Al Lido dei Ciclopi la presentazione del libro del consigliere del Csm, “Al di sopra della legge: come la mafia comanda dal carcere”
“In questi anni il mondo carcerario è stato aggredito da una manovra bifronte a tenaglia. Da un lato si è lavorato sull'ergastolo ostativo, facendo in modo che i mafiosi potessero uscire dal carcere. Dall'altro si è lavorato per dare più spazio anche ai detenuti pericolosi e mafiosi con il sistema delle celle aperte, senza distinzioni, praticamente consentendo anche ai boss di circolare liberamente nelle sezioni. Così facendo lo Stato lascia pericolosi spazi che vengono occupati dalle gerarchie criminali”. E' questo uno degli argomenti che il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita ha affrontato nel corso della presentazione del libro “Al di sopra della legge: come la mafia comanda dal carcere” (edito da Solferino) presso il Lido dei Ciclopi di Aci Trezza. Accompagnato nel dialogo da Luigi Pulvirenti, il magistrato ha raccontato quello che fu il suo primo impatto in un mondo che lo ha visto diventare direttore generale del dipartimento detenuti presso il Dap dal 2002 al 2011.
Un ruolo delicatissimo all'interno del sistema carcerario e nella lotta alla mafia, così come dimostrano anche i numeri dei magistrati (sette su dodici) che in qualche maniera hanno perso la propria vita o subito minacce nel corso del tempo. Minacce che hanno riguardato anche lo stesso Ardita, nel 2004 quando fu inviato un ordigno esplosivo indirizzato alla sua persona.
Senza troppi giri di parole Ardita ha evidenziato come il mondo delle carceri sia “molto complesso e totalmente sconosciuto ai più”. “Io - ha ricordato - volevo impegnarmi immediatamente nel trattamento rieducativo per i detenuti. Per analizzare il tempo a disposizione feci eseguire un'indagine statistica. Nel 2005 emerse che in carcere erano entrate 90mila persone e che al contempo ne erano uscite 85mila. Quindi molti sono soggetti in transito ad eccezione dei mafiosi raggiunti dall'aggravante dell'articolo sette che rappresentano una popolazione carceraria più stabile. Era anche emerso che un detenuto per rapina restava in carcere per una media bassissima di appena 174 giorni. Questo significa che non c'era un tempo adeguato per la rieducazione”.
Ovviamente un sistema a parte è quello che riguarda il regime 41 bis, uno strumento che ha messo in un angolo Cosa nostra ma che al contempo ha portato morte e stragi.
Il lavoro di Giovanni Falcone
Nel corso della serata è stata ricordata anche la figura di Giovanni Falcone. “Un uomo di capacità incredibili non solo sul piano investigativo, ma anche nella comprensione dei fenomeni sul profilo socio culturale - ha affermato il consigliere togato del Csm - La mafia non è solo un'organizzazione militare, ma è un costume, un modo di intendere il rapporto tra pubblico e privato e il rapporto tra gli uomini. La mafia è un modo di essere che vive in modo osmotico con la società. La società bene, anche istituzionale, purtroppo respira la medesima aria di un territorio nel quale è presente la mafia. E in molti casi finisce a replicare questi comportamenti. Le sue intuizioni scomode e le sue prese di posizioni forti comportarono il suo isolamento all'interno del Palazzo di giustizia e questo è un fatto su cui non possiamo mettere una pietra tombale. Lui ebbe pochissimi amici e moltissimi invidiosi tra i magistrati, ebbe moltissimi nemici tra magistrati, politici e altri uomini delle realtà istituzionali. Ci fu anche chi disse che all'Addaura si mise la bomba da solo. Molti lo chiamarono traditore per quella sua scelta di accettare il ruolo all'Ufficio Affari Penali con Martelli. Martelli era socialista e quello che si diceva era che i socialisti erano nemici dei magistrati. C'è un pezzo di storia, però, che si dimentica. Ovvero che Martelli fece un passo indietro. Quando si fece il 41 bis, alla fine a volerlo era il solo Martelli. Non lo volevano al Dap, alla Polizia di Stato. Non lo voleva la Politica. E anche il Parlamento non lo avrebbe convertito in legge se non vi fosse stata la strage che uccise Borsellino”.
Eppure oggi questo regime, così come l'ergastolo ostativo, viene messo in discussione da sentenze Cedu e della Corte Costituzionale.
“Nel nostro Paese l'ergastolo è ostativo solo per i reati di mafia - ha detto Ardita per sgomberare il campo da dubbi - Per gli altri casi la parola ergastolo è nel codice come espressione, ma non lo è nella realtà dei fatti. Quando Falcone vara la norma è per i boss. Oggi però questo strumento viene sgretolato”. Parlando del sistema delle celle aperte il magistrato ha ricordato di essere stato il fautore, ma per quei detenuti che avevano compiuto reati non gravi. “Il problema è che è stato aperto a tutti, anche a quei soggetti pericolosi permettendo così a mafie e gerarchie criminali di occupare certi spazi. Ma così tutto diventa incontrollabile ed i deboli resteranno sempre colpiti, perché a decidere anche le cose più semplici, come i turni per andare in bagno, saranno sempre i boss”.
Il problema è anche di sicurezza per gli stessi detenuti. “Prima che si aprissero le celle - ha spiegato il magistrato - sono aumentati i casi di autolesionismo, ma anche i reati interni alle carceri. C'è poi anche un altro problema che riguarda sempre il rapporto con la giustizia. In un mondo come le carceri, dove tutti sanno tutto, in queste condizioni non ci sarà nessuno che potrà decidersi a parlare con un magistrato. E le mafie, è noto, faranno di tutto per ostacolare un possibile percorso con la giustizia”.
Nel corso della serata sono stati ricordati importanti episodi come gli scontri nelle carceri durante il periodo del Covid, o ancora l'importanza di un intervento dello Stato sul piano sociale ed umano. “L'approccio deve avere una dimensione umana - ha detto Ardita - Il messaggio che deve passare è che noi abbiamo uno strumento, quello del diritto, che deve portare un beneficio, un balsamo per i conflitti sociali e non all'odio. Le persone, qualunque esse siano, quando vedono umanità colgono la differenza. E il nostro lavoro di operatori di giustizia non può farci essere ciechi su quelle che sono le realtà dei quartieri dove c'è chi vive con un piede dal lato della legge e con l'altro dal lato della criminalità”. “Questo impegno - ha concluso - vale per tutti gli operatori pubblici, per noi che ci occupiamo delle carceri, dei processi, della cosa pubblica, per gli assistenti sociali e per gli amministratori”. Solo così, del resto, si possono spezzare quei vincoli ed abbattere quei miti che vedono nel capomafia silente e feroce il mito per eccellenza.
Foto © ACFB
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