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Un’operazione magistrale degna di una medaglia al valore se non fosse per tutte quelle strane ambiguità che ancora oggi non trovano un’adeguata risposta. Tra tutte, quella che riguarda il  “papello”. Una serie di richieste che il capo dei capi avrebbe stilato di suo pugno chiedendo allo Stato benefici carcerari, la modifica della legge sui collaboratori di giustizia, la revisione dei processi, la modifica della legge sul sequestro dei beni. Tutto ciò in cambio della fine delle stragi. 
Di quel “papello” però gli ufficiali del Ros avevano sempre negato l’esistenza. Solo i collaboratori di giustizia Brusca, Cancemi e Giuffrè, ex membro della cupola di Cosa Nostra, ne avevano parlato. A confermare finalmente le loro dichiarazioni proprio Massimo Ciancimino: «Ero presente quando a mio padre venne consegnato il “papello”», aveva spiegato lo scorso inverno ai magistrati. «A casa nostra venne un signore distinto (il medico Antonino Cinà, ndr) che diede a mio padre una busta con un foglio di carta in cui Cosa Nostra aveva scritto le sue richieste. Mio padre diede poi l’elenco al capitano De Donno e al colonnello Mori». Poi di questa storia non se ne seppe più niente.
Don Vito che aveva sempre osteggiato il gruppo violento di Cosa Nostra, continuava a mantenere un rapporto preferenziale con Provenzano. Ma «alla fine - ha aggiunto Ciancimino - è morto nella convinzione di essere stato scavalcato e che qualcuno avesse preso in mano la trattativa, mantenendo certi accordi».
Un fatto è certo. Catturato Riina nessuno ha potuto appurare se copia di quelle richieste fosse custodita in via Bernini, nel covo che ospitava l’ultima residenza della famiglia Riina e che gli uomini di Mori incomprensibilmente decisero di non perquisire, se non dopo 18 giorni. Un ritardo inaccettabile che diede ai fiancheggiatori del capo di Cosa Nostra il tempo di ripulire la casa da ogni oggetto. Un episodio questo che aveva portato all’apertura di un altro processo sempre a carico di Mori e, questa volta, anche del capitano Ultimo concluso con l’assoluzione di entrambi senza nessuna spiegazione plausibile. Dove sono quelle carte? Secondo il pentito Giuffrè «ce le ha Matteo Messina Denaro», “l’ultimo dei corleonesi” rimasto nel cuore di Riina. E anche l’ultimo erede di quell’ala violenta che aspetta di appianare una questione in sospeso con il figlio di Don Vito, colpevole, secondo quanto emerso dai “pizzini” di Provenzano, proprio di non avergli pagato una percentuale sui lavori di metanizzazione eseguiti ad Alcamo.
Posto ciò, Massimo Ciancimino vive libero con la sua famiglia senza scorta, lontano da Palermo.  
In realtà, ha detto, «ho sempre collaborato sin dal ’92 sapendo dei rischi ai quali andavo incontro». «L’aspetto sgradevole di tutta questa situazione è che mentre da un versante i segnali sapevo non sarebbero tardati, da parte delle istituzioni è arrivato il solito segnale di silenzio totale e di abbandono». In effetti, dopo che la Procura di Palermo si era espressa possibilista all’affiancamento di una qualche forma di vigilanza, il Coordinamento per l’ordine e la sicurezza dal canto suo non ha mai risposto ufficialmente. Un silenzio tacitamente accolto nell’indifferenza più totale, sapendo che sul figlio del più famoso sindaco di Palermo pende una condanna a morte di Riina e Bagarella (che aveva chiesto a Brusca di eliminarlo) ed in ultimo di Matteo Messina Denaro che più volte ha chiesto la sua testa per quel vecchio regolamento di conti.
«Ma – ha ribadito Ciancimino in una recente intervista a Cult (mensile glamour di Palermo) – l’art. 3 della Costituzione è bello, ma rimane solo scritto. Sono stato condannato per aver utilizzato i soldi di mio padre e, ironia della sorte, la mia condanna è stata superiore alla sua per aver saccheggiato Palermo, quasi il doppio degli anni. Anche i miei fratelli erano indagati ma loro non sono stati condannati: hanno dichiarato di non essere a conoscenza della provenienza del denaro di nostro padre. Per loro sto pagando lo scotto di quello che ho fatto nel ’92. Ma in realtà mio padre non era uno che faceva niente per niente. Aveva capito che quello era il momento buono per far fuori Riina, con il quale non era mai andato molto d’accordo e riteneva che la strada che aveva intrapreso avrebbe portato alla distruzione».
Una fine che gli eventi hanno riservato all’ala più oltranzista dei corleonesi e che ha permesso a Provenzano di riprendere le fila dell’organizzazione per ricostruire il suo impero attraverso la famosa strategia della sommersione. Una manovra degna di un grande stratega che ha trasformato una mafia violenta in mafia imprenditrice, elevandola ai piani alti della società.
Resta forte il sospetto sulle alleanze che in questi anni lo hanno coperto. Ed è qui che i magistrati hanno il compito di chiarire l’inerzia di Mori e Obinu per il mancato blitz che nel ’95 avrebbe potuto consegnare Provenzano alle patrie galere. Un’occasione mancata. L’ennesima, visto che “Zu Binu” ha beneficiato di 43 anni di clandestinità, sfuggendo in questi anni a manette e microspie. 
In realtà il “Ragioniere” di Corleone ha evitato la galera perché si è sempre avvalso delle confidenze dei suoi informatori. Lo dimostrano le ultime inchieste. In particolare quella sulle “talpe” palermitane che ha fotografato una rete di spionaggio investigativo senza precedenti di cui i boss più vicini al capo di Cosa Nostra si servivano per anticipare le mosse della Procura, grazie alla compiacenza di sottufficiali all’interno dell’Arma. Si tratta di sporadiche collusioni? Oppure rappresentano la punta di quell’iceberg che legittima ciò che legittimo non è? Comprendere questo osmotico rapporto tra ambienti delle istituzioni e Cosa Nostra è fondamentale per capire quanto il confine tra le due parti sfumi sistematicamente sul piano dei grandi giochi di potere.  
In questo grande quadro ancora tutto da comporre è necessario che le Istituzioni rivolgano lo sguardo da questa parte, mostrando il coraggio per uscire da questo strumentale strabismo collettivo dove il vero e il falso si confondono vicendevolmente, assumendo sovente il medesimo significato. Per fare ciò occorre fermarsi, «fare un passo indietro e cercare di capire perché si è arrivati a tanto». Una cosa che l’erede più giovane di Don Vito intende fare mantenendo fede all’impegno di collaborare con i magistrati che lo stanno interrogando e che deve spingere lo Stato ad assicurargli la giusta protezione.

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