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Le considerazioni del consigliere togato del Csm intervistato da Purgatori e Manconi per "Oggi" e "La Repubblica"

"Il modo migliore con cui le istituzioni possono ricordare Falcone e i nostri morti è quello di creare le condizioni perché i magistrati proseguano in modo efficace la ricerca della verità sulle entità esterne alla mafia che verosimilmente parteciparono all'ideazione, organizzazione ed esecuzione dell'attentato. Guai se l'anniversario trascorrerà solo nella retorica e nel ricordo. Questo sarebbe tradire l'eredità di Falcone". E' netta la considerazione del consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, intervistato nei giorni scorsi da Andrea Purgatori per il settimanale "Oggi", rispetto alle imminenti commemorazioni a trent'anni dalla strage di Capaci.  
Rispondendo alle domande del noto conduttore della trasmissione Atlantide ha evidenziato il rischio che anche questo anniversario "sconfini nella retorica" o che il tempo delle stragi si consideri come "un capitolo chiuso". 
"L'emozione è importantissima e necessaria - ha aggiunto il magistrato - Ma se accompagnata da un'analisi aderente a ciò che è emerso fino adesso. Perché il rischio è che prevalga la considerazione, rassicurante per tutti, che Capaci sia stata solo la vendetta contro il giudice che Cosa nostra identificava come il nemico numero uno". 

I moventi di Capaci
L'eliminazione di Giovanni Falcone, secondo Di Matteo, da una parte aveva un "movente preventivo" dall'altro uno con "finalità terroristica". 
Molte cose sono emerse nei processi: "Primo. Parto dalla elementare considerazione che quello di Capaci è l'unico attentato contro un convoglio di auto blindate in movimento. Secondo. Sarebbe stato facile eliminare Falcone con la classica modalità mafiosa a Roma, dove già si trovava Matteo Messina Denaro con il suo gruppo di fuoco. Terzo. Invece l'operazione viene trasformata improvvisamente da un contrordine di Riina, che li fa tornare a Palermo, in un attentato militare molto più difficile ma spettacolare per terrorizzare il Paese. Ecco, anche solo per queste tre considerazioni la possibile presenza di entità esterne non è una ipotesi fondata su un ragionamento teorico. E dovremmo cercare di ricostruirla dall'inizio, partendo proprio da questo improvviso cambio di programma". 
"Cosa nostra - ha ricordato nell'intervista - non poteva accettare che Falcone, trasferito a Roma per collaborare con l'allora ministro Claudio Martelli, che gli aveva dato carta bianca nel contrasto alla criminalità mafiosa, diventasse ancora più pericoloso. Ci sono uomini fidati di Totò Riina che riportano un'opinione del boss: "Questo sta facendo più danni a Roma di quanti ne ha fatti a Palermo". 
Del resto non va commesso l'errore di dimenticare che "Capaci fu la prima di otto stragi, da via d'Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino fino al fallito attentato allo stadio Olimpico dove dovevano morire cento carabinieri. E' un momento in cui Cosa nostra scende in campo per rinegoziare i propri rapporti politici e con i poteri istituzionali, per cambiare i suoi referenti tradizionali che in parte avevano fallito e in parte avevano tradito. Fare la guerra per poi potere fare la pace, questo diceva Totò Riina. La strategia stragista doveva fare paura non solo ai governi ma alla gente". 


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Il giornalista, Andrea Purgatori


La trattativa
Nell'intervista il consigliere togato ha anche parlato dell'esperienza vissuta nel processo trattativa Stato-mafia: "Al di là dell'esito dei processi - al momento non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza che in appello ha assolto gli imputati appartenenti alle istituzioni dello Stato e condannato i mafiosi - mi ha lasciato un senso di serenità e la consapevolezza che, insieme ai miei colleghi, siamo riusciti a far venire fuori una serie di fatti storici che, non importa se siano valutati come penalmente rilevanti o no, non possono essere messi in dubbio". E poi ancora ha aggiunto: "C'è una sentenza definitiva per la strage di via dei Georgofili a Firenze che indica come tra Capaci e via d'Amelio una parte delle istituzioni si rivolgesse a Vito Ciancimino per far chiedere a Riina cosa volesse per cessare le stragi. Quindi l'esistenza del dialogo a distanza con Riina è incontrovertibile. Poi un'altra cosa che mi ha insegnato questa esperienza è che col progredire dell'indagine molti soggetti istituzionali, che per anni non avevano riferito particolari importanti, si sono fatti avanti". Un dato di fatto che porta alla considerazione che "quando si indaga su fatti lontani e lo si fa con determinazione, anche verità apparentemente dimenticate possono venire fuori. Vale per l'indagine sulla trattativa come per quella sulla strage alla stazione di Bologna".
Anche ieri, nella "conversazione" pubblicata su La Repubblica con il sociologo Luigi Manconi, noto per le sue posizioni garantiste, Di Matteo è stato anche più specifico: "È difficile credermi, ma non ho vissuto la sentenza di assoluzione come un fallimento e prima non avevo sentito come un mio personale successo le condanne del tribunale. Certo, ho condotto quella inchiesta con molta partecipazione e ho provato soddisfazione nel contribuire a far emergere responsabilità e crimini, anche istituzionali, connessi alle stragi mafiose del 1992-‘93. D’altra parte, neppure la sentenza di appello ha messo in discussione molti dei fatti accertati dalla Procura, nonostante l’assoluzione di Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno. Voglio dire che, ad esempio, la mancata condanna di alcuni imputati non significa che gli alti gradi del Ros dei carabinieri non siano stati autori di condotte anomale - anche in relazione alla lunga latitanza di Bernardo Provenzano - bensì che quelle condotte non costituirebbero reato. Vale lo stesso per altri passaggi importanti della lunga storia di quegli anni. Dalla mancata perquisizione del covo di Riina, ai colloqui informali con Vito Ciancimino".
Nel dialogo, mentre il sociologo ha ipotizzato che "l'iniziativa del Ros non fosse altro che una spericolata iniziativa politica, non solo possibile, ma addirittura necessaria perché motivata dalla sacrosanta esigenza di fermare l’attacco stragista", ha replicato: "Io ho sostenuto che gli imputati “istituzionali” non avessero agito perché collusi con Cosa Nostra, bensì per una non dichiarata (e pertanto giuridicamente inaccettabile) ragion di Stato. E qui nasce il problema: la politica che si sporca le mani deve dichiarare apertamente questa motivazione. Oppure, se non lo ha anticipato, quando il pm si trova a indagare, gli deve opporre il segreto di Stato. Se, invece, la presunta ragion di Stato è occultata, si presta ad abusi assai pericolosi".

Quel ruolo di Bellini 
Tra Bologna e le stragi di Palermo una figura importante è quella di Paolo Bellini, recentemente condannato a Bologna. Secondo Di Matteo "non è nemmeno un caso che sia coinvolto quel Paolo Bellini, protagonista di rapporti con la mafia proprio nel periodo delle stragi, finalizzato a trovare una via d'uscita rispetto alla campagna del terrore. Bellini è il soggetto principale della cosiddetta trattativa minore che correva parallela a quella che il vertice del Ros dei Carabinieri portava avanti con Vito Ciancimino, a significare come la presenza e la condotta di uomini cerniera tra mafia e Stato o tra terroristi e Stato abbia sempre caratterizzato i momenti più delicati nella storia della Repubblica". 


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La condanna a morte di Riina e Messina Denaro
Tra gli argomenti toccati dal pm, anche il progetto di attentato nei suoi confronti e l'interrogatorio con il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, che rivelò l'arrivo del tritolo a Palermo per ucciderlo. "Andai a interrogarlo a Parma. Si presentò teso, emozionato, quasi tremante perché doveva dirmi una cosa importante, che poi ha verbalizzato. E dopo aver raccontato che l'esplosivo per il mio attentato era arrivato, indicò una foto di Falcone e Borsellino aggiungendo: 'non come quello, cioè Falcone; come l'altro, Borsellino'. Gli domandai: cosa intende? E lui: 'Ce l'hanno chiesto'. Ecco un altro dei tasselli che si aggiungono alla probabilità che Cosa nostra abbia agito anche su mandato di altri, perché quella frase combacia con ciò che Riina dice ai suoi prima di via d'Amelio. E in quella famosa riunione Raffaele Ganci, uno dei suoi uomini più autorevoli gli chiede: 'Ma dobbiamo fare la guerra allo Stato? E Riina, battendo il pugno sul tavolo. "Lo dobbiamo fare e la responsabilità me la prendo io. Sarà un bene per noi, per tutta cosa nostra e per i carcerati, ora e in futuro'".

I fratelli Graviano e Messina Denaro
Un focus importante è stato poi fatto sulla mafia di oggi, la latitanza di Matteo Messina Denaro ed il ruolo dei fratelli Graviano. 
In particolare queste ultime tre figure, secondo Di Matteo, "non rappresentano il passato ma il presente di Cosa nostra. Il Graviano, all'epoca giovani stragisti, non si sono rassegnati a finire i loro giorni in carcere. Forse in questo hanno nutrito la speranza che fosse abolito l'ergastolo ostativo e ora cercano di capire se può essere un momento propizio in cui continuare nella fase del basso profilo di Cosa nostra oppure no. E io temo che possano alzare nuovamente il tiro contro lo Stato". Rispetto alla primula rossa di Castelvetrano Di Matteo si è detto colpito dalla "rappresentazione che si è fatta di questo signore di cui ormai è emerso il ruolo strategico e centrale nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, e assieme ai Graviano, nell'esportazione della strategia stragista nel continente. E' l'uomo di maggior spicco di Cosa nostra e il mandante dell'attentato nei miei confronti, secondo i collaboratori di giustizia. Ma negli ultimi anni, a fronte della sua inaccettabile latitanza, sembra si voglia ridimensionarne il peso.   
Alcuni dicono che dopo le stragi non avrebbe avuto più un ruolo apicale in Cosa nostra, o che non è lui il capo dell'organizzazione ma un battitore libero. Altri affermano che avrebbe perso la capacità di influenza sulle famiglie mafiose palermitane e a me questo svalutarne la figura sembra un modo per tranquillizzare, visto che lo Stato non lo riesce a prendere. E non è plausibile, perché è in possesso di un'arma micidiale: la conoscenza dei rapporti che Cosa nostra ha avuto nel periodo delle stragi. Quest'arma vale più di quintali di tritolo perché è l'arma del ricatto. Uno Stato che alcune volte si autocelebra nel dire che la mafia è stata sconfitta, dovrebbe avere pudore ad affermarlo con nettezza quando uno dei suoi principali protagonisti è ancora libero. E libero di ricattare".


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Il sociologo, Luigi Manconi


Ergastolo ostativo
Nel dialogo con Manconi Di Matteo ha spiegato di aver avuto, in alcune occasioni, la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di molto simile a un ravvedimento morale, "la premessa ineludibile sia la rottura esplicita e ben visibile del legame associativo". 
Nello specifico "il mafioso può cambiare anche se non ha prestato collaborazione, ma nella realtà, l’unico vero modo di recidere il vincolo criminale è una presa di posizione pubblica che lo renda inaffidabile agli occhi degli associati".

Il concorso esterno
Altro argomento di dibattito con il sociologo è quello del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Se per quest'ultimo si tratta di un errore "l’aver trasformato l’analisi di un ambiente in una fattispecie penale" nel momento in cui "lo scopo dell’azione penale sia esclusivamente quello di accertare fatti rilevanti sotto il profilo criminale". La replica di Di Matteo è stata estremamente chiara: "È indubbio che lo scopo dell'azione penale debba essere quello di provare reati. Ma è altrettanto indubbio che alcuni delitti sono espressione di sistemi criminali più complessi. È ovvio che si debba partire dal contrasto all'area militare di Cosa Nostra, e questo da Falcone in poi è stato fatto. Ma il problema è che quella tipologia di criminalità, specie in Sicilia, si è nutrita di rapporti stretti con il potere e di un vastissimo sistema di solidarietà". "Se così non fosse stato, Cosa Nostra non avrebbe avuto la forza di uccidere decine di magistrati, sacerdoti, funzionari pubblici, ufficiali di polizia e carabinieri, esponenti politici. Il concorso esterno è l'applicazione, in termini addirittura scolastici, dei principi generali in tema di concorso nel reato. Vale anche per la rapina: c'è il rapinatore e c'è chi ha dato le informazioni utili. - ha aggiunto Di Matteo - Le sentenze non colpiscono mai il fenomeno di semplice omertà, ma sempre il contributo del non affiliato all'associazione, che deve essere reale e intenzionale. Ne è conferma il fatto che il titolo del reato è 'concorso in associazione mafiosa', mentre il termine 'esterno' è solo un'aggiunta giornalistica". 

Foto © Imagoeconomica

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