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di Karim El Sadi

Il collettivo nel resort dove si nasconde: “Deve essere estradato”. Intervistata la famiglia di Jorge Biltes, ex detenuto del plotone di Malatto

Stringendo in mano uno striscione con la scritta “Juicio y castigo a los genocidas escondidos” (in italiano “giudizio e reclusione per i genocida nascosti”), il collettivo Our Voice ha organizzato un flash mob davanti alla riservatissima abitazione del tenente colonnello argentino Carlos Luis Malatto. In Argentina questo tipo di azioni le chiamano “escraches”, forme di protesta e rivendicazione nonviolente che generalmente si svolgono nei pressi delle case di ex ufficiali della giunta militare che insanguinarono il Paese dal 1976 al 1983. Sonia Bongiovanni e Matias Guffanti, direttrice e vice direttore di Our Voice, le conoscono bene. Da alcuni anni hanno aperto sedi in Uruguay e Argentina dove accompagnano le famose “Abuelas de Plaza de Mayo” nelle battaglie per la ricerca della verità contro i colonnelli della dittatura. Malatto era uno di questi colonnelli. Ma a differenza dei suoi ex commilitoni, è riuscito a sfuggire alle autorità argentine che lo accusano di decine e decine di omicidi, torture e sequestri di persona. Oggi si vive il suo “buon retiro” - la pensione per intenderci - in Italia, in una delle località più suggestive della Sicilia: Portorosa. Un resort privato, vigilato giorno e notte, in cui passa le giornate indisturbato tra villini e uscite in barca (la sua barca). Ma all’esterno del fortino-resort dove abita da oltre 10 anni - famoso per aver ospitato i capi mafia Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano e quindi luogo presumibilmente coperto dai servizi segreti italiani (cioè dalla Cia) - c’è chi sta lavorando sodo per assicurarlo alla giustizia, dai magistrati, ai familiari di alcuni dei 30.400 desaparecidos argentini. Sulla testa di Malatto, al momento, ci sono due mandati di cattura dell’Interpol ancora pendenti per crimini contro l’umanità. Sono spiccati dopo le conclusioni dei vari processi svolti a San Juan sugli orrori commessi dal “RIM 22”, il Reggimento di Fanteria di Montagna di cui Malatto era uno dei vertici in comando. Per il tribunale federale di San Juan l'ex tenente ha dato il suo contributo al golpe militare di Jorge Rafael Videla del 24 marzo 1976, "partecipando attivamente a diverse procedure di detenzione ed è uno dei più indicati dalle vittime per la partecipazione a interrogatori sotto tortura". Ciò è scritto nero su bianco nella sentenza del 3 settembre 2013 della cosiddetta “Megacausa de San Juan”. Una sentenza piena zeppa di testimonianze dei sopravvissuti ai centri clandestini sui sequestri, sugli incappucciamenti e le sevizie, dalle finte fucilazioni alle scariche elettriche sui testicoli. Quella sentenza ha condannato i commilitoni di Malatto del RIM22, ma non ha partorito alcun provvedimento nei suoi confronti nonostante nel verdetto, confermato tre anni dopo in ultimo grado di giudizio, il suo nome venisse citato 283 volte.


portorosa resort pcalligaris


La sua impunità è dovuta al fatto che l’ex tenente colonnello non poteva essere processato, e quindi giudicato, perché nel 2011 si era rifugiato in Italia e la legge Argentina non prevede processi in contumacia. Ad ottenere la cittadinanza ci ha messo pochi giorni, dicono alcuni familiari di desaparecidos.

E ora, per essere processato in patria, l’Italia deve prima autorizzarne l’estradizione. Intanto, però, si sta procedendo comunque per cercare di giudicarlo a Roma per la sparizione di alcuni italo-argentini. I magistrati di Piazzale Clodio hanno aperto un fascicolo nei suoi confronti per accertare le sue responsabilità nei centri di detenzioni di San Juan tra il 1976 e il 1977. La procura già indagava su 8 casi di desaparecidos ma dall’ultimo anno, con l’arrivo di nuovi preziosissimi faldoni dai funzionari per i diritti umani di Buenos Aires, sta allargando il campo delle indagini ad ulteriori 30 casi, di cui 7 omicidi. Nel frattempo Carlos Luis Malatto rimane nel paradiso privato di Portorosa (nel comune di Furnari), dove continua a godersi la pensione tra passeggiate e caffè al bar. Qui era stato scovato per la prima volta nel 2019 da Repubblica e qualche giorno fa, alla vigilia del 47° anniversario del golpe civile, militare, ecclesiastico ed imprenditoriale, è stato braccato anche dai ragazzi del collettivo Our Voice. E’ la prima volta che il suo "buen retiro" viene "disturbato" da giovani della società civile e non da giornalisti.

Il gruppo chiede a Malatto di consegnarsi alla giustizia e sollecita il governo affinché dia ottemperanza alle richieste di estradizione più volte formulate dalla Repubblica Argentina. “A donde vayan los iremos a buscar”, (tradotto: “Dovunque scappino andremo a cercarli”) ha detto Matìas Guffanti (italo-argentino), stringendo lo striscione davanti al cortile di casa Malatto.





Il caso Biltes, torturato dal RIM 22
Intanto a Milazzo, meta turistica distante dieci minuti di macchina da Portorosa, da qualche anno vivono Mariano Biltes e sua madre Patricia Cejpek. Mariano è figlio di Jorge Biltes, che nel marzo 1976 venne catturato nel cuore della notte nella sua abitazione a San Juan insieme ai fratelli e al padre, al tempo figura mediatica influente nella regione. Vennero tutti torturati dal plotone del RIM22 e poi rilasciati il giorno dopo. Tutti, tranne Jorge che subì torture di ogni tipo per ben 18 giorni prima di venire liberato. Dai pestaggi, alle scariche elettriche sulle gambe, alla simulazione di impiccagione e fucilazione.

La famiglia non sa del perché di quel rastrellamento visto che né Jorge, né i suoi fratelli, erano coinvolti in politica (al tempo la giunta militare faceva sparire ogni oppositore politico, o sospetto tale). Ma Patricia Cejpek sa che quella notte, tra i militari presenti in casa sua, c’era anche Carlos Malatto, che si distingueva dal resto dei militari per il tipo di uniforme. Il collettivo Our Voice l’ha intervistata insieme al figlio a Milazzo. “Ho sempre pensato che fosse lui a comandare l'operativo quel giorno”, ha raccontando ricordando il suo fare disinvolto, ma autoritario. Solo molti anni più tardi dal ritorno della democrazia in Argentina, Patricia ebbe prova che quell’uomo che entrò in casa per arrestare il marito e i cognati era il tenente colonnello di San Juan. “Mi convinsi che bisognava trovarlo”. Di lui le avevano domandato in diverse aule di giustizia in Argentina. E solo dopo diverso tempo venne a sapere che quell’ufficiale era ricercato a livello internazionale. Nel frattempo, nel 2001, il figlio imprenditore si era trasferito in Italia per lavoro, e dopo alcune esperienze lavorative finì prima a Palermo e poi a Milazzo, dove vive tuttora. Un giorno scoprì che a pochissimi chilometri di distanza viveva, e vive tutt’ora, Carlos Malatto. Il figlio di un torturato che scopre di abitare a due passi dall’uomo accusato di aver fatto torturare il padre. Entrambi lontani 14mila km dalla patria e finiti ad abitare nella stessa provincia. Uno scherzo del destino incredibile. “Questa storia se non fosse tragica, sarebbe comica”, ha commentato. Due anni fa Mariano Biltes è quindi andato a trovarlo a Portorosa, non senza difficoltà, accompagnato dalle telecamere della Rai. “Tutto il suo plotone è stato condannato, lei perché scappa?”, gli ha chiesto mentre, inseguito dalle telecamere di Spotlight, l’ex tenente cercava di salire sulla sua Panda bianca per dileguarsi. “Mi deve dare una risposta!. Torni in Argentina e si faccia processare”. Oggi Mariano e la madre ribadiscono le stesse richieste ad Our Voice. “Malatto deve pagare per ciò che fece, non può restare libero”, ha detto Patricia Cejpek alle telecamere del collettivo. “Deve pagare. Ma la mia non è sete di vendetta. E' sete di memoria per chi non c'è più, è sete di giustizia per i 30mila che non sono più tornati. Furono 30mila i desaparecidos, non dimenticatevi, non dimentichiamoci”, ha aggiunto mentre a Mariano, intervistato insieme a lei, scendevano le lacrime dal viso. “Questi signori come Malatto devono spiegare quello che fecero, devono spiegare dove si trovano quelli che non sono mai tornati. Questi signori non possono morire tranquilli”.

Foto © Pietro Calligaris

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