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Ieri in via Isidoro Carini, nel nome del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente di scorta Domenico Russo, uccisi il 3 settembre del 1982 dalla violenza di Cosa nostra.
Memoria, sì, accompagnata da amarezza, rabbia e senso di sconforto per l'ipocrisia e l'indegnità istituzionale che si respira in certi eventi. 
Se escludiamo le voci dei figli, Nando, Simona e Rita, ci si accorge del "vuoto" che quarant'anni dopo il delitto è sempre più manifesto.  
Perché nessuno, a livello istituzionale, ha voluto ricordare i vuoti enormi nella ricostruzione della verità e della giustizia.
Per l’assassinio sono stati condannati all’ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Altrettanto vero è che, sempre all'ergastolo, sono stati condannati come mandanti i vertici di Cosa Nostra, ossia lo stesso Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Tuttavia non si conoscono i volti dei mandanti a volto coperto, probabilmente uomini di Stato. 
A livello istituzionale non si vuole ricordare che a seguito dell’agguato, come avvenuto tra l’altro dieci anni più tardi con la stragi di Capaci e di via d’Amelio, sono sparite carte e documenti di indagine di primaria importanza. 
Documenti furono trafugati dalla cassaforte dell'abitazione del generale e, come spesso proprio i figli hanno ricordato, allo stesso modo sono spariti documenti dalla borsa di dalla Chiesa. Qualche anno fa una lettera anonima segnalava che una cartella, dalla quale il generale non si separava, era stata portata in uno scantinato. E infatti fu ritrovata in quello del palazzo di Giustizia. Era vuota. E sempre lì è stato trovato anche un verbale nel quale si dice che sotto il sedile anteriore, dove era alla guida dalla Chiesa, c'erano diversi rapporti suoi a cui stava lavorando. Erano dunque questi i documenti che si stavano cercando? Tante domande restano aperte. Domande che pesano. Così come pesa il giudizio della storia che nessuno vuole ricordare. 
Perché, a livello istituzionale mai si ricordano le parole che dalla Chiesa disse al sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, poco prima di partire per Palermo (“Non avrò alcun riguardo per la parte inquinata della sua corrente”). 


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Lo stesso Andreotti che non si presentò ai funerali e che disse ad un giornalista, che gli aveva chiesto il perché non fosse sceso in Sicilia, rispose di preferire i battesimi. 
Proprio quel Giulio Andreotti che fu processato per il reato di associazione per delinquere. Un reato che fu dichiarato dalla Cassazione "estinto per prescrizione", ma "commesso fino alla primavera del 1980".
Per carità, è vero che ci sono "regole" per cui un Ministro, un rappresentante di Governo, un Primo Cittadino non può evitare di presenziare. 
Tuttavia la sensazione che ieri a Palermo, in via Isidoro Carini e non solo, a sfilare sia stata un'indegna ipocrisia resta forte.
Perché indegno è un sindaco che depone una corona senza aver preso fermamente le distanze da quei soggetti condannati per fatti di mafia come Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro (il primo per concorso esterno in associazione mafiosa, il secondo per favoreggiamento) che si sono spesi in prima persona per appoggiare la propria candidatura. 
Ipocrita diventa una ministra come Luciana Lamorgese nel momento in cui a tante belle parole non fa seguire fatti concreti. Laddove nei governi che l'hanno vista protagonista come Ministra dell’Interno la lotta alla mafia non è stata mai una vera priorità. 
Indegna è la presenza in prima fila del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè. Quel Giorgio Mulè, il quale non perde mai occasione di attaccare i magistrati antimafia che osano indagare sul Sistema criminale ed i rapporti con il Potere, che oggi rappresenta quell'Italia "anticostituzionale" che sulla Carta ripudia la guerra, ma che poi promuove con "aiuti militari" le cosiddette operazioni per il mantenimento della pace (peace keeping), di formazione della pace e prevenzione dei conflitti (peace making), di costruzione della pace (peace building), missioni di imposizione della pace (peace enforcement).
Ancora abbiamo in mente le sue immagini, con tanto di elmetto in testa, in Arabia Saudita (Paese che non brilla certo per la democrazia con le sue 81 esecuzioni di condanne a morte in sole 24 ore sabato) per presenziare all'esposizione dei prodotti dell'azienda Leonardo (carri armati, elicotteri, caccia bombardieri, droni spia, pistole Beretta e così via)
E' quella l'immagine dell'Italia che con diverse risoluzioni parlamentari ha deliberato il sostegno militare all'estero in ogni dove (dalla guerra del Golfo, alla Somalia. Dalla Bosnia al sostegno ai curdi, oggi il conflitto in Ucraina). 
Indegno ed ipocrita è uno Stato che accetta patti e trattative "improvvide"; che non trova il modo di porre come prioritaria la cattura di Matteo Messina Denaro; che detiene ancora oggi segreti di Stato sulle stragi. 
“Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”, recitava la frase anonima apparsa in via Isidoro Carini dopo l'eccidio. Quarant'anni dopo l'indegna ipocrisia ed i silenzi di chi è presente solo per le commemorazioni fanno risuonare nuovamente quelle parole. "Qui è morta la speranza degli italiani onesti". E il 25 settembre si torna a votare. Come nulla fosse. 

Foto © Deb Photo

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