di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella - 15 settembre 2008
Un’altra occasione da non perdere nella ricerca della verità su quella stagione di sangue che nel ‘92 portò alla morte dei giudici Falcone e Borsellino e che sancì una svolta epocale della nostra Repubblica.
Per questo le istituzioni non possono alzare le spalle in segno di abbandono di fronte a chi intende chiarire quegli episodi, anche se a parlare è Massimo Ciancimino, figlio di “Don Vito”, il noto sindaco del “sacco di Palermo”, condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi per riciclaggio, intestazione fittizia di beni ed estorsione. Un personaggio che, al di là della sua vicenda processuale, è uno dei testimoni diretti della cosiddetta trattativa avviata nel ’92 tra Cosa Nostra e lo Stato. Abbiamo raggiunto telefonicamente Massimo Ciancimino per conoscere il suo pensiero su questa nuova fase giudiziaria che lo vedrà presto deporre, come imputato di reato connesso, al processo appena aperto a Palermo sulla mancata cattura di Provenzano in cui il generale dei Carabinieri ed ex capo del Sisde Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra.
In quel ’92 «Mori e De Donno mi avevano garantito che il mio nome non sarebbe mai uscito», ci ha rivelato Ciancimino, «invece dopo qualche tempo sono venuto a sapere che in un verbale del Riesame si faceva riferimento alla richiesta di Riina di uccidermi per quello che avevo fatto».
«Mio padre mi aveva avvertito dei rischi che potevo correre e so bene che la mafia non dimentica». Infatti con la fuoriuscita della notizia del suo coinvolgimento in quella negoziazione (che alla fine portò all’arresto dello stesso Riina) la sua vita è stata esposta direttamente alle ritorsioni di Cosa Nostra.
«Tutto è iniziato quando si è cominciato a parlare del “papello” – ha continuato - attraverso anche le inchieste seguite da Repubblica». Nel corso di questi anni «sono arrivati proiettili, macchine incendiate e dopo l’intervista a Panorama (era la prima volta che qualcuno mi faceva delle domande) i segnali si sono fatti più presenti».
L’ultimo, in ordine di tempo, risale al luglio scorso quando Ciancimino era stato oggetto di uno strano pedinamento. Tornando a casa dall’aeroporto di Palermo aveva notato due uomini su una moto che non lo avevano mai perso di vista, che si alternavano con altri due personaggi su uno scooter. Ciancimino aveva subito ricordato che quella moto azzurra l’aveva già notata sotto casa almeno un’altra volta. E in effetti proprio non poteva sfuggirgli quel tipo che fumava col casco ancora indossato.
Il timore che potesse essere un messaggio di Cosa Nostra, aveva spinto l’erede dell’ex sindaco di Palermo a esporre una denuncia che fin da subito aveva dato i suoi risultati: una delle due moto risultava rubata. Un elemento che aveva indotto l’ufficio della Procura della Repubblica di Palermo a chiedere al Coordinamento per l’ordine e la sicurezza una forma di tutela per il loro teste. Risposta che, tranne per due dispacci totalmente contrastanti usciti sulla stampa, non è mai ufficialmente arrivata.
Un silenzio che lo espone alla vendetta dei “picciotti” al servizio dei capimafia, proprio adesso che le sue dichiarazioni potrebbero dar nuova luce a uno dei più profondi “buchi neri” della nostra “democrazia” e che riguarda un capitolo ancora tutto da scrivere .
I magistrati di Palermo infatti vogliono contestualizzare la testimonianza di Ciancimino collegandola alle cause che hanno portato alla mancata cattura di Provenzano nel ‘95 da parte del Ros. Un dato che potrebbe far emergere un accordo segreto, sfociato poi nell’apertura di un ombrello protettivo che ha permesso al capo di Cosa Nostra di vivere indisturbato questi anni di latitanza tra Corleone, Palermo e Bagheria.
Il Pubblico Ministero, rappresentato a processo da Nino Di Matteo, Antonio Ingroia e Domenico Gozzo, intende dimostrare come nel corso degli anni ‘95 – ‘96 «nonostante la già riscontrata attendibilità delle indicazioni confidenziali già rese da Ilardo (un mafioso che era diventato confidente del Ros), Mori e Obinu hanno in un primo momento omesso di organizzare un servizio idoneo alla cattura di Provenzano». L’episodio, a detta dei pm, sarà quindi inquadrato in un «contesto causale più ampio, che trae la propria origine già a partire dal periodo a cavallo tra la Strage di Capaci e quella di via d’Amelio, nei rapporti intrattenuti da Mori con Vito Ciancimino» all’epoca in contatto diretto con Provenzano e testa di ponte della “trattativa”.
Il dibattito ancora aperto su quella scellerata negoziazione riguarda quei 57 giorni che separarono le bombe di Capaci e via d’Amelio.
Subito dopo la morte di Giovanni Falcone era stato il capitano De Donno (subordinato di Mori) a contattare Massimo Ciancimino affinché questi convincesse il padre ad accettare un incontro. «L’ho fatto – ci ha detto al telefono – perché lo ritenevo giusto. Erano otto anni che giravo per le carceri andando a trovare mio padre. Mi son detto che se si poteva fare qualcosa per alleggerire il fardello del nostro cognome era giusto farlo. Eravamo giovani e oltre al cognome io e i miei fratelli non avevamo colpe. Era un’occasione per dare una svolta definitiva a quella carneficina. Nessuna persona umana si può identificare in un simile massacro. Non poteva essere nemmeno la risposta a una mancanza dello Stato». Per questo Don Vito alla fine accettò l’incarico che i dirigenti del Ros gli avevano proposto: fare da tramite per arrivare a Riina.
Cosa Nostra a quel punto aprì il dialogo.
La richiesta dell’Arma (troppo pretenziosa in quel momento per la posizione di assoluta debolezza dello Stato) sarebbe stata una resa immediata dei vertici mafiosi. Una pretesa che se in un primo momento aveva scandalizzato anche Vito Ciancimino (che temeva per la sua vita) poi lo aveva convinto a indicare su una cartina della città il possibile nascondiglio del latitante.
Da quel momento in poi ufficialmente la “trattativa” si interrompeva perché Don Vito veniva arrestato, ma i giudici del Borsellino ter sospetteranno che siano stati proprio i suggerimenti dell’ex sindaco di Palermo a portare il 15 gennaio 1993 alla cattura di Riina.
Un’operazione magistrale degna di una medaglia al valore se non fosse per tutte quelle strane ambiguità che ancora oggi non trovano un’adeguata risposta. Tra tutte, quella che riguarda il “papello”. Una serie di richieste che il capo dei capi avrebbe stilato di suo pugno chiedendo allo Stato benefici carcerari, la modifica della legge sui collaboratori di giustizia, la revisione dei processi, la modifica della legge sul sequestro dei beni. Tutto ciò in cambio della fine delle stragi.
Di quel “papello” però gli ufficiali del Ros avevano sempre negato l’esistenza. Solo i collaboratori di giustizia Brusca, Cancemi e Giuffrè, ex membro della cupola di Cosa Nostra, ne avevano parlato. A confermare finalmente le loro dichiarazioni proprio Massimo Ciancimino: «Ero presente quando a mio padre venne consegnato il “papello”», aveva spiegato lo scorso inverno ai magistrati. «A casa nostra venne un signore distinto (il medico Antonino Cinà, ndr) che diede a mio padre una busta con un foglio di carta in cui Cosa Nostra aveva scritto le sue richieste. Mio padre diede poi l’elenco al capitano De Donno e al colonnello Mori». Poi di questa storia non se ne seppe più niente.
Don Vito che aveva sempre osteggiato il gruppo violento di Cosa Nostra, continuava a mantenere un rapporto preferenziale con Provenzano. Ma «alla fine - ha aggiunto Ciancimino - è morto nella convinzione di essere stato scavalcato e che qualcuno avesse preso in mano la trattativa, mantenendo certi accordi».
Un fatto è certo. Catturato Riina nessuno ha potuto appurare se copia di quelle richieste fosse custodita in via Bernini, nel covo che ospitava l’ultima residenza della famiglia Riina e che gli uomini di Mori incomprensibilmente decisero di non perquisire, se non dopo 18 giorni. Un ritardo inaccettabile che diede ai fiancheggiatori del capo di Cosa Nostra il tempo di ripulire la casa da ogni oggetto. Un episodio questo che aveva portato all’apertura di un altro processo sempre a carico di Mori e, questa volta, anche del capitano Ultimo concluso con l’assoluzione di entrambi senza nessuna spiegazione plausibile. Dove sono quelle carte? Secondo il pentito Giuffrè «ce le ha Matteo Messina Denaro», “l’ultimo dei corleonesi” rimasto nel cuore di Riina. E anche l’ultimo erede di quell’ala violenta che aspetta di appianare una questione in sospeso con il figlio di Don Vito, colpevole, secondo quanto emerso dai “pizzini” di Provenzano, proprio di non avergli pagato una percentuale sui lavori di metanizzazione eseguiti ad Alcamo.
Posto ciò, Massimo Ciancimino vive libero con la sua famiglia senza scorta, lontano da Palermo.
In realtà, ha detto, «ho sempre collaborato sin dal ’92 sapendo dei rischi ai quali andavo incontro». «L’aspetto sgradevole di tutta questa situazione è che mentre da un versante i segnali sapevo non sarebbero tardati, da parte delle istituzioni è arrivato il solito segnale di silenzio totale e di abbandono». In effetti, dopo che la Procura di Palermo si era espressa possibilista all’affiancamento di una qualche forma di vigilanza, il Coordinamento per l’ordine e la sicurezza dal canto suo non ha mai risposto ufficialmente. Un silenzio tacitamente accolto nell’indifferenza più totale, sapendo che sul figlio del più famoso sindaco di Palermo pende una condanna a morte di Riina e Bagarella (che aveva chiesto a Brusca di eliminarlo) ed in ultimo di Matteo Messina Denaro che più volte ha chiesto la sua testa per quel vecchio regolamento di conti.
«Ma – ha ribadito Ciancimino in una recente intervista a Cult (mensile glamour di Palermo) – l’art. 3 della Costituzione è bello, ma rimane solo scritto. Sono stato condannato per aver utilizzato i soldi di mio padre e, ironia della sorte, la mia condanna è stata superiore alla sua per aver saccheggiato Palermo, quasi il doppio degli anni. Anche i miei fratelli erano indagati ma loro non sono stati condannati: hanno dichiarato di non essere a conoscenza della provenienza del denaro di nostro padre. Per loro sto pagando lo scotto di quello che ho fatto nel ’92. Ma in realtà mio padre non era uno che faceva niente per niente. Aveva capito che quello era il momento buono per far fuori Riina, con il quale non era mai andato molto d’accordo e riteneva che la strada che aveva intrapreso avrebbe portato alla distruzione».
Una fine che gli eventi hanno riservato all’ala più oltranzista dei corleonesi e che ha permesso a Provenzano di riprendere le fila dell’organizzazione per ricostruire il suo impero attraverso la famosa strategia della sommersione. Una manovra degna di un grande stratega che ha trasformato una mafia violenta in mafia imprenditrice, elevandola ai piani alti della società.
Resta forte il sospetto sulle alleanze che in questi anni lo hanno coperto. Ed è qui che i magistrati hanno il compito di chiarire l’inerzia di Mori e Obinu per il mancato blitz che nel ’95 avrebbe potuto consegnare Provenzano alle patrie galere. Un’occasione mancata. L’ennesima, visto che “Zu Binu” ha beneficiato di 43 anni di clandestinità, sfuggendo in questi anni a manette e microspie.
In realtà il “Ragioniere” di Corleone ha evitato la galera perché si è sempre avvalso delle confidenze dei suoi informatori. Lo dimostrano le ultime inchieste. In particolare quella sulle “talpe” palermitane che ha fotografato una rete di spionaggio investigativo senza precedenti di cui i boss più vicini al capo di Cosa Nostra si servivano per anticipare le mosse della Procura, grazie alla compiacenza di sottufficiali all’interno dell’Arma. Si tratta di sporadiche collusioni? Oppure rappresentano la punta di quell’iceberg che legittima ciò che legittimo non è? Comprendere questo osmotico rapporto tra ambienti delle istituzioni e Cosa Nostra è fondamentale per capire quanto il confine tra le due parti sfumi sistematicamente sul piano dei grandi giochi di potere.
In questo grande quadro ancora tutto da comporre è necessario che le Istituzioni rivolgano lo sguardo da questa parte, mostrando il coraggio per uscire da questo strumentale strabismo collettivo dove il vero e il falso si confondono vicendevolmente, assumendo sovente il medesimo significato. Per fare ciò occorre fermarsi, «fare un passo indietro e cercare di capire perché si è arrivati a tanto». Una cosa che l’erede più giovane di Don Vito intende fare mantenendo fede all’impegno di collaborare con i magistrati che lo stanno interrogando e che deve spingere lo Stato ad assicurargli la giusta protezione.