’Arma dei Carabinieri chiamati a rispondere di gravissimi reati.
Tutti prima promossi e poi assolti, stabilendo che era quindi lecito coprire e far fuggire gli autori della strage, continuare a trattare con Cosa nostra, non arrestare latitanti mafiosi come ad esempio Bernardo Provenzano, non perquisire il covo di Riina, compiere omissioni, far sparire documenti e... Stessa umiliazione ed offesa hanno legato le morti dei tre carabinieri a Peteano a quella delle tante vittime tra uomini delle istituzioni e dei cittadini caduti per la “Trattativa” non dimenticando che si può morire in tanti modi e tutti per mano di settori dello Stato uniti nella congiura contro la verità.

* Generale dei Carabinieri in congedo

In foto di copertina:
la 500 distrutta dopo la deflagrazione che uccise i tre uomini dell'Arma Donato Poveromo, Antonio Ferraro e Franco Dongiovanni

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