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Vittorio Teresi: il Prefetto di Palermo stava indagando sull'esistenza "di intrecci inconfessabili tra mafia e politica"

Il delitto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, della giovane moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente di scorta Domenico Russo, "fu certamente un delitto preventivo per evitare che il generale riuscisse ad arrivare fino in fondo nell'accertamento di quello che era il suo convincimento", cioè "l'esistenza di intrecci inconfessabili tra mafia e politica in vicende che si potevano collegare ad altre vicende non siciliane". Il generale si stava "guardando intorno per capire chi fossero i referenti politici imprenditoriali sui quali" Cosa Nostra "stava puntando".
Sono state queste le parole di Vittorio Teresi, per anni procuratore aggiunto alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, durante il documentario dedicato al generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, realizzato dalla giornalista e inviata speciale del Tg1 Maria Grazia Mazzola andato in onda il 16 ottobre alle 23.30 su Rai 1.
Il suo ingresso nella Resistenza contro i nazisti tra Marche e Abruzzo durante la seconda guerra mondiale, l'amicizia con il partigiano marchigiano Spartaco Perini, il soggiorno a Martinsicuro, nascosto in una casa di via Roma da Giuditta Tommolini Corsi, la guerra contro le Brigate Rosse, e infine l'incarico a Palermo.
Su quel barbaro delitto consumato il 3 settembre 1982 molte domande restano ancora senza riposta: Chi ha ucciso il generale Carlo Alberto dalla Chiesa? Fu ucciso solo dalla mafia o qualcun altro voleva la sua morte? Chi trafugò i documenti dalla villa e dalla borsa?
Sono scomparse carte che erano custodite a Villa Paino nella residenza privata del Prefetto – ha affermato il magistrato Vittorio Teresi –. Si dice che alcuni soggetti si presentarono lì e si fecero dare la chiave per prelevare i documenti”.
Sono convinto che ci fossero degli atti che riguardavano le inchieste in corso" ha detto Nando Dalla Chiesa. “Io penso che ci siano state talpe – gli ha fatto eco la sorella Simona dalla Chiesache hanno segnalato la sua uscita dalla Prefettura e i suoi movimenti”.
Certo, sull'omicidio non si parte da zero, ma ancora oggi poco o nulla si sa su quei mandanti esterni che, probabilmente, chiesero l'eliminazione del Prefetto, appena giunto a Palermo, e che si assicurarono di far sparire i documenti dalla valigetta e dalla cassaforte dell'abitazione in cui lo stesso viveva con la moglie.
Totò Riina, intercettato nel 2013 dalla Dia in un colloquio durante l'ora d'aria con Alberto Lorusso, aveva raccontato gli attimi di quel tragico evento: "Appena è uscito lui con sua moglie, lo abbiamo seguito a distanza. Potevo farlo là, per essere più spettacolare, nell’albergo, però queste cose a me danno fastidio… L’indomani gli ho detto: 'Pino, Pino (si riferisce a Pino Greco detto 'Scarpuzzedda', uno dei più famigerati killer di Cosa Nostra) vedi di andare a cercare queste cose che … prepariamo armi'. A primo colpo, a primo colpo ci siamo andati noi altri… eravamo qualche sette, otto di quelli terribili, eravamo terribili. Nel frattempo lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato là dove stava, appena è uscito fa… ta… ta..., ta… ed è morto”.
Le sentenze hanno accertato le responsabilità di Cosa nostra con le condanne in via definitiva dei killer (Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci) e dei cosiddetti "mandanti interni" a Cosa nostra (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci).
Attorno all'uccisione dell'altissimo ufficiale dell'Arma sono presenti tutti quegli elementi che caratterizzano le grandi stragi di Stato con tanto di sparizione di documenti e misteri. Ed è stato sempre il capo dei capi, Totò Riina, a confermare che al generale furono sottratti i documenti.
“Loro - diceva il boss corleonese - quando fu di questo ... di dalla Chiesa ... gliel'hanno fatta, minchia, gliel'hanno aperta, gliel'hanno aperta la cassaforte ... tutte cose gli hanno preso”. E per loro intendeva ambienti esterni a Cosa Nostra. I servizi? Una possibilità tutt'altro che campata in aria.
Per comprendere i motivi per cui fu ucciso il generale, probabilmente, si deve guardare anche a quei famosi 100 giorni vissuti nel capoluogo siciliano. Poco prima di partire per la Sicilia disse al presidente del Consiglio Giulio Andreotti queste parole che offrono una possibile chiave di lettura: "Non avrò riguardo per quella parte dell'elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori".
Questo episodio è stato rievocato durante il documentario da Nando dalla Chiesa: nel "diario di mio padre è riportato l'incontro con Andreotti nella pagina del sei aprile del 1982". "Il solo fatto - ha detto Nando leggendo le pagine del diario del padre - di raccontarmi che intorno al fatto 'Sindona' un certo Inzerillo ucciso in America e giunto in Italia in una bara con un biglietto da cento dollari in bocca depone nel senso". E poi ancora, prosegue Nando parlando con Maria Grazia Mazzola, "quando io feci vedere questo passaggio del brano a Falcone, Falcone sbiancò e disse: 'Inzerillo? Ma è la stessa arma con cui hanno ucciso suo padre'". Inoltre gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in merito al delitto parlavano proprio di “convergenza di interessi tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”.
Ed anche i giudici, nella sentenza di condanna dei boss, mettono nero su bianco che “si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
Capacità e determinazione che possono essere riassunte nel discorso che fece il generale il primo maggio 1982 a Palermo: "Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti”. “Dobbiamo stare uniti e insieme, tutti".
Un appello, quest’ultimo, da non dimenticare.

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