Nelle motivazioni della sentenza d'appello del processo trattativa gli spunti per capire l'importanza del lavoro della Procura di Reggio Calabria
Sono tanti gli spunti che si possono scorgere nelle tremila pagine delle motivazioni della sentenza d'appello sulla trattativa Stato-mafia, scritta dal Presidente della Corte d'assise d'appello di Palermo Angelo Pellino e dal giudice a latere Vittorio Anania. Abbiamo già evidenziato gli argomenti che riguardano le "improvvide" iniziative del Ros, nonostante l'assoluzione degli ufficiali Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, o ancora le prove acquisite sull'ex senatore Marcello Dell'Utri, anche lui assolto nel processo, ma al contempo vengono indicati importanti spunti che hanno sfiorato il dibattimento, ma che si stanno approfondendo in altre sedi a cominciare dal processo 'Ndrangheta stragista che è attualmente in corso, in appello, a Reggio Calabria e che in primo grado ha visto le importanti condanne all'ergastolo di Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e Rocco Santo Filippone, boss di Melicucco.
Non a caso un capitolo specifico della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale del processo di Palermo ha riguardato proprio il coinvolgimento di esponenti di spicco della 'Ndrangheta nella strategia stragista, con l'audizione di alcuni importanti collaboratori calabresi.
La Corte d'asside d'appello, nella sentenza, dà atto ad una serie di temi "meritevoli di approfondimento" su cui, ovviamente, "non ha potuto dedicarvi nulla di più che qualche fugace cenno".
Processo 'Ndrangheta stragista, 10 luglio 2020. Un momento della requisitoria del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo © Emanuele Di Stefano
Tra questi vi sono i contatti ed i legami tra le organizzazioni criminali mafiose e esponenti dei servizi segreti ed i rapporti con personaggi al contempo intranei alla ‘Ndrangheta e vicini a membri di organizzazioni gravitanti nell’area dell’eversione neo fascista (in riferimento al racconto dei collaboratori di giustizia nel processo 'Ndrangheta stragista).
E poi ancora il tema della Falange Armata, sigla con cui sono stati rivendicati numerosissimi episodi delittuosi (dall’omicidio Lima al gesto dimostrativo dell’obice di mortaio fatto trovare al Giardino dei Boboli a Firenze; e poi l’attentato di via Fauro a Roma, la strage di via dei Georgofili a Firenze, i successivi attentati di Roma e Milano nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993), quindi "le indagini sui c.d. mandanti occulti delle stragi, sia quelle siciliane del '92 che le stragi in continente dell’anno successivo. E la vicenda della mancata strage allo Stadio Olimpico di Roma, prevista per il 23 gennaio 1994, che, nei propositi vagheggiati da Giuseppe Graviano, avrebbe dovuto coronare una strategia destabilizzante volta a ridurre lo Stato in ginocchio e cambiare per sempre il volto e le sorti del Paese".
E poi ancora fa riferimento ai "buchi neri" su alcuni casi specifici a cominciare dal "suicidio" di Antonino Gioé (il primo degli esecutori della strage di Capaci ad essere arrestato in quel “covo” di via Ughetti dove si nascondeva, pur non essendo attinto da ordini di custodia cautelare, insieme al suo sodale, Gioacchino La Barbera, arrestato qualche giorno dopo nel nord Italia: e in quello stesso stabile erano ubicati appartamenti in uso ai servizi), trovato cadavere, e appeso per le stringhe delle scarpe da ginnastica a una sbarra della cella romana di Rebibbia dove era detenuto.
E non è certo un caso che molti di questi elementi siano stati approfonditi proprio nell'ambito delle indagini del processo calabrese che vede il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo rappresentare l'accusa anche in appello.
© Emanuele Di Stefano
La convergenza di interessi e l'informativa Dia del 4 marzo 1994
Già nella sentenza di Primo grado del processo Stato-mafia veniva messa in evidenza la cosiddetta “convergenza interessi” tra le organizzazioni criminali. E si parlava in maniera chiara delle azioni congiunte tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta “ad iniziare dall’omicidio Scopelliti” e “il delinearsi di una comune strategia delle due organizzazioni mafiose anche con altre organizzazioni altrettanto pericolose (la “Camorra” napoletana) facendo riferimento ad un documento della Dia del 4 marzo 1994 a firma di Pippo Micalizio.
In quel documento veniva ritenuta come "certa" la matrice mafiosa degli attentati di Roma, Firenze e Milano, ma al contempo tra gli investigatori si era andata rafforzando "la sensazione che il nuovo indirizzo stragista inaugurato dalla mafia perseguisse in realtà obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di Cosa nostra”.
Di fatto, dunque, si prospettava come quell'azione potesse essere "funzionale non solo alle finalità 'terroristiche' della mafia, ma anche agli scopi di entità criminali diverse che avessero operato in sintonia con quest'ultima nel perseguimento di obiettivi comuni coinvolgenti, gruppi criminali che fossero in grado di elaborare i sofisticati progetti necessari al conseguimento di finalità di più ampia portata”. “Tali eventi - si leggeva nella nota - non sono apparsi, quindi, come consueti attentati di mafia, seppure gravissimi, bensì come atti di vera politica mafiosa, la cui riconducibilità alla mafia, intesa come organizzazione criminale chiamata “Cosa nostra doveva procedere in modo graduale, attraverso una serie di stadi intermedi che rappresentavano altrettanti momenti di convergenza operativa ideativa”.
L'ex estremista nero Paolo Bellini
In questa chiave interpretativa, dunque, venivano ravvisate delle analogie con quel modus operandi di fatti eversivi propri degli anni Settanta e si sottolineavano le "connivenze tra ambienti mafiosi, ambienti della destra eversiva e dell'alta finanza collegata alla massoneria", nonché le intese tra la 'Ndrangheta calabrese e "Cosa nostra" siciliana.
Sempre in quel documento ci si soffermava sulla figura del boss calabrese Domenico Papalia e le circostanze che lo legavano a Antonino Gioé, che lo cita "senza apparente motivo" nella lettera scritta da quest'ultimo prima di suicidarsi così come compare il nome dell'ex estremista nero Paolo Bellini, condannato di recente a Bologna per l'attentato del 2 agosto 1980 alla Stazione Centrale.
Quest'ultimo, addirittura, nella missiva di Gioè viene definito come un infiltrato (“Dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato; mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo. L’ultima volta che ho incontrato quest’uomo è stato presso la cava Buttitta solo per pura fatalità me lo sono fatto portare in quel posto dove ero andato per cercare di convincere il sig. Gaetano Buttitta a comprare del lubrificante da me…”).
Diversamente su Papalia il Gioé si prodigava a dichiararne l'innocenza rispetto ad un omicidio che lo stesso, secondo le accuse, aveva commesso.
Proprio grazie alle attività della Procura di Reggio Calabria si sono ricavati degli elementi che potrebbero riaprire le indagini sulla morte del boss di Altofonte. Elementi che dimostrano come Gioé volesse effettivamente iniziare un percorso di collaborazione con la giustizia.
L'educatore carcerario Umberto Mormile
La questione Falange armata e il delitto “Mormile”
Ma il nome di Papalia non compare solo nella lettera del boss suicida (o forse si dovrebbe dire “suicidato”). Sono diversi, infatti, i collaboratori di giustizia sentiti sia nel corso del processo Stato-mafia che nel corso del processo calabrese che lo tirano in ballo per altri fatti.
Tra questi vi è l'uccisione dell'educatore carcerario Umberto Mormile, avvenuto nell'aprile 1990.
In via definitiva per quell'omicidio sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Sul delitto si è scavato per anni ma, nonostante la celebrazione di tre processi, le reali motivazioni che hanno portato alla morte dell’educatore carcerario non sono mai state veramente chiarite (a tal proposito presto potrebbe aprirsi un nuovo processo, ndr).
Un omicidio che diventa importante nel momento in cui fu il primo ad essere rivendicato dalla “Falange Armata”.
Una sigla che nel corso degli anni fu utilizzata da "diverse componenti". E' un dato certo che fu utilizzata per una lunga serie di rivendicazioni di stragi e delitti eccellenti. Dagli omicidi del politico Dc Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, alle bombe di Capaci e via d'Amelio, per poi passare alle stragi "continentali" di Roma, Firenze e Milano nel 1993. Tra questi anche l'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo. La rivendicazione, in una missiva del 4 febbraio 1994, scritta con un normografo, recita: “Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull’autostrada, è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine”.
Salvo Lima © Imagoeconomica
Secondo la Corte d'assise d'appello di Palermo anche se l'utilizzo di tale sigla “non è riconducile (solo) ad un preciso gruppo di soggetti (si è visto sopra il sostanziale fallimento del processo penale nel quale si era ritenuto di avere individuato uno dei responsabili)” resta forte “il sospetto che il fenomeno della 'Falange Armata' abbia potuto avere origine nell'ambito di servizi di sicurezza dello Stato (in tal senso si sono espressi pressoché unicamente tutti quegli esponenti delle Istituzioni chiamati a testimoniare in questo processo)”.
Sottolineano sempre i giudici di secondo grado che appare “improbabile che un mafioso "rozzo" come Riina abbia potuto autonomamente pensare di utilizzare la sigla della 'Falange Armata' per rivendicare gli attentati di Cosa Nostra”. E si ricorda come “tra le fila di Cosa Nostra, c’erano anche altri soggetti meno 'rozzi' e adusi anche a rapporti con esponenti degli apparati di sicurezza che avrebbero potuti instillare, o quanto meno, in qualche modo provocare, quell'idea di rivendicare gli attentati con la sigla della 'Falange Armata'.”
Tuttavia “si tratta però, come si vede, di mere ipotesi che, per quanto altamente plausibili, non possono supportare, in termini di prova processuale, alcuna conclusione sull'effettivo concorso di esponenti degli apparati di sicurezza dello Stato nei fatti di minaccia che sono oggetto del presente processo”.
(continua)
Foto di copertina © Imagoeconomica
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