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Oggi il ricordo del Generale a 40 anni dall’omicidio: “Operava quando l’associazione mafiosa non era reato”

È stato uno dei più grandi uomini di Stato della nostra Repubblica, che ha dato tanto per tirare fuori l’Italia dall’incubo terrorista e avrebbe voluto dedicarsi con altrettanta passione alla lotta alla mafia, ma è stato lasciato da solo”. A dirlo è il Consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita, in un’intervista rilasciata a La Repubblica riguardo all’omicidio del Generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, di cui oggi si ricorda il 40esimo anniversario. Il magistrato catanese ha ricordato lo spessore morale del Generale - sceso a Palermo per combattere la mafia e da questa assassinato solo cento giorni dopo il suo arrivo in città insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente scelto Domenico Russo - e anche il suo isolamento. “Le dinamiche che condussero prima all’isolamento istituzionale e poi alla sua morte sono chiare. Nei suoi diari ci sono scolpite verità per cui molti dovrebbero vergognarsi”, ha spiegato Ardita. “Dalla Chiesa aveva in mente una lotta al crimine tradizionale, fondata su informazioni, accessi documentali e testimonianze.

Senza strumenti conoscitivi sarebbe stata vana. Chiedeva dunque - ha raccontato - di potere indagare su movimenti bancari e sul rapporto mafia politica e di accentrare su di sé il coordinamento di tali informazioni. Si era rivolto al potere politico con cui aveva sempre dialogato quando lottava contro il terrorismo, ma trovò un muro”. Il potere politico del tempo era in mano alla Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti, che il prefetto dalla Chiesa definiva “la famiglia politica più inquinata”. “Per assurdo fino a quel momento godeva della massima fiducia del governo e dello stesso Andreotti”, ha rammentato il magistrato catanese. “Ma prima di assumere l’incarico di prefetto di Palermo, Dalla Chiesa gli disse in faccia che non avrebbe avuto riguardi per la Dc siciliana. E così fu. Gli dichiararono guerra perché aveva compreso che da quelle coperture politiche dipendeva la forza della mafia”. Nonostante ciò, dalla Chiesa ha fatto il proprio dovere fino a quel 3 settembre 1982 con i pochi mezzi legislativi e operativi di cui l’Arma era in possesso al tempo e che il Generale chiedeva allo Stato per combattere le organizzazioni mafiose in Sicilia. Strumenti che oggi, solo dopo la sua morte, e quella di decine di altri servitori dello Stato, il Paese possiede. Ma l’Italia, ha osservato Ardita, se è progredita sotto il punto di vista militare di contrasto è arretrata “in modo considerevole” sotto quello del “penalmente/socialmente rilevante”. “E questo oggi renderebbe inutile la volontà che lui aveva di contrastare la mafia, intesa come fenomeno di copertura che il potere dà alla criminalità”, è il commento del consigliere del Csm.

Dalla Chiesa operava quando l’associazione mafiosa non era reato. Era sufficiente mettere a fuoco certe coperture per porre in imbarazzo chi operava nelle istituzioni. Oggi il tema rimane di attualità ma neppure con le condanne si determinano effetti”. Ma non è tutto perduto.

Possono e devono sperare i cittadini e i tanti che svolgono funzioni pubbliche, perché ciò che fonda e muove lo Stato è il bene. A volte viene offeso da pochi furbi che - in tutte le istituzioni - nel disprezzo, non sempre celato, per i nostri morti, formano gruppi di potere. Sono realtà che sembrano onnipotenti - mentre isolano e mortificano i giusti - ma sono destinate ad imputridire e a ricevere la condanna della storia”, ha concluso.

Foto © Imagoeconomica

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