Al Processo Agostino sentito l’ex magistrato sui rapporti con Falcone, Contrada e La Barbera
“Io e Giovanni Falcone parlammo del delitto Agostino e rimanemmo impressionati. Non conoscevo personalmente l’agente Agostino ma l’idea di questo giovane ucciso assieme alla moglie, tra l’altro incinta, ci sconvolse”. A parlare è Giuseppe Ayala, magistrato già in servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo, nonché amico stretto di Giovanni Falcone, udito ieri mattina dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo (presidente Sergio Gulotta) durante il processo Agostino che vede imputato il boss dell’Arenella Gaetano Scotto (accusato di concorso in omicidio) e Francesco Paolo Rizzuto (accusato di favoreggiamento) per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio: uccisi da Cosa Nostra il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Giuseppe Ayala, chiamato a testimoniare per riferire quanto a sua conoscenza circa le confidenze che egli ricevette da Falcone al riguardo degli omicidi compiuti ai danni di persone impegnate nella ricerca di latitanti di Cosa Nostra e sulle confidenze che ricevette dallo stesso in relazione ai fatti accaduti nel 1989, sul delitto Agostino ha detto: “Commentammo assieme la notizia. Noi, purtroppo, avevamo alle spalle una lunga serie di delitti che ci avevano anche toccato da vicino, a partire da Rocco Chinnici e Ninni Cassarà. Questo omicidio Agostino ci colpì molto sul piano umano. Ricordo che ci siamo guardati chiedendoci: ‘Chi c’è dietro? Perché lo hanno ammazzato?’ Ci fece un’impressione tremenda commentando l’accaduto”. Ayala ha poi aggiunto, in risposta all’avv. Fabio Repici, di non sapere “perché la sera dopo l’omicidio (il 6 agosto ’89, ndr) Giovanni Falcone si recò alla camera ardente”, perché “in quel periodo avevo delle difficoltà di vita privata e per questo era un periodo in cui ci vedevamo un po’ meno (con Falcone, ndr). Giovanni mi prestava un’assistenza amichevole però ci vedevamo un po’ meno perché tecnicamente parlando ero incasinato. Quindi di quella visita di Giovanni non me ne parlò. Non ne so niente”. Ma a dare ulteriore conferma della presenza dell’allora giudice istruttore presso la camera ardente dei giovani sposi Nino Agostino e Ida Castelluccio, vi è la testimonianza della sorella minore di quest’ultima - Antonella - anch’essa udita ieri al processo. “Ero rincasata verso le 4 del mattino di ritorno dal viaggio di nozze (mi sposai il 27 luglio ’89) - ha detto ricostruendo il suo 5 agosto 1989 -. Quando seppi del duplice omicidio chiamai l’ospedale di Carini e mi dissero che non potevano darmi delucidazioni. Successivamente con il mio ex marito siamo andati in ospedale ma mia sorella e il mio ex cognato non c’erano perché erano al cimitero di Carini. Andammo al cimitero ma io non sono entrata perché ero in gravidanza di mio figlio e mio ex marito spaventato che mi sentissi male mi sconsigliò di entrare. Il 6 agosto le salme sono state portate al Commissariato di San Lorenzo. Sono andata e ho visto le salme di mia sorella e mio ex cognato. Ricordo che quel giorno, verso le 15, è venuto a vedere le salme il dottor Giovanni Falcone. Si avvicinò a me chiedendomi chi fossi e gli dissi che ero la sorella. C’era anche mia nonna, la mamma di mio padre, e Falcone le chiese se fosse la mamma di Ida. Falcone guardò mia sorella e sottovoce disse: ‘Sono morti per me’”. Antonella Castelluccio ha inoltre ricordato un episodio strano avvenuto il 7 agosto ’89. “Ai funerali ho preso una boccata d’aria fuori dal Commissariato San Lorenzo - ha detto -. Si avvicinarono due tipi dal viso bruttissimo che avranno avuto sui 45 anni. Mi chiesero se il personale dell’agenzia funebre se ne era andate e gli risposi che non lo sapevo. Entrai nel commissariato e dissi a mio zio (fratello di mio padre), ora deceduto, che c’erano queste persone brutte. Anche per lui era strano, ma non rividi mai più quelle persone”. Oltre ad Ayala e alla Castelluccio, nell’arco dell’udienza sono stati sentiti anche Grazia Gulino, amica di adolescenza di Ida Castelluccio, e il boss Antonino Madonia, condannato all'ergastolo in abbreviato, condannato all'ergastolo in abbreviato dal Gip Alfredo Montalto (come richiesto dalla Procura generale) il quale - difeso dall’avvocato Alessandro Martorana, si è avvalso della facoltà di non rispondere perché imputato in Corte d’appello proprio per il duplice omicidio Agostino-Castelluccio. Presenti in Aula anche i pm Lia Sava e Domenico Gozzo.
Il magistrato Giovanni Falcone © Letizia Battaglia
1989: l’anno delle delegittimazioni dei poteri collusi con la mafia
Altro tema trattato in udienza da Ayala sono state le delegittimazioni che Falcone ha subito in vita, partendo da due fattori. Da un lato le “lettere del Corvo” degli inizi di giugno 1989, che accusarono Giovanni Falcone di aver orchestrato il rientro del collaboratore di giustizia Salvatore Contorno e di averlo armato per un progetto di pulizia etnica ai danni dei capimafia corleonesi (Contorno venne catturato a San Nicola l’Arena il 26 maggio 1989). Dall’altro lato il fallito attentato all’Addaura scoperto il 21 giugno dello stesso anno che spinse Falcone a ipotizzare l’esistenza di “menti raffinatissime” dietro quel progetto dinamitardo. “Quando all’Addaura un agente di scorta di Falcone sventò l’attentato trovando il borsone io ero a casa - ha detto Ayala -. Una volta individuato il pericolo Falcone fu caricato su un’auto blindata e andò al palazzo di giustizia. Quella mattina mi chiamò per dirmi: ‘Senti Peppì quando arrivi al palazzo di giustizia passa prima da me’. La Procura della Repubblica aveva gli uffici al secondo piano mentre l’ufficio istruzione era al piano ammezzato. Al telefono la sua voce non tradiva nessuna particolare emozione. Una volta arrivato nella stanza di Falcone mi racconta quello che era successo. Non si avevano le idee chiarissime sull’accaduto, anche perché credo che ancora non fossero stati trovati i famosi 58 candelotti di dinamite rinvenuti con accertamenti successivi, ma questa scoperta fortemente sospetta della borsa da sub era un dato acquisito. Dialogando con me non usò il termine ‘menti raffinatissime’ (utilizzato successivamente in una famosa intervista rilasciata a Saverio Lodato per l’Unità, ndr) ma, in un commento a caldo, mi disse: ‘Questa non è solo mafia. Qua ci sono dei poteri collusi con il fenomeno mafioso’. Giovanni Falcone era un uomo notoriamente coraggioso ma questa vicenda lo preoccupò”. All’epoca dei fatti una cospicua parte della stampa vagheggiava che Falcone si fosse fatto l’attentato da solo. Una vicenda della quale “ne parlammo perché era sui giornali - ha commentato Ayala -. Eravamo schifati da quella lettura”. I due si interrogarono sull’origine di tali delegittimazioni. “Eravamo sicuri che dietro ci fosse la mano di qualcuno… di chi fosse la mano non lo sapevamo, ma era chiaro ed evidente che c’era una manovra anche se non sapevamo a chi facesse capo”. “Verosimilmente - ha aggiunto - eravamo ostacolati da centri occulti di potere”. E in quella estate il fallito attentato all’Addaura si intrecciò con l’episodio delle “lettere del Corvo” perché “riempirono quella estate” e “accusavano me, Falcone, Giammanco e De Gennaro di essere ‘assassini di Stato’”, ha aggiunto dicendo di non ricordare se vi fosse un riferimento anche al Prefetto Parisi, allora Capo della Polizia. Anche le “lettere del Corvo” furono oggetto delle interlocuzioni tra Ayala e Falcone. “Eravamo incazzati neri - ha detto -. Diventò un argomento su cui abbiamo parlato molto”. Ma un collegamento “in maniera meno esplicita” fra le lettere e il fallito attentato all’Addaura “non lo ipotizzammo. Ma Falcone mi prospettò sicuramente l’ipotesi di un disegno di delegittimazione. La delegittimazione di Falcone tendeva ad isolarlo per rendere più agevole la sua uccisione come è avvenuto poi. Per noi era chiaro che c’era un nesso, non era nemmeno necessario esplicitarlo”. “Falcone ne subì di tutti i colori - ha continuato il teste -. Non dimentichiamo l’accusa di aver nascosto nel cassetto le prove dei rapporti tra mafia e politica. Un’accusa mossa da Luca Orlando, Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. Ma loro non furono anonimi perché lo firmarono, si assunsero la responsabilità e lo inviarono al Csm. È una storia diversa dall’anonimo”. Infine, in riferimento alla compartecipazione di soggetti diversi da Cosa Nostra nel fallito attentato all’Addaura, come ad esempio servizi segreti o settori della Polizia, Ayala ha risposto all’avvocato Fabio Repici: “No, no no… noi iniziammo a lavorare a pieno ritmo nell’82. Approfondendo e lavorando e scoprendo questo fenomeno che all’epoca era poco conosciuto, maturammo alcune convinzioni e intuizioni che non avevano riscontri processuali. Ma eravamo convinti di una commistione, non quotidiana e su tutto, tra Cosa Nostra, pezzi della politica e pezzi del potere deviato. Di questo io e Falcone ne eravamo fermamente convinti”.
L'ex numero tre dei servizi segreti, Bruno Contrada
Falcone mi disse: “A cura a Contrada”
Un altro segmento importante della testimonianza di Giuseppe Ayala ha avuto in oggetto la figura dell’ex dirigente del Sisde Bruno Contrada, già sentito come teste assistito davanti alla Corte d'Assise di Palermo nell'arco del processo Agostino in cui, lo scorso febbraio, tra le altre cose, disse di non sapere che “esistesse a Palermo un agente con nome Nino Agostino. Ho saputo della sua esistenza dopo la sua morte dagli organi di stampa”. Sempre davanti alla corte il giornalista Saverio Lodato Saverio Lodato ricordò alcuni aspetti controversi che si celano dietro la figura di Contrada. Primo su tutti il riferimento che Falcone gli fece in merito alle “menti raffinatissime” dietro il fallito attentato all’Addaura. “Lui (Falcone, ndr) parlò del fatto che era giunto alla conclusione che secondo lui dietro Cosa Nostra si muoveva la presenza di ‘menti raffinatissime’ che guidavano la mafia dall’esterno. Lui capì che non era soltanto farina del sacco della mafia - disse a suo tempo Lodato -. Davanti a tale dichiarazione insistetti affinché Falcone mi desse un nome e un cognome in riferimento alle ‘menti raffinatissime’. E poi mi fece il nome del dottore Bruno Contrada come uno di quelli che remava contro”. Un’affermazione forte per un uomo di Stato, ma che trova riflesso nelle parole di Ayala. “Mi colpì molto che dopo l’uccisione del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa fu istituito l’Alto Commissario della lotta contro la mafia. E il primo Alto Commissario era il Prefetto De Francesco che nominò suo capogabinetto il dottor Bruno Contrada, che aveva lavorato per anni in Polizia ma che io non conoscevo - ha detto -. Una mattina il dottor Contrada assunta la veste del capogabinetto dell’Alto Commissario venne alla Procura della Repubblica a salutare il procuratore della Repubblica. Stretta di mano e saluti. C’ero anche io in quella occasione. Al palazzo di giustizia era abitudine che verso le 20 io scendessi dal 2° piano al piano terra per parlare con Giovanni (Falcone, ndr) a fine giornata per parlare anche di lavoro o per organizzare la serata. E io quel giorno gli raccontai che quella mattina era venuto in ufficio il capogabinetto Contrada per salutare. E Falcone mi disse: ‘A cura a Contrada’. Non mi motivò quella affermazione, né tanto meno io chiedo spiegazioni. Ma intendeva dire: ‘Stai attento a Contrada’. Era un segnale, ma non mi preoccupai più di tanto perché non avevo molto a che fare con l’alto commissario, fosse stato il capo della Squadra Mobile sarebbe stato diverso. C’era da parte di Falcone una preoccupazione nei confronti di Contrada. Ma non so da cosa derivasse questa diffidenza”. L’avvocato Repici ha poi chiesto al teste se Contrada nell’estate del 1989 si fosse messo in contatto con Falcone o con Ayala stesso, ma quest’ultimo - per quanto riguarda la sua persona - ha negato l’ipotesi. Fabio Repici, successivamente, ha portato all’attenzione del teste un documento - agli atti - tratto da un’agenda datata 1989 sequestrata a Bruno Contrada nel momento del suo arresto del 24 dicembre 1992 in cui in data 5, 6 e 7 agosto sono scritti degli appunti che riportano anche il cognome “Ayala”. Il 5 agosto si legge: “Cercato dottor Ayala inutilmente”. Il 6 agosto, invece, “telefonato dottor Ayala per in con Falcone. Domani 17:30 ufficio”. Il 7 agosto, infine, c’è scritto: “Ore 18:30 Palazzo giustizia colloquio con giudice Falcone e sost proc Ayala” con accanto un’annotazione del Contrada: “Mi hanno confermato che il mio nome non è stato fatto dal Tognoli quale suo favoreggiatore. Chiarita vicenda Mattarella”.
Il legale della famiglia Agostino, Fabio Repici © Emanuele Di Stefano
“Di questo incontro non ho ricordo - ha risposto Ayala -, ma della vicenda Tognoli sì. Andammo con Giovanni in Svizzera per una commissione rogatoria e interrogammo Oliviero Tognoli (narcotrafficante lombardo colpito da un paio di mandati di cattura internazionale, uno in Italia e uno in Svizzera, ndr). Finito l’interrogatorio eravamo io, Falcone, la dottoressa Carla Del Ponte e il difensore di Tognoli. Una volta terminato io rimango seduto a sistemare le carte e vedo che Falcone, la Del Ponte, Tognoli e il suo avvocato chiacchierano tra di loro diversi minuti. Una volta sistemate le carte mi avvicino, la conversazione era finita e ce ne andiamo. In quel momento Giovanni mi disse: ‘Dobbiamo tornare perché forse c’è una verbalizzazione molto interessante che riguarda un personaggio…’ accompagnando questa affermazione da una risatina. E aggiunse che quando avrebbe verbalizzato avrei saputo a chi si riferisse. Il nome però non me lo disse. Quando tornammo Tognoli fece marcia indietro e la verbalizzazione non avvenne nei modi in cui Falcone si aspettava”. Ayala ha inoltre detto di non essere a conoscenza di “alcun organismo interno al Sisde con il compito di analizzare e ricercare latitanti”, come domandato dall’avv. Repici. Anzi, a scanso di equivoci, il teste ha voluto sottolineare che “noi rapporti con i servizi segreti non ne abbiamo mai avuti né siamo stati mai cercati dai servizi. Noi facevamo i magistrati e lavoravamo con la polizia giudiziaria”.
I rapporti Falcone-La Barbera
Successivamente l’attenzione si è spostata sulla figura di Arnaldo La Barbera (deceduto), ex dirigente della Squadra mobile di Palermo. Una figura che, secondo quando emerso nel processo Borsellino quater, sarebbe stato tra i protagonisti del depistaggio sulla strage di via d'Amelio con la "creazione" del falso pentito Vincenzo Scarantino, nonché soggetto appartenente al Sisde (1986-1987) con il nome in codice "Rutilius" e uomo a libro paga di Cosa Nostra, come dichiarato anche dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo ("era al libro paga dei Madonia e fino al ’91 veniva a vicolo Pipitone", il centro di comando dell’Acquasanta). “L’ho conosciuto ma non ho mai avuto rapporti di lavoro che io ricordi - ha detto Ayala -. Anzi, ricordo un episodio quando lui rese servizio a Palermo e accompagnò a me e Peppino Di Lello - perché Falcone non poteva - ad una rogatoria in Inghilterra. Era l’interrogatorio di Di Carlo in carcere e La Barbera era con noi”. “Se la devo dire tutta - ha continuato - io e Di Lello rimanemmo allibiti che durante l’interrogatorio La Barbera si addormentò sulla poltrona. Era la prima volta che lavorava con noi e ci meravigliò. L’interrogatorio lo faceva Di Lello e io ero il pm che lo accompagnò ma ci sorprese e non ci fece una bella impressione”. Ayala ci ha tenuto a precisare, infine, di non sapere nel dettaglio “il tenore di collaborazione istituzionale tra Falcone e La Barbera”. “Io non ero un componente del pool antimafia - ha precisato -. Ero il pm di riferimento e non passavo la vita nell’ufficio istruzione. C’erano incontri abituali la sera in cui parlavamo anche di lavoro. Però sull’attività quotidiana dei colleghi giudici istruttori io ero al secondo piano nel mio ufficio e facevo il mio lavoro anche se ero il pubblico ministero di riferimento”.
Foto di copertina © Deb Photo
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