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Al Processo Agostino le audizioni di Morvillo, Mancuso, Parlagreco, Pampillonia, Martino e Macchiarella


Il fallito attentato all'Addaura? Che Giovanni Falcone volesse farsi un bagno in quel 21 giugno 1989 e che avesse invitato anche i magistrati svizzeri (tra cui vi era Carla Del Ponte) era un fatto noto solo a un gruppo ristrettissimo di persone. Ne è certo Alfredo Morvillo, ex Procuratore capo di Trapani (oggi in pensione), fratello della giudice Francesca e cognato dello stesso Falcone, sentito venerdì al processo che si celebra dinanzi alla corte d’Assise di Palermo, presieduta da Sergio Gulotta, nell’ambito del processo sul duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio.
Rispondendo alle domande del legale di parte civile, Fabio Repici, l'ex magistrato ha ribadito che l'unica volta in cui Falcone esternò quel desiderio fu in occasione di una cena, avvenuta “uno o due giorni prima in un ristorante a Mondello”, alla quale erano presenti, oltre a lui, anche “tanti rappresentanti delle forze dell’ordine”.
Un dettaglio non da poco. Specie se si considera che dopo il fallito attentato Falcone parlò di “menti raffinatissime” nella famosa intervista rilasciata a Saverio Lodato.
Certo è che, come ha ricordato Morvillo, “se quella bomba fosse scoppiata avrebbe provocato la scomparsa delle uniche due persone che erano a conoscenza dell’indicazione di Oliviero Tognoli”.
Il riferimento è alle dichiarazioni di Tognoli, narcotrafficante bresciano, sentito proprio da Falcone e dalla Del Ponte dopo l'arresto avvenuto a otto mesi di distanza dal fallito attentato all’Addaura.
Tognoli, all’epoca era ricercato sia a Palermo che in Svizzera per traffico di stupefacenti e grazie a una soffiata telefonica riuscì a fuggire dall’Hotel Ponte di Palermo proprio qualche attimo prima di finire in manette. Il faccendiere si nascose in Svizzera dove venne poi arrestato nell’ottobre 1988. “Dopo che venne arrestato”, ha ricordato Morvillo, il magistrato Carla Del Ponteinformò immediatamente Falcone, con il quale era in contatto per altre indagini e lo informò anche della facile impressione che (Tognoli, ndr) fosse disposto a collaborare”. Quindi Falcone, ha proseguito nel suo ricordo Morvillo, “organizzò subito una prima rogatoria e si recò a Lugano con Ayala (Giuseppe, ndr)”. Ricostruendo quell’episodio, Morvillo ha rammentato che al termine del primo interrogatorio della Del Ponte, “Falcone, da solo, senza Ayala, si alzò e si avvicinò a Tognoli e a un certo punto gli chiese esplicitamente ‘ma tu sei scappato da un albergo… per caso?’ e Tognoli tergiversò. Quindi Falcone gli fece una domanda diretta “fu Contrada?” e Tognoli rispose “si””. Questa conversazione fu sentita anche dalla dottoressa Del Ponte che ne riferì anche nel famoso processo per concorso esterno al numero tre del Sisde. Una sentenza che è stata dichiarata “priva di effetti penali”, ma che non è mai stata revocata.
Falcone stabilì con l’ex latitante un nuovo incontro per “verbalizzare di fronte al giudice istruttore”. Quando fu il momento, però, Tognoli non verbalizzò il nome di contrada e, come ha ricordato Morvillo, “in quell’occasione, parlando di chi lo fece fuggire, fece un altro nome”.
Secondo il teste, dunque, Falcone si interessava anche sul piano giudiziario alla figura di Contrada anche perché “c’erano in corso delle indagini su Contrada, ancor prima del 23 maggio ’92”.

La scomparsa di Piazza nelle parole di Falcone

A seguire, nel corso dell’esame, Morvillo, sempre rispondendo alle domande di Repici, ha parlato di Nino Agostino e di Emanuele Piazza in riferimento ai suoi colloqui con Falcone. 
“Dell’omicidio Agostino ricordo che a volte ne parlavamo proprio per motivi d’ufficio perché ricordo che ci fu un momento in cui erano venute fuori delle ipotesi investigative di collegamenti con il caso Piazza per la comune passione per l’attività subacquea e perché poi c’era qualche riferimento investigativo, da cui non emerse nessuna conferma, di qualche lontana ipotesi che uno dei due avesse partecipato alla collocazione dell’esplosivo nella scogliera. Ricordo che una delle ipotesi che veniva fuori da queste circostanze che erano state rilevate era perché fu sequestrata la muta di Emanuele Piazza e così via…”, ha rammentato.
Riguardo a Piazza, Morvillo, che da sostituto procuratore indagò sulla sua scomparsa, ha affermato che con Falcone “si discuteva delle evidenze investigative… cioè che veniva fuori che Piazza si occupava della ricerca di latitanti e aveva ottenuto una lista da parte di un personaggio dei servizi e lui, anche se non avevamo una prova diretta, vivendo in un quartiere dove vivevano certi personaggi, cercava di acquisire informazioni sui latitanti inseriti in quell’elenco”.

piazza emanuele

L'ex agente di Polizia di Stato Emanuele Piazza


Il mistero dell’auto di Piazza


Un episodio, quantomeno misterioso, su Emanuele Piazza è quello che in aula ha raccontato il dirigente della Digos di Palermo, Giovanni Pampillonia, preceduto dalle audizioni di Stefana Macchiarella e Giulio Martino (convocato per riferire su Aiello). Pampillonia, quando prestava servizio a Trapani aveva avuto modo di compiere alcuni accertamenti rispetto le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Elmo.
Elmo, in particolare, aveva riferito che “Piazza si muoveva con alcuni mezzi e per questo il procuratore di Trapani, con una delega abbastanza corposa ci chiese di accertare quali erano questi mezzi in suo uso e se lavorava in qualche azienda”. L’indagine venne svolta dalla Digos di Trapani e comunicata alla procura di Trapani in un periodo in cui “avevamo già contezza del scomparsa di Piazza”. “Facemmo un accertamento documentale in ordine ai mezzi che Piazza aveva in uso in quanto il collaboratore Elmo disse che si muoveva con una Vespa e che aveva in uso anche un’altra moto. Acquisimmo i dati dalla motorizzazione e scoprimmo che era intestatario di altre vetture. Al fine di accertare quali fossero gli ulteriori automezzi di cui aveva potuto aver uso effettuammo un accertamento al CED, la memoria elettronica del ministero dell’Interno e accertammo una cosa che ci sembrò molta strana e cioè che Piazza era intestatario di una Ford Sierra”. In particolare, ha spiegato il teste, “tramite accertamenti del CED emerse che Emanuele Piazza e la sua autovettura sarebbero stati fermati dai Carabinieri del Nucleo radiomobile di Bagheria, in anni successivi (nel 1995, ndr) alla dichiarazione della sua scomparsa (avvenuta nel 1990) e per giunta con un’autovettura che era stata dichiarata rubata addirittura nel 1989, cioè l’anno ancora precedente la scomparsa”. Questa anomalia, ha riferito Pampillonia, “fu oggetto di annotazione di indagine e venne comunicata e consegnata al procuratore della repubblica di Trapani”.
Quell'informazione fu trasmessa successivamente da Trapani alle Procure di Palermo, per l'indagine sulla scomparsa, ed a Caltanissetta, dove c'era l'inchiesta sull'Addaura.



Piazza e il ricordo del giornalista Parlagreco

Altro teste a salire sul pretorio è stato il giornalista e scrittore Salvatore Parlagreco, amico di Emanuele Piazza e della sua famiglia. I suoi rapporti con l’ex poliziotto “nacquero nel 1985, me lo ricordo perché al tempo segretario della federazione del PSI a Palermo”, ha riferito il teste ricordando che Piazza in quel periodo aveva da poco lasciato la Polizia di Stato - in cui fece parte della scorta del presidente Pertini e di una squadra antidroga guidata da Gianni De Gennaro - per divergenze tecniche con il suo capo. Nel 1990, quando Piazza scomparve, Parlagreco era direttore del servizio comunicazione dell’Assemblea Regionale Siciliana ed è qui che venne a conoscenza della notizia. Sulla vicenda, però, “non ho fatto un’attività investigativa personale”, ha detto il giornalista rispondendo alla domanda di Repici se si fosse personalmente occupato della scomparsa precisando di essersi comunque “interessato a cosa era capitato, vista l’amicizia”. Al tempo Parlagreco si fece una sua idea sulle ragioni della scomparsa del suo amico con il quale collaborò per un anno fino al 1986 ai tempi del PSI. “Anche se non me lo diceva mai chiaramente, credo che lui volesse dirmi che si occupava di cose importanti circa la latitanza di boss. Queste cose non si dicono totalmente ma si intuiscono e si capiscono, potrei dire di sì sapendo interpretare il suo pensiero. Io ne ero convinto da quello che mi disse. E mi disse che aveva naturalmente dei rapporti con l’altra parte della barricata, cioè ambienti di mafia”. Nel suo racconto, Parlagreco ha rammentato che Piazza gli disse in aggiunta “che aveva progetti di import-export, non ricordo i dettagli, e che mentre stava progettando una sua futura vita futura di carattere economica mi faceva capire di stare lavorando per le forze di polizia”. “Le disse genericamente per le forze di Polizia o fece riferimento a servizi segreti?”, gli ha chiesto Repici. “Non posso ricordare esattamente”. E ha aggiunto. “Io credo che lui si occupasse di ricerca di latitanti ma essendo un argomento delicato non credo potesse parlamene in maniera diretta. E’ parlando con il padre che io venivo a sapere più cose perché il padre ha sempre detto che parlava per conto dei servizi, e io mi meravigliavo notevolmente che fosse stato dato questo incarico a questo ragazzo perché lo conoscevo e non pensavo avesse caratteristiche tali da svolgere questa missione. E di questo ero molto amareggiato”. 
Alla domanda se con Emanuele Piazza avesse parlato del fallito attentato a l’Addaura, Parlagreco ha detto di non averne mai discusso anche perché dopo l’86 “ho avuto rari incontri con lui fino alla sua scomparsa”. Poi all’Ars “tirarono fuori la cosa che l’attentato potesse essere stato commesso niente meno che da Emanuele Piazza, era una voce che circolava nei miei ambienti giornalistici. La cosa mi ha meravigliato moltissimo perché era una cosa che a mio modesto parere non aveva né capo né coda”.
In seguito l’avvocato ha domandato al teste se avesse avuto contezza di rapporti tra Emanuele Piazza e Nino Agostino. “Posso dire di avere appreso dei rapporti tra loro ma non posso dire da chi…” (non si ricorda, ndr). Quindi Repici gli ha domandato se ne avesse avuto contezza da Giustino Pizza, padre di Emanuele, ma il teste ha risposto negativamente.
“Quando lei apprese di questa circostanza aveva ancora rapporti con l’avvocato Piazza?”, ha chiesto ancora Repici sul punto. “Io non ho mai smesso di avere rapporti con lui, solo che ora ci vediamo ogni tanto mentre al tempo ci vedevamo più volte”.
“Quindi lei apprende, non sappiamo da chi, di questa circostanza significativa del rapporto tra Emanuele Piazza e un’altra persone che era stata uccisa pochi mesi prima e con suo padre non fa alcun commento?”, ha osservato il legale. “Si… che le posso dire? Non ne ho mai parlato…”.

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Nino Agostino e Ida Castelluccio


La testimonianza di Carmine Mancuso

L'ultimo ad essere sentito è stato Carmine Mancuso, ex poliziotto, figlio del maresciallo di polizia Lenin Mancuso, ucciso il 25 settembre 1989 assieme al giudice Cesare Terranova. Questi ha negato in maniera categorica di aver mai preso “anche solo un caffé” con Guido Paolilli, l’ex poliziotto che si occupò delle prime indagini sul delitto Agostino-Castelluccio e che fu indagato per favoreggiamento con l’accusa di aver distrutto dei documenti (la sua posizione venne poi archiviata per intervenuta prescrizione, ndr).
Con Paolilli ho avuto un rapporto di conoscenza perché eravamo nella stessa sezione (volanti, ndr). Non posso escludere di esser stato con lui di pattuglia. Si trattava comunque di rapporti non organici”, ha detto rispondendo alle domande dell'avvocato Repici.
Una dichiarazione che in qualche maniera contrasta con quanto dichiarato da Vincenzo Agostino in udienza, il quale ha raccontato di aver conosciuto Mancuso ad una cena e che a presentarglielo fu proprio Paolilli. “Assolutamente no. Che io abbia cenato con la famiglia Agostino lo escludo in maniera categorica. Può essere anche non genuina la risposta, ma anche non genuina la dichiarazione. Io con Paolilli non ho mai preso neanche un caffé”, ha escluso nervosamente Mancuso.
Sicuramente, comunque, con Agostino ebbe dei rapporti, in quanto oltre che in politica ebbe un ruolo come Presidente del Coordinamento antimafia, associazione dei parenti delle vittime di mafia.
Un ruolo che poi fu rivestito da Carlo Palermo ed Angela Lo Canto.
Nel processo è emerso che Palermo, che fu legale di fiducia della sorella del poliziotto, Annunziata Agostino, offrì in una memoria presentata al Gip per opporsi alla richiesta di archiviazione del caso. In quel documento l'ex magistrato evidenziava un possibile coinvolgimento dei servizi di sicurezza nel delitto Agostino.
Alla domanda se avesse mai parlato di questo con l'ex giudice, il teste ha detto di “non poterlo escludere”.
Altro tema ha riguardato i rapporti con il commissario Montalbano. Quest'ultimo, già sentito nel processo aveva parlato di quel che gli riferì il dottore Pinotti, ex Capo di Gabinetto della Questura di Palermo, il quale gli disse che “dentro la polizia c'è il servizio, la linea occulta dei servizi”, parlandogli addirittura di una percentuale del 30%. E a detta di Pinotti gli fece anche il nome di Mancuso.
Sul tema, però, Mancuso ha detto di non saper nulla. “Con Pinotti, forse, ci siamo scambiati al massimo un saluto. La nostra era una conoscenza evasiva”. E poi ancora: “Presenza dei Servizi in polizia? Di voce c'erano di tutti i tipi. Mai saputo di un'appartenenza organica di chicchessia. Se ho mai avuto rapporti col Sisde? Non conosco neanche la sede. E quando fui eletto senatore per la prima volta l'ex Prefetto Finocchiaro, che era a capo del Sisde mi invitò per le nostre posizioni differenti. Ma io non andai mai”.
Sempre rispondendo a Repici il teste ha anche parlato dei suoi rapporti con il giudice Di Pisa (“Indubbiamente vi furono per motivi professionali. Ci furono due fasi. Non correva buon sangue. Nella vicenda del Corvo come associazione prendemmo una posizione in favore di Falcone e lui ebbe una certa acrimonia. Poi casualmente ci incontrammo in uno studio televisivo e durante l'attesa, obtorto collo, iniziammo a dialogare. Ci contestava che non l'avevamo mai invitato ad un convegno. Alla fine risposti che ci saremo dati incarico di invitarlo. Ed i rapporti divennero più distesi”).
A quel punto Repici ha chiesto se tra quelle due fasi sottoscrisse il famoso esposto al Csm contro il giudice Falcone e a quel punto l'aria in aula si è fatta più tesa. “Non era contro Falcone. Con Galasso e Orlando manifestammo al Csm alcune perplessità sulla trattazione dei fascicoli e sugli incarichi giudiziari. Era una sollecitazione. Non un atto di accusa. Una sollecitazione ad andare più a fondo...”. “Ma l'esposto riguardava Falcone?” ha insistito Repici. E il teste: “Riguardava l'attività dell'ufficio istruzione. Certo lui era la punta di diamante di quell'ufficio. L'esposto è pubblico, non è un segreto”. Può passare il tempo, ma è chiaro che quell'esposto, tanto allora quanto oggi, venne visto come un atto di delegittimazione nei confronti del magistrato.
Il processo è stato rinviato al prossimo 4 novembre dove, tra gli altri, verranno chiamati a testimoniare, salvo imprevisti, anche l'ex magistrato Giuseppe Ayala ed il giornalista Felice Cavallaro.

Foto di copertina © ACFB

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