"Mio cugino Angelo vide Agostino all'Addaura, e perse il telecomando"

A Fondo Pipitone venivano tutti. Venivano latitanti, carabinieri, uomini dei servizi segreti come Bruno Contrada e Giovanni Aiello (alias “Faccia da mostro”, ndr), ma anche il Questore di Palermo Arnaldo La Barbera o agenti di Polizia come Nino Agostino ed Emanuele Piazza. Da Fondo Pipitone partiva tutto”. È quanto testimoniato stamane dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo (ex boss dell’Acquasanta) dinnanzi alla Corte d'Assise di Palermo, presieduta da Sergio Gulotta, nell'ambito del processo sul duplice omicidio Agostino-Castelluccio, che vede imputati il boss Gaetano Scotto, accusato di duplice omicidio aggravato in concorso, e Francesco Paolo Rizzuto, accusato di favoreggiamento.
La storia di mafia vissuta a Fondo Pipitone - o Vicolo -, i personaggi che lo frequentavano (istituzionali e non, ndr), il fallito attentato all’Addaura e quella presenza di Nino Agostino, che avrebbe spaventato uno degli autori, addirittura facendogli perdere il telecomando.
Sono stati solo alcuni dei temi affrontati durante la deposizione. Il tutto in un’aula bunker particolarmente gremita di spettatori, molti dei quali giovani appartenenti all’Associazione Our Voice, presenti in quanto società civile.

Fondo Pipitone: il centro di comando dell’Acquasanta
Sono entrato dentro Cosa nostra perché mio padre, Galatolo Vincenzo, per più di cinquanta anni è stato uomo d’onore della famiglia dell’Acquasanta. Così come i miei zii sono tutti uomini d’onore dell’Acquasanta, che dipendeva dal mandamento di Resuttana che comandava Nino Madonia”. È il racconto fatto da Vito Galatolo, come incipit della sua testimonianza, per raccontare la sua appartenenza ad una famiglia che “fin dagli anni ’30 è storicamente di Cosa nostra”.

Una famiglia mafiosa potente, che godeva di un libro paga molto folto, il cui centro di comando era Fondo Pipitone, “una traversa della zona dell’Acquasanta in cui abitava tutta la mia famiglia e in cui commettevamo omicidi, soppressioni di cadaveri nei fusti dell’acido, strangolamenti, riunioni e summit mafiose, incontri con uomini esterni a Cosa nostra - ha detto Galatolo questa mattina -. Da lì è partito il commando per uccidere il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Cassarà, Chinnici, Montana. Tutti omicidi partiti da Vicolo Pipitone”.


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Una volta entrati, in fondo alla via senza uscita c’è una traversina. All’inizio c’è una casetta che usavamo per le riunioni. Poi subito dopo c’è un palazzo di 5 piani e poi uno scantinato attraverso il quale si accedeva a questo giardino in cui si facevano riunioni e in cui si scioglievano nell’acido le persone. Dal palazzo vedevamo tutto. Chi si affaccia dalla finestra del salone vedeva tutto”, ha detto il collaboratore di giustizia.

In merito ai rapporti con le forze dell’ordine Galatolo in prima battuta ha parlato del maresciallo Salzano e di come quest’ultimo fosse “nel libro mastro dei Madonia”, poi ha parlato dei rapporti con i servizi segreti.

Aiello e Contrada: le riunioni dei servizi segreti con Cosa nostra
C’erano rapporti con i servizi segreti - ha detto stamane Galatolo -. Nino Madonia e Gaetano Scotto li hanno avuti sempre. In Vicolo Pipitone venivano tante persone. Da noi veniva anche Giovanni Aiello, in certe riunioni con Nino Madonia e Gaetano Scotto; veniva Bruno Contrada; veniva l’avvocato Clementi. E quando venivano queste persone dentro, la camionetta dei carabinieri era sempre davanti all’entrata di Vicolo Pipitone. Era messa apposta là davanti per un interesse nostro di cosa nostra che potevamo parlare più tranquilli. Là dentro ci veniva anche Piazza e l’agente Agostino alla ricerca di latitanti. Venivano là. A volte li consideravamo dei guardoni perché si fermavano”. E su quest’ultimo punto, il collaboratore di giustizia ha precisato che una volta entrati a Fondo Pipitone “subito c’era una traversa che si arrivava fino alla ‘casuzza’ perciò queste persone (Piazza e Agostino, ndr) andavano invece dritto ad aspettare chi entrava e chi usciva e fotografarli. Dal palazzo le donne, mia madre, mia zia, ecc, vedevano queste motociclette o macchine che si mettevano fermi là e noi li prendevamo per guardoni. Quindi quando noi li avvisavamo per rimproverarli quelli scappavano subito”. “Tutti sono venuti da noi - ha ribadito più volte Vito Galatolo -. C’era Arnaldo La Barbera che era al libro paga dei Madonia, che fino al ’91 veniva a vicolo Pipitone. A Nino Madonia non mancava niente, tutto ciò che voleva otteneva”.

Il pm Gozzo ha poi chiesto al teste se e quando riconobbe in foto Giovanni Aiello come “Faccia da mostro”. “Sì, lo riconobbi subito perché veniva spesso in vicolo Pipitone a incontrarsi con Nino Madonia, era presente anche Gaetano Scotto. Una volta sono venuti assieme Contrada con Giovanni Aiello, i due camminavano assieme ma su due marciapiedi diversi per entrare su vicolo Pipitone”. Per dimostrare come la conoscenza di Aiello in quegli ambienti fosse fondata, Galatolo ha poi riesumato un ricordo d’infanzia: “Da ragazzino mia sorella a casa mia usava dire che se noi facevamo i monelli lei ci diceva ‘fate i bravi perché sennò chiamo Mostro e vi faccio rimproverare dal Mostro’, perché ci faceva paura per la sua faccia”. “Quindi sì, veniva spesso a incontrarsi con Nino Madonia, anche se mai si sono salutati con un abbraccio ma sempre con una stretta di mano. Si mettevano dentro la ‘casuzza’ anche per ore in base agli argomenti da discutere”. Lo zio Giuseppe Galatolo, inoltre, disse al nipote Vito che Aiello “era una persona appartenente ai servizi segreti e di fiducia di Nino Madonia che si metteva a disposizione”.





Ma se tale frequentazione era assidua “nel periodo ’87-’88 ma anche aprile/maggio ’89”, dopo il fallito attentato all’Addaura “non l’ho più visto, infatti quando venne arrestato Nino Madonia non vidi più questa persona là dentro, non venne più”.

Anche Contrada “lo vidi in Vicolo Pipitone sempre dopo l’84/’85, in questi periodi caldi della guerra di mafia e spesso veniva anche l’avvocato Marco Clementi e veniva con lui perché chiamavano mio padre, mio padre scendeva e poi si metteva a parlare con Nino Madonia dentro mentre l’avvocato Clementi aspettava sempre fuori con qualche parente come mio zio: non l’ho visto mai partecipare dentro ad una riunione”.

L’attentato all’Addaura e gli “avvistamenti” di Agostino e Piazza a Fondo Pipitone
Un altro tema centrale affrontato dalle dichiarazioni di Vito Galatolo è stato il fallito attentato all’Addaura, un ordine di esecuzione ai danni di Giovanni Falconepartito da Vicolo Pipitone”, ha detto oggi il teste.

Il fallito attentato all’Addaura è un punto nodale di quel 1989. Proprio Falcone disse al giornalista Saverio Lodato, oggi nostro editorialista e al tempo giornalista de L'Unità,  che dietro a quel tentato delitto vi erano “menti raffinatissime”.

Un delitto che in qualche maniera avrebbe segnato un “prima ed un dopo” rispetto ad alcune valutazioni che si facevano all'interno della famiglia de l'Acquasanta, ogni volta che vedevano due soggetti che entravano a Fondo Pipitone in maniera sospetta: Emanuele Piazza e Nino Agostino.

Vi è un prima e un dopo Addaura - ha spiegato il collaboratore di giustizia alla Corte -. Prima che succedesse il fallito attentato all’Addaura al dottor Falcone dentro Vicolo Pipitone entravano spesso due persone che vidi in faccia. Erano due con la moto (altri venivano con la macchina). Però noi vedevamo che queste persone entravano e si piazzavano nella parte del giardino. Invece, dentro la casetta in cui si facevano le riunioni, andavano Bruno Contrada, Gaetano Scotto e Giovanni Aiello. E si vedeva che questi agenti (Piazza e Agostino, ndr) facevano come i pazzi perché non individuavano l’entrata della casetta ed erano convinti che entravano nel palazzo dove abitavamo noi. Le donne del nostro palazzo si lamentavano perché erano convinti che queste due persone fossero due guardoni. Tutto ciò prima dell’Addaura”.


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Tutto cambia, però, nel momento in cui l’attentato all’Addaura fallisce. “Mio cugino Angelo, figlio di mio zio Pino, nel luogo dell’Addaura aveva riconosciuto l’agente Agostino che scendeva le scale. Mio cugino si spaventò tanto che cadde e buttò il telecomando. Quando tornò a casa disse a suo padre: ‘Vedi che mi sono spaventato perché io ho visto quella persona che veniva qua che noi scambiavamo per guardoni e invece sono poliziotti che ci stanno seguendo”. E ancora: “Inizialmente noi pensavamo che Piazza e Agostino erano collusi perché almeno in un’occasione, quando Contrada e Aiello erano arrivati a vicolo Pipitone, e si erano incontrati come esponenti della mia famiglia, Piazza e Agostino avevano fatto accesso a vicolo Pipitone e pensammo che fossero di scorta alle persone che erano arrivate. Anche perché per entrare in vicolo Pipitone devi conoscerlo il punto. E quando entravano queste persone pensavamo fossero poliziotti collusi con loro. Poi, però, emerse una verità diametralmente opposta: “Agostino era un ‘cornuto’ persino più di Piazza” perché venne riconosciuto nella scogliera ed era anche “il più accanito ad indagare e fare foto. Io ricordo che aveva una macchina fotografica”. Sul punto, rispondendo ad una domanda del Presidente della Corte, ha persino chiarito di aver saputo che il loro ruolo fosse proprio quello di ricercare i latitanti.

La collaborazione di giustizia e l’attentato a Nino Di Matteo
Le domande della Corte, in conclusione, sono servite per ribadire come e perché è iniziato il percorso di collaborazione di Vito Galatolo. “Ho iniziato la mia collaborazione nel novembre 2014, quando mi trovavo detenuto a Parma per 416bis, estorsioni e altro - ha detto il teste - Quando mi arrestarono a Mestre mi portarono nel carcere più vicino che era quello di Venezia, ma siccome la non c’era l’alta sicurezza mi trasferirono dopo 15 giorni a Tolmezzo. Lì c’erano altri detenuti tra cui un certo Di Fiore che era di Bagheria e con cui si parlava. E mi disse: ‘Sai che lo zio Vincenzo Graziano è stato scarcerato?’. Graziano era la persona che aveva in custodia 200kg di esplosivo per fare l’attentato al dottore Di Matteo. E quindi mi sono detto: ‘Ma perché non la facciamo finita con Cosa nostra?’ Io l’ho fatto per non far diventare il dottor Di Matteo un altro Falcone”. Stamane ha così confermato quanto disse rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto nisseno Gabriele Paci, durante il processo sul depistaggio di via d’Amelio, ripercorrendo l'inizio della propria collaborazione con la giustizia spiegando di averlo fatto per "dare un futuro ai propri figli" ma anche "per fermare l'attentato contro il pm Antonino Di Matteo". "In me era maturato il senso di colpa - disse alla Corte -. Vincenzo Graziano, che era stato arrestato con me nel blitz Apocalisse, era uscito dal carcere. Io sapevo che lui era in possesso dell'esplosivo e sapevo che lo avrebbe portato a termine. E dovevo dare un taglio con tutta la situazione".

Foto e Video © Emanuele Di Stefano

Edited by Riccardo Caronia

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