Secondo giorno di requisitoria del Pg Lombardo

"Preparando questa requisitoria molto frequentemente sono stato assalito da un senso di inquietudine. Perché più elementi inserivo in questi appunti e più elementi c'erano da inserire. E l'inquietudine ti assale perché tu vivi plasticamente il fatto che in quell'eterno presente ancora oggi noi acquisiamo elementi di conferma rispetto a fatti che non possono che essere considerati attuali". E' con l'accenno all’eterno presente che il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo (applicato al processo d'appello 'Ndrangheta stragista) ha iniziato il suo secondo giorno di requisitoria. "Il tempo non passa. Ciò di cui parliamo, le stragi e gli omicidi che sono avvenuti, non sono fatti vecchi. Quei fatti, incasellati in una determinata logica criminale, spiegano il crimine organizzato che viviamo oggi, sulla nostra pelle. Un crimine organizzato che si evolve e che abbandona alcune caratteristiche per abbracciarne altre. Ma in un processo evolutivo che non si interrompe".
Le condanne in primo grado all'ergastolo dei due imputati, Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, per l’uccisione dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, hanno fin qui dimostrato la partecipazione della 'Ndrangheta a quella terribile stagione di sangue e bombe, inserite all'interno di un piano politico eversivo ben preciso. Ma è evidente che nel corso del processo è stato possibile mettere in evidenza un vero e proprio percorso evolutivo delle due organizzazioni criminali in un contesto che è molto più ampio e che vede la partecipazione anche di altri poteri.
Ciò è stato possibile ricostruirlo grazie alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia che si sono aggiunti a quelli sentiti in primo grado come Marcello Fondacaro, Girolamo Bruzzese, Antonio Schettini o Annunziato Romeo. Oppure recuperando le dichiarazioni di Gaetano D'Urzo che, come già evidenziato alla precedente udienza, ha riferito del ruolo cruciale avuto dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano nella "gestione della strategia stragista e nel richiedere la collaborazione attiva della componente calabrese in quella stagione”.
Perché in Cosa nostra vi fu una divisione dei compiti precisa, così come ricordato da Lombardo, nel momento in cui lo stesso cognato di Riina, Leoluca Bagarella, nella sua gestione disse al capomafia di Brancaccio: “Con i calabresi te la vedi tu”.


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Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo © ACFB


Direzione Forza Italia
Ma “Madre Natura” (così era chiamato il boss Giuseppe Graviano dai suoi sodali) aveva anche altri compiti, nella ricerca di nuovi interlocutori politici. Contatti di cui ha parlato Gaspare Spatuzza, raccontando del famoso incontro al bar Doney in via Vittorio Veneto a Roma, nel gennaio 1994, pochi giorni prima del fallito attentato dello Stadio Olimpico. E Lombardo, in aula, non ha mancato di far notare che proprio in quei giorni, nella Capitale, proprio a Roma si è tenuta all'hotel Majestic un'importantissima riunione “indipendentemente dalla eventuale presenza di Dell'Utri in quei giorni all'hotel Majestic (la distanza dal bar Doney è di 120 metri, ndr). Lì, per la prima volta, venivano decise le liste di quella che sarebbe poi stata Forza Italia, con la collaborazione strategica anche di rappresentanze statunitensi in Italia”. Perché caso vuole che in quella stessa zona sia presente proprio l'Ambasciata Americana.
Ma Spatuzza non è l'unico che ha fatto riferimento a Forza Italia, inserendola in un preciso contesto (“La strategia stragista serviva per andare a soddisfare una serie di esigenze”). Ci sono stati anche altri collaboratori di giustizia, ma anche intercettazioni finite agli atti del processo, che meritano di essere ricordate.

L'intercettazione Pittelli
Il procuratore aggiunto ha ricordato alla corte l’episodio che ha visto come protagonista l’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli che in una intercettazione, il 20 luglio 2018, commentava un articolo in cui si parlava della sentenza trattativa Stato-mafia: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato su Il Fatto Quotidiano della trattativa Stato-Mafia. Berlusconi è fottuto... Berlusconi è fottuto”. Nell'articolo si riportavano le motivazioni del processo sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Quel procedimento individua il primo governo Berlusconi come parte lesa del ricatto allo Stato. E Pittelli aggiungeva: "Io lo so perché Dell'Utri la prima persona che contattò per Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro non se ci... se ragioniamo, tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l'altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli e l'altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente... io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro... pazzesco... l'altro giorno ci pensavo dico trentasette anni". Frasi che, ha ricordato il pg, “vengono pronunciate non da un uomo qualunque”. Parole che non possono essere “solo coincidenze” specie se si aggiungono a quanto detto, pochi anni prima, in un'altra intercettazione registrata nel corso dell'indagine “Cent'anni di Storia” .


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L'avvocato Giancarlo Pittelli © Imagoeconomica


Questa intercettazione, del dicembre 2007, riguarda un faccendiere “venezuelano”, Aldo Micciché, e Gioacchino Arcidiaco, cugino di Antonio Piromalli, figlio del superboss Giuseppe rinchiuso, appunto, al 41bis. La cosca al tempo era alla ricerca dei giusti agganci per ottenere un alleggerimento del regime di carcere duro per il capocosca e l'immunità per il figlio Antonio attraverso il conferimento di una funzione consolare per conto di un qualsiasi stato estero. “Voglio capire in che termini mi devo proporre” è la richiesta dell'Arcidiaco alla quale Miccichè rispondeva: “La Piana... la Piana è cosa nostra facci capisciri... il Porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi, insomma! Hai capito o no? Fagli capire che in Aspromonte e tutto che succede là sopra è successo tramite noi”. E “ricordati che la politica si deve saper fare... ora fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro ha bisogno di noi...”. “Ho avuto l'autorizzazione di dire che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia”. Il soggetto a cui si riferiscono i due interlocutori è il “solito” Marcello Dell'Utri (già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr), che riceverà l'Arcidiaco nel suo ufficio in piazza San Babila, a Milano. Il ruolo di Dell'Utri, del resto, è uno dei temi importanti che è stato già affrontato in primo grado nelle motivazioni della Corte d'assise di Reggio Calabria.

La struttura della 'Ndrangheta: gli invisibili
Un altro argomento affrontato nella requisitoria di ieri ha riguardato la struttura della ‘Ndrangheta, non solo per la “doppia affiliazione” con Cosa nostra, ma anche l'esistenza di parte riservata, capace di avere rapporti con gli ambienti massonici deviati, con alcuni settori dei servizi segreti e con l’eversione nera.
In questa struttura di “Invisibili” vi erano nomi importanti di raccordo tra più mondi. Di questa aveva parlato ai pm Annunziatino Romeo, cugino e “uomo di fiducia di Saverio Morabito, nonché “factotum di Rosario Barbaro, arrestato nel 1990 per traffico di droga in Lombardia.


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Secondo la Procura generale, prima della sua deposizione al processo è stato chiaramente ricattato per ritrattare anche su quelle sue dichiarazioni sull'esistenza della cosiddetta “Camera” di cui avrebbero “in rappresentanza dei Piromalli, dei De Stefano e dei Papalia, Nino Gangemi 'u signurinù (Gioia Tauro), l’avvocato Giorgio De Stefano (Reggio Calabria) e il preside Antonio Delfino (Platì), fratello del generale dei carabinieri Francesco Delfino”.
Tutte dichiarazioni contenute in un verbale del 1996 in cui, tra le altre cose affermava che “il cugino di Paolo De Stefano (l’avvocato, ndr) Domenico Papalia e Totò Delfino sono i tre cervelli della 'Ndrangheta in Calabria”. Non solo. Definiva anche il ruolo di Domenico Papalia definendolo di primissimo livello come “rappresentante nazionale della 'Ndrangheta”.
Lombardo ha ricordato in aula gli elementi grazie a cui la Procura "ha appreso che il collaboratore di giustizia di Platì, Annunziato Romeo, uomo di fiducia dei Papalia, era stato richiamato e minacciato per le sue dichiarazioni in quella trasmissione, tanto da esserne terrorizzato”.

La Falange Armata
Nel corso della requisitoria Lombardo ha ricordato nuovamente la lettera inviata alla corte da Domenico Papalia, proprio quando sono stati acquisiti certi verbali dei collaboratori di giustizia che lo inserivano in un contesto più ampio dell'organizzazione criminale.
Come le dichiarazioni di Antonio Schettini che in un verbale del 28 novembre 1996 spiegò cos’è la Falange Armata.
Secondo Lombardo, dunque, essa “non è un’invenzione propagandistica della famiglia Papalia nel momento in cui bisogna rivendicare, depistando, l’omicidio Mormile” ma “una sigla suggerita da appartenenti deviati ai servizi, come spiegano i collaboratori di giustizia”.


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L'agente penitenziario, Umberto Mormile, insieme alla figlia Daniela


Secondo il Pg fu l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, fratello del preside Antonio, originario di Platì, a consigliare la sigla ‘Falange Armata’, usata in alcuni omicidi eclatanti, come quello che vide vittima Umberto Mormile, ma anche, come ricordato alla scorsa udienza, per rivendicare le stragi degli anni Novanta.
“La sigla - ha detto Lombardo - altro non era che una agenzia di disinformazione utilizzata nell’ambito del progetto ‘Gladio’ dalla settima divisione dell’ex Sismi per operazioni riservate. Come racconta il collaboratore di giustizia, Antonino Fiume, ex cognato del boss Giuseppe De Stefano, i due raggiunsero Platì nel 1991 per incontrare il boss Domenico Papalia, che godeva di un permesso premio, ma dovettero fare anticamera poiché in quel momento Papalia era impegnato a interloquire con personaggi dei servizi di sicurezza”.

Aggancio P2 e il progetto separatista
Lombardo ha successivamente messo in evidenza una serie di contatti che altissimi vertici della 'Ndrangheta hanno avuto con la P2 di Licio Gelli.
P2 che non sarebbe affatto finita con l'istituzione della legge Anselmi. In aula lo aveva detto in maniera chiara il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, ex imprenditore nell'ambito sanitario ed ex massone: “In Calabria c'erano più logge. C'erano anche logge che erano braccio della P2 di Licio Gelli il cui Maestro Venerabile era Strangi Giuseppe di Gioia Tauro, suocero di Ninello Piromalli, figlio di Gioacchino”. E poi ancora:Luigi Sorridenti mi disse che la P2 di Gioia Tauro era una derivazione della P2 di Gelli per il rapporto che si era instaurato tra lo stesso Peppe Piromalli, detto 'musso storto', e lo stesso Gelli”.
Elemento importante è l'anno in cui Fondacaro apprende che la loggia di Gioia Tauro è un'articolazione della P2, collocato tra il 1985 ed il 1986, diversi anni dopo l'istituzione della legge Anselmi (datata 25 gennaio 1982), contro le associazioni segrete.


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L'ex Gran Maestro, Giuliano Di Bernardo


Un elemento, quello della prosecuzione della P2, che in qualche maniera rafforza il racconto del Gran Maestro Giuliano Di Bernardo.
Di Bernardo diventa a sua volta importante perché, assieme ad Antonio D'Andrea, vice segretario nazionale della lega meridionale "Centro Sud e isole", hanno raccontato il fermento politico degli anni Novanta raccontando proprio il ruolo di Gelli nel progetto delle Leghe inserite in un contesto di “alta politica internazionale” in un “momento in cui si doveva rompere con i vecchi partiti e si doveva arrivare ad una stagione nuova”.
Sui rapporti tra Gelli e la 'Ndrangheta, Lombardo ha anche ricordato altri elementi acquisiti nelle indagini: G. C., cugino di primo grado di Giuseppe Calabrò, l’assassino materiale dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, nel 1995 scompare da Reggio Calabria. Di lui si scoprono tracce a Roma, Milano e a Montecarlo. Le indagini consentono di fare emergere che G. C. era delegato ad operare su un conto corrente bancario intestato a Maria Cristiana Gelli, figlia di Raffaello e nipote di Licio Gelli”.

La vicenda Scopelliti e la bomba di Palazzo Sangiorgio
Un altro tema affrontato ieri è stata la vicenda del tritolo trovato a Palazzo San Giorgio nel 2004 quando, stando alla sua ricostruzione, la componente riservata della ‘Ndrangheta reggina avrebbe provocato la crisi politica al Comune all’epoca guidato da Giuseppe Scopelliti. Un elemento importante per dimostrare come passato e presente si intrecciano seguendo una logica che va oltre il semplice rapporto tra mafie ed istituzioni.
“Scopelliti una volta eletto si voleva discostare da determinate logiche che erano le stesse che lo avevano messo lì - ha detto Lombardo - Loro stessi gli hanno creato la crisi per poi, quando si è riallineato, farlo recuperare con il finto attentato. Infatti, divenne il sindaco più acclamato negli anni successivi”.


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L'ex sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Scopelliti © Imagoeconomica


E poi ancora, proseguendo nella ricostruzione, ha aggiunto: “Chi rinviene l’esplosivo al Comune di Reggio Calabria il 6 ottobre 2004 è il questore Vincenzo Speranza. Attraverso una serie di passaggi, che coinvolgono alcuni appartenenti al servizio di sicurezza militare, e in particolare Marco Mancini, possiamo affermare che chi cercava l’esplosivo sapeva perfettamente dove era stato collocato. Il questore Vincenzo Speranza non aveva poteri divinatori. Successivamente, quando Scopelliti arriverà alla Regione, Speranza riceverà un importante incarico fiduciario. Ci muoviamo all’interno di un circuito che si auto riscontra. Un sistema che va oltre le componenti tipicamente mafiose”. Ed è anche da qui che si ricaverebbe una spiegazione per quel “finto attentato”.
Dunque il Pg ha ricordato la relazione di servizio della questura su una “fonte fiduciaria” che indicava come organizzatore del finto attentato tale Giuseppe Schirinzi, noto estremista di destra promotore, in quegli anni, della manifestazione “La Regata di Ulisse”. “Per organizzare quella regata - ha ricordato Lombardo - il sindaco Scopelliti e la giunta comunale hanno riconosciuto un finanziamento pari a 700mila euro”. Soldi che “sono arrivati a Schirinzi il quale, invece di destinarli alla 'Regata di Ulisse', li ha prelevati tutti per destinarli non sappiamo a che cosa. Che cosa è stato pagato a Schirinzi con quei 700mila euro? Magari il fatto di aver collocato l’esplosivo e aver consentito al sindaco Scopelliti di acquisire visibilità nazionale e, quindi, la credibilità che aveva perso?”.
Oggi è atteso l'ultimo giorno di requisitoria con le richieste delle pene, dopodiché la parola per la discussione passerà alle parti civili.

Foto di copertina © ACFB

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