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porcasi dipinto 30anni capaci intIn Italia non si scherza né coi santi e né coi fanti. Figuriamoci se invece che scherzare, si vuol fare sul serio

30 anni. Ben trent’anni sono trascorsi da quella nefanda giornata, 23 maggio 1992, una data indelebile della nostra storia, nazionale e civile.
Un uomo, un siciliano, Giovanni Falcone, che faceva storcere i nasi con il suo modo di fare le cose: onesto e doveroso. Professionale.
Procuratore e giudice, amava la Giustizia, quella meditata, razionale, non quella arbitraria che i “galantuomini” del paese imponevano e minacciosamente facevano rispettare.

Giovanni Falcone si muoveva tra la bellezza e la violenza della terra sicula con passo azzardato, cercando di studiare i fenomeni antropologici e umani che avevano portato gli uomini dell’isola a creare un sistema di vita corrotto e sporco, chiamato Mafia. A Giovanni interessava capire. Capire prima ancora di denunciare. Capire per combattere.

“Niente è la morte in confronto alla vergogna”, si potrebbe utilizzare questa espressione tratta da Leonardo Sciascia, stravolgendone il senso, riadattandola alla vita del giudice Falcone per comprendere il carattere dell’uomo: la vergogna di dover mettere a tacere la sua rumorosa coscienza; la vergogna di arrendersi al silenzio omertoso di chi vede “ma non sa”, la vergogna di vivere una vita in quiete e in tranquillità, ma non libera, prima ancora della vergogna di non aver compiuto il proprio dovere, essere magistrato.

È proprio quella coscienza, la sua mano, che svela nel quadro dell’artista Gaetano Porcasi “Work in progress” la vicenda della sua morte. L’inquietante sguardo del Mangiafuoco, responsabile dell’esplosione della carica di tritolo e Semtex, posizionata sull’autostrada A29, nel punto prossimo allo svincolo tra Palermo e Capaci, domina la crudezza della scena, nel suo scenario di morte, col sangue che copioso imbratta le autovetture, le mani dei colpevoli e gli animi degli omertosi.

Parimenti agli occhi del Mangiafuoco, che sembra un Leviatano con quei capelli gelatinati di annodate cravatte eleganti, - forma e corpo unico degli interessi di “menti raffinatissime che tentano di orientare queste azioni della mafia”, così come lo stesso Falcone aveva detto - signoreggiano sulla terra di Sicilia gli occhi della Mafia in quel 23 maggio 1992. Erano le ore 17:56.

Basta guardare il quadro: se ne sentono ancora i rumori delle angoscianti riprese in diretta, che dall’alto mostrano le conseguenze dell’esplosione, la morte viva nell’immobilismo dei corpi e nel fumo che esala dai mezzi. La confusione, l’agitazione, l’ansia, la voce metallica del giornalista, frettolosa, sconcertata e disperata, assordano i nostri ricordi e la nostra memoria.

Quegli occhi: Falcone li aveva affrontati a testa alta, sforzando il timore della morte per vincere la vergogna della coscienza e dell’etica. La testimonianza della lotta di Falcone, come quella di tanti altri martiri, a cominciare dall’amico Borsellino, ucciso 57 giorni dopo insieme a 5 guardie di scorta, è più che mai viva e aleggia nelle coscienze umane, risvegliandone la rabbia e la rivalsa, quasi un fuoco alimentato dalle sue stesse fiamme di giustizia.

“Da quel momento ci sono state molte denunce, da quel momento il palermitano ha deciso di ribellarsi. Anche i ragazzi che non c’erano a quei tempi, ringraziando loro, oggi hanno la possibilità di dire NO alla Mafia, di scendere in piazza”, dice Tina Montinaro, moglie di Antonio Montinaro (altro agente che in quell’occasione perse la vita), in un’intervista rilasciata a “La Repubblica”.

Ecco, dunque, che la voce dell’impegno civile vuole farsi sentire. “Work in progress” è l’ultimo lavoro dell’artista siciliano, che va ad aggiungersi alla mostra “Informare con l’arte”. Si tratta di un lavoro di 18 quadri antimafia (ora 19), esposta al Centro Jambo1 di Trentola-Ducenta (CE), curato dai ragazzi della rivista Magazine Informare. 19 opere raffiguranti le stragi e le vittime che la mafia ha mietuto nel corso degli ultimi decenni: da Peppino Impastato a Piersanti Mattarella, da Boris Giuliano a Rocco Chinnici, per concludere con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ma a distanza di 30 anni, cosa ci resta di quel triste evento? A rispondere è Tommaso Morlando, fondatore e presidente della rivista Magazine Informare: “Ricordiamo tutti le stragi di Capaci e di via d’Amelio; ricordiamo tutti i morti. Cosa ci resta di quel 1992? Ci resta il ricordo e la testimonianza, ma io noto come ormai su Palermo sia calata una nebbia. Questa nebbia viene da lontano, si è spostata: è una nebbia politica. Stiamo assistendo a un ritorno della vecchia politica collusa e dei colletti unti.

Quando il sacrificio estremo di servitori dello Stato viene oscurato dalle azioni di questi uomini che continuano a intrattenere un rapporto tra mafia e politica; quando persone sfacciatamente visibili continuano ad essere protagonisti attivi della politica, tutto diventa inaccettabile. Per me questo significa tornare indietro. Pertanto, bisogna rialzare la testa, perché se non ci si ribella ci si abitua.

C’è una puzza estrema di compromesso malvagio che sta distruggendo quel profumo di libertà che viene da Palermo. Occorre ricordare: ecco perché noi di Informare, insieme all’artista Gaetano Porcasi, abbiamo creato questa mostra di testimonianza al Jambo1. Siamo riusciti in terra di Camorra a portare una testimonianza forte di legalità. La nostra testimonianza si rivolge direttamente ai giovani. La mostra nasce per rinnovare il ricordo e non dimenticare. Come diceva Paolo Borsellino ‘Solo quando i giovani si ribelleranno alla mafia e la isoleranno, essa verrà sconfitta’ ed è questa la nostra mission che parte da lontano, da venti anni di lotta. Noi dobbiamo continuare a testimoniare la legalità perché il silenzio uccide”.

Caro Giovanni, caro Paolo, è a voi che intendo in ultima istanza rivolgermi. È a quella coscienza che tramite la vostra testimonianza, il vostro martirio e la vostra morte ha trovato il coraggio di fuoriuscire, o si è semplicemente risvegliata; è a quella coscienza che ha animato le nuove generazioni e lo farà sempre che intendo richiamarmi.
Voi avete forgiato per noi un esempio, un modo di agire, un’idea di lottare. Noi quell’esempio lo abbiamo colto, ma non so quanto poi siamo stati davvero in grado di riproporlo.

Forse dovremmo chiedervi scusa, perché a distanza di 30 anni ancora troppi dubbi adombrano e confondono le circostanze della vostra morte. Credo che non siamo stati abbastanza efficaci, perché, forse, non abbiamo dimostrato di avere il vostro spessore morale, il vostro vigore, e spesso, “momenti di ricordo” come questo ci sono sfuggiti di mano e anziché essere possibilità di nutrimento per gli animi combattivi, sono diventati mere celebrazioni: corone di allori da posare su monumenti muti mentre, tutt’intorno, col sole calante, le ombre s’estendevano in favore della notte.

Ed era in quella notte che poi qualcuno ha pesino osato plastificare maschere identiche ai vostri volti, con tanto di baffi sapete. E le ha indossate, gironzolando con spavalderia e con la certezza di mostrare un viso pulito, mentre mostruosi ghigni tradivano la loro natura.

Di chi potremo fidarci? Con chi potremo lottare, sicuri, sapendo di non essere traditi, sapendo di non tradirvi? È questo l’ostacolo maggiore oggi, fare in modo di non rendervi semplicemente dei miti ma, educando, bisognerebbe porre le basi affinché diventiate stimoli per azioni concrete. E forse solo così non bisognerà attendere altri 30 anni prima di veder compiuto un passo in avanti nel cammino verso la civiltà.

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