Il Fatto Quotidiano mette in evidenza la testimonianza di Marco Minicucci al processo Mori-Ultimo

A Di Maggio fu mostrata la foto del boss su idea del brigadiere

A ventinove anni di distanza dall'arresto del Capo dei Capi, Totò Riina, nuove ombre tornano a formarsi su ciò che avvenne in quel concitato gennaio 1993.
Da quando la trasmissione Report ha ripescato le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero sulla strage di Capaci, raccogliendo poi le dichiarazioni del brigadiere Walter Giustini, è stato un susseguirsi di informazioni che, messe in fila, possono disegnare un nuovo scenario su quella terribile stagione.
Perché Giustini ha affermato di aver saputo nei primi mesi del 1992, quindi ben prima delle stragi, dal collaboratore di giustizia Lo Cicero che Salvatore Biondino era l’autista del Capo dei Capi. E di aver anche fatto delle relazioni sul punto.
La Procura di Caltanissetta, guidata da Salvatore De Luca, fece un comunicato per smentire che Lo Cicero abbia mai dato un'indicazione simile.
Così, nella puntata successiva di Report, Giustini ha aggiunto di aver fornito lui le indicazioni per individuare il Biondino dopo che il pentito Di Maggio indicò l’autista di Riina come Biondolillo Salvatore.
Ed è qui che il “mistero” si infittisce.
Oggi Il Fatto Quotidiano ha aggiunto un ulteriore tassello non solo incontrando nuovamente il brigadiere ma anche riascoltando vecchi processi, come quello sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, in cui un testimone eccellente sembra avvalorare il racconto di Giustini smentendo anche carte ufficiali che incredibilmente non hanno tenuto alcun conto del dato.
Ma procediamo con ordine.
Racconta il collega Marco Lillo che Giustini, oggi in pensione, si è recato al Fatto dopo aver letto un articolo del giornale in cui, accanto alle proprie dichiarazioni sull'identificazione dell'autista di Riina, Salvatore Biondino, veniva inserito il contenuto delle motivazioni della sentenza sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini in cui venivano assolti il generale Mario Mori ed il Capitano Ultimo.
Dice Giustini al giornale: “Sono stato io nel gennaio 1993 a dire che l’autista di Riina si chiamava Biondino e non Biondolillo, proprio perché Lo Cicero me lo aveva indicato come autista di Riina mesi prima. Io ho dato al mio comandante Marco Minicucci la fotografia di Biondino. Minicucci la portò a Di Maggio e quello disse: ‘È iddu!’”. E tutto questo, a detta del militare, sarebbe avvenuto l'11 gennaio 1993.
I giudici hanno messo nero su bianco: “In data 12 gennaio 1993, il Di Maggio, nel corso di uno dei sopralluoghi effettuati con il mar.llo Rosario Merenda del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ne indicò l’abitazione in via San Lorenzo, sicché si pensò di mostrargli la fotografia di un certo Salvatore Biondino, residente in quella stessa zona e già all’attenzione delle forze dell’ordine: questa intuizione investigativa consentì l’identificazione del Biondolillo proprio nel suddetto Biondino (v. deposizione di Marco Minicucci all’ud. Del 25.5.05)”.
Giustini smentisce in maniera netta confermando di aver fornito lui a Minicucci, attuale sottocapo di Stato maggiore dell’Arma, la scheda con l'indirizzo di Biondino che è in via Tranchina e non in via San Lorenzo. Non solo. A dimostrazione di aver avuto un qualche ruolo sull'arresto del Capo dei Capi corleonese il brigadiere ha anche mostrato un “apprezzamento” del 23 giugno 1993, firmato dal comandante regionale dell’Arma Giorgio Cancellieri per “l’attività investigativa che ha portato alla cattura del famigerato latitante Salvatore Riina”. Ed ha anche dichiarato di aver avuto un premio da 1 milione e mezzo di lire.
Il dato incredibile di tutta questa vicenda è che, andando ad ascoltare su Radio Radicale, come indicato nella sentenza, la deposizione del 25 maggio 2005 di Minicucci, si evince che ad aver ragione è proprio il brigadiere Giustini. “Di Maggio parlò di questo Biondolillo - afferma in aula l'ufficiale - che era vicino a Riina e addirittura gli poteva fare da autista. Noi facemmo degli accertamenti e non individuammo nessuno: Di Maggio non riconobbe nessuno dei Biondolillo che gli mostrammo con foto. Venne in mente a personale da me dipendente di mostrare una fotografia di tale Biondino Salvatore che veniva fuori dalle dichiarazioni del collaboratore Lo Cicero. Lo mostrammo a Di Maggio e lui riconobbe Biondino come il suo Biondolillo”.
Rispondendo alle domande aggiunse poi che ad avere l'intuizione “fu il brigadiere Giustini che disse vogliamo provare…”. Non solo. Minicucci dice anche che secondo lui Di Maggio non fornì l’indirizzo di Biondino.
Mettendo insieme questo racconto e quello di Giustini è chiaro che alcuni passaggi vanno rivisti.
Nel frattempo sorgono degli inquietanti interrogativi.
Se il 12 gennaio vi fu un sopralluogo con Di Maggio davanti a casa di Biondino ed il 15 gennaio fu il giorno dell'arresto di Riina, cosa fu fatto sul piano investigativo nei tre giorni che separano i due eventi? Furono fatti pedinamenti di Biondino? Fu messo sotto intercettazione quel soggetto che, in quel momento preciso, era stato indicato come l'autista del Capo dei capi? Perché non fu messa sotto osservazione l'abitazione di quest'ultimo?
E' un fatto raccontato dai collaboratori di giustizia che il 15 gennaio mattina proprio a casa di Biondino, in via Tranchina, si doveva tenere un summit assieme a tutta la Cupola. Ovviamente alla notizia dell'arresto di Riina tutti si dileguarono e quando i carabinieri si recarono nella casa di Biondino non c'era più nessuno.
Ancora una volta tornano le domande. Perché non fu dato peso a quelle indicazioni che riguardavano l'autista di Riina? Biondino godeva di qualche protezione alta?
Sulla sua figura misteriosa si sono pronunciati pochi collaboratori di giustizia. Salvatore Cancemi, capo del mandamento di Porta Nuova, lo aveva descritto come un personaggio importantissimo che aveva contatti a tutti i livelli, comprese le istituzioni e i servizi segreti. Un uomo di strategia, e nello stesso tempo feroce assassino. Un altro collaboratore di giustizia, Francesco Onorato, ha raccontato l'episodio che lo vide protagonista nella condanna a morte del giovane poliziotto Emanuele Piazza.
Quest'ultimo collaborava in maniera riservata con i servizi segreti alla ricerca dei latitanti. Forse un po’ ingenuo o forse solo amante del rischio Emanuele era riuscito a stringere una buona relazione di conoscenza con Onorato; condividevano infatti la passione per la boxe e spesso si fermavano a fare due chiacchiere. In una di queste occasioni passava per caso da quelle parti il Biondino che li vide. Più tardi fece chiamare Onorato e gli disse: "Ma che fai? Ti abbracci con gli sbirri?". Come facesse Biondino a conoscere il lavoro super riservato di Emanuele resta un mistero.
Misteri come quelli che ancora oggi ci sono attorno alle stragi, che sembrano non avere mai fine.

Foto © Shirto

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