Delfino, Dell'Utri, Pittelli. Le relazioni pericolose emerse nei processi
In questi anni di processi che hanno riguardato il biennio delle stragi ci sono dei nomi che tornano spesso alla ribalta. Non parliamo solo dei collaboratori di giustizia, ma anche di figure eccellenti che in qualche maniera si incrociano in queste vicende, dove bianco e nero si mescolano dando vita ad una lunga scala di grigi, più o meno intensi.
La sentenza d'appello della trattativa Stato-mafia quel grigiume lo riassume in quell'azione ''improvvida'', effettuata dal Ros di Subranni, Mori e De Donno per il ''bene'' dello Stato.
Si legge in maniera chiara che l'intento dei carabinieri sarebbe stato quello di tessere "un'ibrida alleanza" con la cosiddetta "componente moderata e sempre più insofferente della linea dura imposta da Riina". Ovvero quella silenziosa e più dedita agli affari capeggiata da Bernardo Provenzano.
Nelle motivazioni i giudici parlano anche dell'arresto di Riina e vengono definite “sconcertanti" le omissioni che seguirono alla cattura del boss corleonese. In particolare la mancata perquisizione del covo viene definito come un atto "simbolico" per lanciare un "segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo". Anche se manca la prova "che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano".
Dunque la sentenza affronta l'argomento dell'arresto del “Capo dei capi”.
E si mette in dubbio la versione secondo cui si arrivò a Riina grazie alle rivelazioni del pentito Balduccio Di Maggio, boss di San Giuseppe Jato ed ex autista di Riina.
E nel trattare l'argomento c'è un nome che si incrocia in maniera concreta con le indagini della Procura di Reggio Calabria, quello del generale dei carabinieri Francesco Delfino.
L'ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli
Delfino e quei rapporti “borderline”
Nel corso del processo trattativa sono state raccolte le importanti testimonianze istituzionali dell'ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli, e dell'ex Presidente della Commissione parlamentare antimafia, Luciano Violante.
Nelle loro dichiarazioni emerge il dato per cui proprio Delfino si adoperò nelle indagini per la cattura di Riina. Addirittura l'ex Guardasigilli Martelli indica nell'estate del 1992, sicuramente dopo la strage di via d'Amelio, la datazione di un colloquio in cui il generale gli comunicò che entro dicembre, gli avrebbero fatto un bel regalo di Natale con la cattura di Riina ("Presidente, stia tranquillo, glielo prendiamo noi Totò Riina, glielo portiamo noi prima di Natale").
Violante, invece, ha riferito di un'interlocuzione che ebbe con l'ufficiale dell'Arma, che allora era al comando dei carabinieri in Piemonte, nel dicembre 1992: "Mi disse che durante una perquisizione in un'officina meccanica venne trovato un personaggio con una pistola e che questo disse che avrebbe potuto mettere i carabinieri sulle tracce di Riina, perché era stato il suo autista. Ed io gli dissi di chiamare Caselli, già nominato anche se non ancora insediato".
Va considerato che l'arresto di Di Maggio viene ufficialmente indicato nella data dell'8 gennaio 1993. Ma Violante nei processi ha dichiarato che l'incontro sarebbe stato precedente. Solo un difetto di memoria?
Nella sentenza Stato-mafia si parla del “dubbio che qualcosa non torni” rispetto ai fatti che avevano portato all’arresto di “Balduccio” Di Maggio a Borgomanero.
Ed i dubbi crescono anche sull'effettivo contributo che lo stesso ex boss può aver dato nella cattura di Riina.
La soffiata del Maresciallo Lombardo
Secondo il collegio presieduto da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania), un contributo importante sarebbe stato offerto, ad esempio, dal Maresciallo Antonino Lombardo (fu trovato morto, con colpi di pistola, alle 22.30 del 14 marzo 1995 all’interno di una Fiat Tipo di servizio parcheggiata nell’atrio della caserma Bonsignore. Venne considerato per anni come un suicidio).
Antonino Lombardo
Grazie alle sue fonti confidenziali, infatti, sarebbe stato lui a dare la “dritta” su Raffaele Ganci, capo della potente famiglia mafiosa della Noce, spiegando che era questi il soggetto che curava la latitanza del capomafia corleonese. “Una soffiata – è scritto nella sentenza – che si rivelerà fondamentale, oltre che esatta, per le successive indagini sfociate nella cattura del capo di Cosa nostra, e che poteva provenire solo da persone che facessero parte dell'entourage dello stesso Riina, o avessero contatti stretti con soggetti che ne facevano parte”. Si può anche sostenere che alla cattura del Capo dei capi si pervenne incrociando più fattori.
Certo è che nella sentenza Stato-mafia si ricordano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come Antonino Giuffrè e Tullio Cannella.
“Giuffrè - scrivono i giudici - ha confermato che nell’ambito di Cosa Nostra riteneva pesavano mezze parole, senza dirlo apertamente che Riina fosse stato 'venduto' che, pertanto, la perquisizione della sua casa fosse stata appositamente evitata per evitare di sequestrare documenti; che, dunque, la cattura di Rima fosse stata 'comprata' dallo Stato, o almeno quello spezzone di Stato che aveva una consuetudine di vicinanza a Cosa Nostra. E che quello fu punto di partenza del disegno di Provenzano, quando aveva deciso che fosse più utile la strategia della 'sommersione' iniziata anche con la 'missione' affidata a Vito Ciancimino; mentre sul finire del ‘93-inizio ‘94, fu tutta un’altra storia, con un nuovo 'discorso politico a livello nazionale'”.
Tullio Cannella, da parte sua, ai magistrati ha raccontato ciò che gli disse Leoluca Bagarella, ovvero che Riina sarebbe stato arrestato grazie ad una soffiata fatta ai Carabinieri da Provenzano, tramite Vito Ciancimino. E sempre Cannella ricordava che Ciancimino aveva rapporti con il generale Delfino.
Gli stessi giudici della Corte d'assise d'appello di Palermo delineano un'immagine del generale Delfino, piuttosto grigia. “Ora - scrivono - il generale Delfino (o ex generale, poiché ha ingloriosamente concluso la sua carriera subendo l'onta della degradazione a soldato semplice), calabrese e originario di Platì, con un passato nei ranghi del Sismi, non è una figura che, per i suoi trascorsi giudiziari e i legami intrattenuti a dire di alcuni collaboratori di giustizia con esponenti di spicco della 'Ndrangheta calabrese (Cuzzola ha riferito dei suoi rapporti con i fratelli Papalia e lo accusa tra l'altro di avere avvisato prima Domenico e poi, su richiesta di questi, anche il fratello Antonio, che Saverio Morabito aveva deciso di collaborare con i magistrati; e Fiume Antonino, che ha dichiarato di essere stato testimone oculare di un incontro del Delfino con Rocco Papalia, nell'ufficio di questi) possa rassicurare più di tanto o fugare qualsiasi sospetto sul vero ruolo che potrebbe avere avuto nell'individuazione e nell'arresto del Di Maggio, intromettendosi in un'indagine in corso e della quale, teoricamente , non aveva alcun titolo e motivi di occuparsi (non essendo per il suo grado e per le funzioni e il Comando di cui era investito, un ufficiale di polizia giudiziaria)”. Quindi ricordano che “secondo quanto emerso in questo processo, all'indomani delle stragi in Continente, l'allora capitano Giraudo, che all'epoca si occupava delle indagini sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia (delitto per il quale Delfino, accusato di avervi concorso insieme a Delfio Zorzi, Mario Tramonte, Carlo Maria Maggi e altri, è stato processato e assolto con sentenza definitiva) fu convocato dal Generale Subranni nel suo ufficio e informato che il Ros stava lavorando ad una pista che portava al Delfino come possibile mandante e organizzatore a livello superiore degli attentati mafiosi commessi nel territorio nazionale, additandolo come ufficiale dell'Arma particolarmente pericoloso”.
L'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino © Archivio Letizia Battaglia
Nella sentenza vengono ravvisate curiose coincidenze temporali, tuttavia “che vi sia un link con la collaborazione parallelamente intrapresa da Vito Ciancimino resta una congettura confortata da scarni appigli processuali, come le dichiarazioni di Tullio Cannella che sostiene di avere appreso da Bagarella che Provenzano aveva rapporti con Ciancimino e quest'ultimo a sua volta con il generale Delfino, che quindi poteva essere raggiunto da Provenzano attraverso Ciancimino (Cannella non è stato poi in grado di precisare quale indicazione avrebbe ricavato dalle sue asserite conversazioni in carcere con lo stesso Ciancimino che possano confermare l'assunto di Bagarella, al di là di fumosi riferimenti alla comunque appartenenza - di Ciancimino e di Delfino - ad ambienti massonici).
Va anche rammentata a onore del vero, una terza coincidenza temporale. Ai primi di gennaio, e verosimilmente pochi giorni prima del fatidico 8 gennaio 1993 (data dell'arresto di Di Maggio ndr) – ricorda la Corte che “Vito Ciancimino fa sapere attraverso il suo nuovo difensore, l'avvocato Ghiron che ha urgenza di avere un colloquio riservato con lo stesso Mori”, così come il Comandante del Ros riferì nelle sue spontanee dichiarazioni e nel memoriale dell'agosto 1997.
Dunque qual è stato, se vi è stato, il ruolo di Francesco Delfino in quella stagione di stragi e trattative?
Quel punto di contatto con la 'Ndrangheta
Certo è che il generale Delfino (deceduto nel 2014) è una di quelle figure che si è portato con sé diversi segreti di questo Paese: dal caso Calvi (sarà l’unico agente italiano chiamato a Londra nel giugno dell'82, quando il corpo del banchiere Roberto Calvi viene ritrovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri, ndr) alla strage di piazza della Loggia, passando proprio per la cattura di Totò Riina e la stagione dei sequestri di 'Ndrangheta in Lombardia.
Collaboratori di giustizia come Saverio Morabito o Giacomo Ubaldo Lauro (per citare i principali) lo hanno definito come uno dei personaggi chiave di quella strategia della tensione che ha visto un'unione di interessi tra destra eversiva, massoneria, ‘Ndrangheta e pezzi di Stato destinata - almeno nelle intenzioni - a far saltare il banco con un golpe nell’Italia degli anni Settanta, quindi a stravolgere l’assetto del Paese nei decenni successivi.
Tra i contatti emersi con uomini di 'Ndrangheta vi sarebbe stato quello con Antonio Nirta, uomo di peso delle 'ndrine al Nord. Secondo il pentito Morabito, è proprio Nirta, per conto del generale Delfino “a essere presente in via Fani al momento del rapimento di Aldo Moro”. Un rapimento di cui, stando a quanto rivelato al pm Antonio Marini da Alessio Casimirri, brigatista rosso diventato confidente di Delfino, il generale sarebbe stato a conoscenza quando il piano era ancora in preparazione, ma che avrebbe comunicato solo al Sismi, il servizio segreto militare (ovvero la struttura dove nei mesi successivi proprio Delfino andrà a lavorare, ndr).
Roberto Calvi © Imagoeconomica
Di recente il nome di Delfino è riemerso nella deposizione controversa di Annunziatino Romeo, che descriveva i rapporti del fratello del generale, Totò Delfino, che sarebbe persino stato un uomo di vertice all'interno dell'organizzazione criminale.
Ma anche nell'informativa della Dia di Reggio Calabria, depositata agli atti del processo d'appello 'Ndrangheta stragista ed esposta nella testimonianza di Michelangelo Di Stefano il nome di Delfino è stato fatto rispetto ad una vicenda che potrebbe riguardare il suicidio del boss di Altofonte, Nino Gioé, il quale parlò nella sua ultima lettera del boss di 'Ndrangheta Domenico Papalia affermando che quanto detto sul suo conto non erano altro che millanterie.
Al tempo, infatti, vi furono delle anticipazioni dell'Adnkronos su un frammento di quella lettera che fu poi pubblicato sulla rivista Panorama nell'agosto del 1993. "Un articolo a firma di Liliana Milella dal titolo 'Cara mafia mi suicidio' - ha ricordato il teste Di Stefano - L'attività di approfondimento effettuata a riscontro ha rilevato che il giorno successivo alla morte di Gioé, così come riporta l'agenda del generale Mori, vi è un incontro con la giornalista Milella. Ed è stato anche rilevato che vi furono apporti confidenziali da parte della direzione della testata giornalistica di Panorama con il generale Francesco Delfino. La stessa Milella avrebbe riferito, parlando del caso, che si trattava di una soffiata istituzionale che il giornale aveva ricevuto. Delfino è colui che si trovò a dirigere la struttura dell'Arma dei Carabinieri vicino ad Omegna (uno dei luoghi dove Giuseppe Graviano ha vissuto la propria latitanza, ndr), dove si consegnò il boss Balduccio Di Maggio. Quest'ultimo fu trasferito a Palermo. E poi venne arrestato Riina”.
E' evidente, dunque, come certi fatti siano intrecciati nel corso della storia. Una storia che i processi solo in parte possono riuscire a spiegare.
Pittelli e Dell'Utri
Nelle pieghe della sentenza d'appello trattativa Stato-mafia c'è anche un altro fatto che in qualche maniera intreccia la storia con la Calabria: ed è la vicenda di un'intercettazione (agli atti anche del processo calabrese) del 20 luglio 2018 che vede come protagonista l'ex senatore di Forza Italia, Giancarlo Pittelli mentre commentava confidenzialmente con alcuni interlocutori un articolo pubblicato da Il Fatto Quotidiano sulla “Trattativa Stato-mafia”: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul Fatto Quotidiano della trattativa stato Mafia. Berlusconi è fottuto... Berlusconi è fottuto”.
Nell'articolo si riportavano le motivazioni del processo di primo grado sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. E i giudici individuavano il primo governo Berlusconi come parte lesa del ricatto allo Stato. E Pittelli aggiungeva: "Dell'Utri la prima persona che contattò per Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro non se ci... se ragioniamo, tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l'altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli e l'altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente... io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro... pazzesco... l'altro giorno ci pensavo dico trentasette anni".
Giancarlo Pittelli, ex senatore di Forza Italia © Imagoeconomica
Nel processo di Palermo Dell'Utri (già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) è stato assolto “per non aver commesso il fatto” in quanto "non si ha prova" che questi "nonostante le sue ramificate implicazioni nell'antefatto (inteso un accordo preelettorale, ndr)", "abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano”.
Va detto che la Corte d'assise d'appello, presieduta da Angelino Pellino, ridimensiona il significato di quell'intercettazione di Pittelli. Infatti, si legge nelle motivazioni della sentenza che “malgrado Pittelli si sia espresso in termini trancianti sul coinvolgimento di Berlusconi in queste trame di Dell'Utri con la 'Ndrangheta calabrese (...) il coinvolgimento di Berlusconi veniva in questo senso legato ai pericolosi e spregiudicati rapporti di Dell'Utri con l'organizzazione criminale calabrese noti al Pittelli ma non certamente nel senso che Berlusconi fosse stato destinatario della minaccia in qualità di leader politico e poi di Presidente del Governo”. Quindi per i giudici “il commento atteneva alla compromissione che sarebbe potuta derivare all'immagine pubblica e politica di Silvio Berlusconi per i contatti preelettorali intrecciatevi da Dell'Utri con gli ambienti criminali calabresi (oltre che con quelli siciliani oggetto dell'editoriale che veniva commentato)”.
Tuttavia c'è un dato che non può passare affatto inosservato.
“Da questo capitolo probatorio - scrivono sempre i giudici d'appello - si ottiene (e non è poco) l'ennesima conferma dell'antefatto, riferito appunto alle interlocuzioni di Dell'Utri con le organizzazioni criminali, non solo quella siciliana ma anche calabrese, connesse alla nascita di Forza Italia”. Tutto questo “senza che da questi pur inquietanti retroscena, evincibili dalla intercettazione, possa desumersi l'effettivo grado di consapevolezza di Silvio Berlusconi; tanto meno nella prospettiva dell'intimidazione stragista che aleggiava già in quella fase, sia pure come minaccia preventiva e doppiamente condizionata, per volere in particolare di Bagarella e Brusca nel caso in cui sempre non fossero stati seguiti nel futuro determinati interventi riformatori in tema di legislazione antimafia”.
Dunque la prova di quei legami tra Marcello Dell'Utri, Cosa nostra e la 'Ndrangheta vengono ritenuti provati.
E ciò rafforza anche l'ipotesi che anche l'organizzazione calabrese avesse condiviso il nuovo orizzonte politico.
In primo grado il procuratore aggiunto reggino Giuseppe Lombardo nell'evidenziare l'importanza dell'intercettazione di Pittelli aveva ricordato anche un altro fatto avvenuto il 24 febbraio 1994 nel Tribunale di Palmi dove era in corso il processo nei confronti di Giuseppe Piromalli, capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato "Facciazza") che verrà arrestato anni dopo accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest.
Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica
L'anziano boss prese la parola per esprimere la propria "dichiarazione di voto" ("Voteremo Berlusconi! Voteremo Berlusconi!").
Per chi votarono i clan calabresi lo hanno poi riferito diversi pentiti e tutti hanno spiegato che la scelta fu proprio portata sul simbolo di Forza Italia.
Una scelta condivisa anche dai “siciliani”.
Piromalli intervenne anche in prima persona schierandosi apertamente contro il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, militando nel partito Radicale.
E con Cosa nostra aveva rapporti stretti, così come detto da Calogero Ganci nel processo 'Ndrangheta stragista (“I Piromalli erano un punto di riferimento per Cosa nostra del gruppo nostro di Salvatore Riina”) a dimostrazione che vi era una totale condivisione di strategia che andava oltre i semplici affari economici.
Ed è così che quelle parole di Pittelli sui contatti tra Dell'Utri, i Piromalli ed i Mancuso, assumono un altro valore. Sempre sul fronte dei Piromalli va ricordato che Giuseppe Piromalli junior, detto Facciazza, fu accusato di tentata estorsione e danneggiamento ai danni di alcuni gestori degli impianti di telecomunicazione della Fininvest in Calabria.
Non a caso nel processo d'appello sono stati depositati ulteriori atti rispetto alle minacce subite dall'imprenditore Angelo Sorrenti. Ci sono rapporti economici, ma non solo, che si sviluppano all'interno dei sistemi criminali.
Analizzando l'intero quadro che emerge dai processi appare sempre più chiaro che le mani che hanno disegnato quella stagione di stragi e delitti non erano per nulla esterne. I vertici dei clan entrano in contatto con altri poteri dando forma a quella “alta mafia”, sempre più nitida e reale, che nulla ha a che fare con coppole e lupare.
Dalla rilettura dei fatti che si sono sviluppati attorno alle stragi, dalle dichiarazioni rabbiose che lo stesso Giuseppe Graviano ha rilasciato in aula a Reggio Calabria con le sue dichiarazioni spontanee, trasferite anche in una memoria depositata agli atti, c'è una traccia.
Anche se è chiaro che le parole del boss di Brancaccio, che non è un collaboratore di giustizia, non possono avere valore.
Graviano ha accusato Berlusconi di aver ricevuto per anni finanziamenti occulti dalla sua e da altre famiglie siciliane. Soldi "serviti per l’edilizia, le televisioni, per tutto" e mai restituiti. Denaro di cui - ha affermato il boss di Brancaccio in aula - ci sarebbe prova in una scrittura privata in mano alla sua famiglia, che sembra far eco a quel "quadernetto che poteva provocare un terremoto" che il collaboratore di giustizia Toni Calvaruso dice di aver ricevuto da Bagarella e di aver consegnato a Graviano. Da parte sua Berlusconi, tramite i suoi legali, ha fermamente negato ogni tipo di rapporto. Ma la ricerca della verità parte anche da questi elementi. Alla ricerca di quei denari che Cosa nostra e 'Ndrangheta hanno investito al nord.
(Continua)
Rielaborazione grafica di copertina by Paolo Bassani
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