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A 32 anni dal delitto, l’intervista a Stefano Mormile, fratello dell’educatore carcerario

Un giovane educatore carcerario, un omicidio ibrido, ricco di misteri e una sigla: “Falange Armata”. È la storia di Umberto Mormile, assassinato l'11 aprile 1990 a Carpiano da due killer mentre si stava recando al lavoro presso il carcere milanese di Opera.
Umberto Mormile era un pioniere nel suo settore, perché era un conoscitore profondo del mondo delle carceri; aveva compreso quanto fosse importante l’arte e la cultura per la rieducazione e il reinserimento del carcerato nella società; e quanto il sistema penitenziario fosse il termometro con cui misurare la Democrazia di un Paese. Ma no, non è stato ucciso per questo. Dietro il suo delitto vi sono state trame ancora oggi oscure, che per troppi anni la giustizia non ha saputo (o voluto) affrontare.
Si tratta di un omicidio sui generis, probabilmente il primo di una lunga serie, per il quale dopo vari anni sono stati condannati come mandanti i boss di Platì, Domenico e Antonio Papalia - due dei vertici massimi della ‘Ndrangheta - e Franco Coco Trovato; mentre come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola (oggi pentito). Ma per la famiglia Mormile, nonché per la procura di Reggio Calabria che sta approfondendo la vicenda con un’informativa depositata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo sulla “Falange Armata” al processo ‘Ndrangheta Stragista, Umberto Mormile venne ammazzato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e l'amministrazione penitenziaria per poter entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis senza l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria.
Un protocollo che si incastra nel groviglio di fili rossi che “dagli anni Sessanta ad oggi ha collegato ambienti, istituzioni di nostri servizi di informazione con contesti della criminalità organizzata e della massoneria, che poi si è dipanato con modalità diverse e acronimi differenti e rivendicazioni di circostanza", come ha sottolineato il vicequestore della Dia, Michelangelo Di Stefano nell'ambito del processo di appello 'Ndrangheta stragista.
E tra queste rivendicazioni vi è indubbiamente quello dell’omicidio Mormile con il quale la “Falange Armata” fece la sua prima comparsa, per poi essere utilizzata in altre rivendicazioni come, ad esempio, l'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo.
Ed è per far luce sulla vicenda di Umberto Mormile e sulle verità indicibili che si celano dietro il suo delitto, nonché per farne memoria, che - a distanza di 32 anni dal delitto - abbiamo intervistato Stefano Mormile, il quale si è detto convinto che “il Protocollo Farfalla, rappresenta il movente stesso per il quale Umberto è stato ucciso. Mio fratello è stato ucciso perché è stato un testimone scomodo degli incontri che avvenivano in carcere (prima di Parma e poi di Opera) tra il boss Domenico Papalia e personaggi degli apparati di sicurezza. Dopo questi incontri, nonostante il regime di carcere duro, Papalia otteneva dei permessi premio”.
Nel frattempo, la giustizia - anche se lenta - sta facendo il suo corso e recentemente sono state aperte nuove indagini sull'omicidio Mormile grazie al gip del tribunale di Milano, Natalia Imarisio, che ha respinto la richiesta di archiviazione della Dda milanese disponendo l'iscrizione sul registro degli indagati di due collaboratori di giustizia, Salvatore Pace e Vittorio Foschini. Una iscrizione “necessaria e preliminare a qualunque altro sviluppo” scriveva il giudice.

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