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Il duro documento dell'ONG incastra Israele che cerca di smarcarsi con la carta dell'''antisemitismo''

Pezzo dopo pezzo, va sempre più distruggendosi il simulacro tirato su da Israele e da una comunità internazionale compiacente, che tratteggia il sedicente “Stato-nazione ebraico” come “unica democrazia del medio oriente”. Dopo quello di B’tselem (ONG israeliana) e di Human Rights Watch un nuovo documento, ben approfondito, descrive compiutamente Israele come regime di apartheid, antitesi, questo, di uno Stato di diritto. Questa volta ad accusare Tel Aviv del crimine di apartheid è la rinomata ONG Amnesty International che in un rapporto di 278 pagine (presentato oggi a Gerusalemme) dal titolo “Israel’s Apartheid against Palestinians: Cruel System of Domination and Crime against Humanity”, parla di un sistema di oppressione e dominazione nei confronti della popolazione palestinese, ovunque Israele eserciti il controllo sui loro diritti. Vengono denunciati dunque i muri, le barriere di separazione e i check-point come simboli tangibili di soprusi. Ma poi anche la frammentazione dei territori, la segregazione e la limitazione della libera circolazione. Per poi passare alla giustizia a doppia velocità israeliana, debole, se non inesistente, contro i coloni e oltremodo persecutrice contro i palestinesi. E infine vengono a galla i sequestri di terre e proprietà palestinesi in stampo squisitamente coloniale, gli omicidi, le espulsioni forzate, la negazione della nazionalità e della cittadinanza ai palestinesi. “Tutte componenti di un sistema discriminatorio che costituisce un crimine contro l'umanità ai sensi del diritto internazionale”, le descrive Agnès Callamard, Segretaria generale di Amnesty. “Hanno scoperto l’acqua calda”, è il commento puntuale e sarcastico del gruppo Giovani Palestinesi d’Italia che comunque ha accolto il documento positivamente in quanto, si legge sulla loro pagina, “potrà essere un altro strumento utile a perseguire la giustizia per il nostro popolo in diaspora, nei campi profughi, nei territori occupati e in tutta la Palestina storica”.


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Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Sono oltre 70 anni - per l’esattezza 73 - che i governi israeliani (tutti) perseguono una politica segregazionista e di apartheid ai danni della popolazione palestinese. Un’apartheid che va a inficiare tutti gli ambiti della vita della popolazione: scuola, università, lavoro, sanità e quotidianità. Questo include palestinesi che vivono in Israele e nei Territori palestinesi occupati (TPO), e i rifugiati in altri paesi. Il sistema è mantenuto da violazioni che, secondo Amnesty International, costituiscono apartheid come crimine contro l’umanità, così come definito dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione sull’apartheid. Ma vediamo come.

Cos’è l’apartheid
Per prima cosa, però, l’ONG ricorda cosa sia un sistema di apartheid. Un sistema di apartheid è un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione da parte di un gruppo razziale nei confronti di un altro. È una grave violazione dei diritti umani che è vietata dal di-ritto pubblico internazionale. Amnesty, in questo senso, ha quindi svolto ricerche approfondite e analisi giuridiche e ha osservato, con l’ausilio dei rapporti e delle analisi di esperti sul campo e ONG del territorio, come Israele attui un sistema di questo tipo nei confronti dei palestinesi attraverso leggi, politiche e prassi che assicurano trattamenti discriminatori crudeli e prolungati.

Nel diritto penale internazionale, specifici atti illegali commessi nel contesto di un sistema di oppressione e dominazione con lo scopo di mantenerlo costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid. Questi atti sono definiti nella Convenzione sull’apartheid e nello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e includono uccisioni illegali, la tortura, i trasferimenti forzati e il diniego dei diritti e delle libertà basilari.


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Amnesty International ha documentato atti vietati dalla Convenzione sull’apartheid e dallo Statuto di Roma in tutte le aree controllate da Israele, sebbene queste avvengano più frequentemente e violente-mente nei TPO che in Israele. Le autorità israeliana mettono in atto molteplici misure per negare volontariamente ai palestinesi i diritti e le libertà basilari, incluso con drastiche limitazioni di movimento nei Territori palestinesi occupati, un sottoinvestimento cronico nelle comunità palestinesi residenti in Israele e la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati. Il rapporto inoltre documenta dei trasferimenti forzati, la detenzione amministrativa, la tortura e le uccisioni illegali sia in Israele che nei TPO. Secondo le ricerche di Amnesty International questi atti sono parte di attacchi sistematici e diffusi contro la popolazione palestinese e sono commessi con l’intento di mantenere un sistema di oppressione e dominazione. Pertanto, costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid. “I palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti”, ha denunciato la Callamard allegando il documento. “Le nostre ricerche evidenziato che le crudeli politiche di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il controllo israeliano costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire,” ha dichiarato Agnès Callamard.


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Non vi è alcuna giustificazione possibile per un sistema costruito sull’oppressione razzista istituzionalizzata e prolungata di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia”. “I governi che continuano a fornire armi a Israele venendo meno alle loro responsabilità - ha aggiunto - stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale e esacerbando le sofferenze della popolazione palestinese”. “La comunità internazionale deve guardare negli occhi la realtà dell’apartheid israeliano e dare seguito a tutte le opportunità di giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate.”

La minaccia demografica
Come detto, questa politica di apartheid In Israele affonda le sue radici dalla sua costituzione nel 1948 (nascita di Israele) che fin da subito ha condotto una politica per istituire e mantenere una maggioranza demografica ebrea, e di massimizzazione del controllo sulle terre e sulle risorse a vantaggio degli ebrei israeliani. “La stessa politica è stata poi estesa nel 1967, dopo la Guerra sei giorni, ai territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Oggi tutti i territori controllati da Israele continuano ad essere amministrati con l’intento di beneficiare agli ebrei israeliani a scapito dei palestinesi, mentre i rifugiati palestinesi continuano ad essere esclusi”, sostiene l’ONG.


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Amnesty International riconosce che gli ebrei, come i palestinesi, rivendicano il diritto all’autodeterminazione e non contesta il desiderio di Israele di essere una patria per gli ebrei. Analogamente non considera che la definizione che Israele dà di sé stesso come di uno “stato ebreo” indichi di per sé l’intenzione di opprimere e dominare.

Tuttavia, il rapporto di Amnesty International dimostra che la maggioranza dei governi di Tel Aviv hanno considerato i palestinesi come una minaccia demografica, imponendo misure di controllo psicologiche e fisiche volte a decimare la loro presenza e per accedere alle terre in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Si assiste da decenni a una “giudaicizzazione” di intere aree di Israele e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est (emblematico è il caso del quartiere gerosolomitano di Sheikh Jarrah), che continuano a minacciare migliaia di Palestinesi con il rischio di espulsioni forzate.

Oppressione storica
Sempre in riferimento alle guerre del 1947-1949 e del 1967, il controllo militare di Israele sui Territori palestinesi occupati e la creazione di regimi giudiziari e amministrativi distinti hanno separato le comunità palestinesi e le hanno segregate dagli ebrei israeliani. I palestinesi sono stati frammentati geograficamente e politicamente e vivono diversi livelli di discriminazione a secondo del loro statuto e di dove vivono.

I cittadini palestinesi in Israele godono di maggiori diritti e libertà rispetto ai palestinesi dei territori occupati, mentre l’esperienza dei palestinesi di Gaza è molto diversa rispetto a quella di coloro che vivono in West Bank. Ma tutti, secondo Amnesty International, sono sottoposti allo stesso sistema sovrastante che prevede di privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e minimizzare la presenza dei palestinesi e il loro accesso alle terre.


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I palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore, definito dal loro status non-ebreo e arabo. Si tratta di discriminazione razziale che affonda le radici in leggi che colpiscono i palestinesi sia in Israele che nei Territori palestinesi occupati. Va ricordato, ad esempio, che Israele si è autodefinito nel 2018 quale “Stato-Nazione” degli ebrei con una legge di stampo nazionalista.

Su questa linea Amnesty ricorda che ai palestinesi residenti in Israele viene negata la nazionalità, creando una differenziazione giuridica rispetto agli ebrei israeliani. In Cisgiordania e a Gaza, dove Israele controlla i registri anagrafici dal 1967, i palestinesi non hanno alcuna cittadinanza e molti sono considerati apolidi e devono quindi chiedere documenti di identità all’esercito israeliano per vivere e lavorare nei territori.

I rifugiati palestinesi e i loro discendenti, sfollati nelle guerre del 1947-1949 e del 1967, continuano a vedersi negato il diritto al ritorno nel loro precedente luogo di residenza. L’esclusione dei rifugiati da parte di Israele è una evidente violazione del diritto internazionale che lascia milioni di persone in un limbo perpetuo di sfollamento forzato.

I palestinesi della annessa Gerusalemme Est hanno un permesso permanente di residenza invece della cittadinanza, anche se questo status è permanente solo sulla carta. Infine, Amnesty registra come dal 1967 più di 14.000 palestinesi si sono visti revocare la residenza a discrezione del Ministero dell’Interno, risultante nel loro trasferimento forzato al di fuori della città.


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Cittadini di Serie B
Nel documento Amnesty riconosce i cittadini palestinesi che vivono nei territori occupati nel’ 48, ricorda che rappresentano circa il 21% della popolazione, e denuncia le forme di discriminazione istituzionale che sono costretti a subire. Nel 2018, come detto, la discriminazione nei confronti dei palestinesi è diventata una legge costituzionale che, per la prima volta, descrive Israele come “stato-nazione del popolo ebreo”. La legge, criticamente ampiamente internazionalmente, promuove inoltre la costruzione di colonie ebraiche e degrada l’arabo da lingua ufficiale a lingua con uno status speciale.

Il rapporto documenta come i palestinesi non possano effettivamente fare contratti di locazione sull’80% dei terreni di stato israeliani a seguito di requisizioni razziste di terreni e di una rete di leggi discriminatorie sull’assegnazione delle terre, di piani edilizi e di regolamenti urbanistici locali.

Esempio lampante di come le politiche di pianificazione e i piani edilizi israeliani escludano intenzionalmente i palestinesi è la situazione nel Negev/Naqab, nel sud di Israele, di cui le cronache stanno parlando in questi giorni. Dalla loro fondazione le autorità israeliane hanno adottato varie politiche per “giudaicizzare” il Negev/Naqab, incluso designare ampie aree come riserve naturali o zone di tiro militari, e stabilendo obiettivi per aumentare la popolazione ebraica. Questo ha avuto conseguenze devastanti per le decine di migliaia di beduini palestinesi che vivono nella regione.

Attualmente trentacinque villaggi beduini, casa per circa 68 000 persone, sono “non riconosciuti” da Israele: questo significa che non sono collegati alla fornitura elettrica e idrica nazionale e ripetutamente oggetto di demolizione. Poiché i villaggi non hanno uno status ufficiale, i loro abitanti subiscono inoltre limitazioni nella partecipazione politica e sono esclusi dal sistema sanitario e educativo. Queste condizioni hanno costretto molti a lasciare le proprie case e i villaggi, ciò che costituisce trasferimenti forzati.

Decenni di deliberato trattamento ineguale dei palestinesi residenti in Israele ha determinato un profondo svantaggio economico rispetto agli ebrei israeliani. Questa condizione è acuita dall’assegnazione evidentemente discriminatoria delle risorse di stato: un esempio recente è il pacchetto di aiuti post Covid-19 di cui solo l’1.7% è stato attribuito alle autorità locali palestinesi.


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I pilastri del sistema di apartheid
Nel rapporto vengono anche identificate lo spossessamento e lo sfollamento dei palestinesi dalle loro case come pilastri determinante del sistema di apartheid. Dalla sua istituzione, lo stato israeliano ha eseguito massicce e crudeli requisizioni di terre palestinesi, e continua ad applicare una miriade di leggi e politiche che forzano la popolazione palestinese a vivere in piccole enclavi. Dal 1948, Israele ha demolito centinaia di migliaia di case e di altre strutture palestinesi in tutti i territori sotto la sua giurisdizione e sotto suo effettivo controllo.

Come nel Negev/Naqab, i palestinesi a Gerusalemme Est e nell’Area C dei Territori palestinesi occupati vivono sotto totale controllo israeliano. Le autorità negano permessi di costruzione ai Palestinesi in queste zone, non lasciando loro altra alternativa che costruire strutture illegali che vengono via via de-molite.

Nei Territori palestinesi occupati, la continua espansione di insediamenti israeliani, avviata con la Guerra dei Sei Giorni nel ’67, rende ancor più grave la situazione. Oggi gli insediamenti coprono il 10 per cento delle terre in Cisgiordania. Tra il 1967 e il 2017 circa il 38% delle terre palestinesi di Gerusalemme Est è stato espropriato.

I quartieri palestinesi di Gerusalemme Est sono spesso presi di mira da organizzazioni di coloni che, con il pieno appoggio del governo israeliano, agiscono per sfollare famiglie palestinesi e annettere le loro case. Uno di questi quartieri, Sheikh Jarrah, è al centro di frequenti proteste dal maggio 2021: le famiglie che vi risiedono si battono per conservare le proprie case, minacciate dagli esposti di sgombero presentate dai coloni.


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West Bank-Gaza, le limitazioni di movimento
Altro punto cruciale è la limitazione di movimento posta in essere da Israele ai danni della cittadinanza palestinese. Dalla metà degli anni Novanta, infatti, le autorità israeliane hanno imposto restrizioni di movimento sempre più severe ai palestinesi nei Territori palestinesi occupati. Una rete di checkpoint militari, posti di blocco, barriere, più o meno mobili, e altre strutture controllano e circoscrivono i movimenti dei palestinesi all’interno dei Territori e limita i loro spostamenti in Israele e all’estero. Un po’ come i bantustan del Sudafrica pre-Mandela. Queste limitazioni sono state accentuate vertiginosamente dall’installazione di una barriera di 700km, che Israele sta ancora ampliando, alta oltre 8 metri in certi punti, costruita nei primi anni 2000 ai tempi della Seconda Intifada. Israele ha in questo modo isolato le comunità palestinesi all’interno di “zone militari” e gli abitanti devono ottenere diversi permessi speciali ogni qualvolta lascino o rientrino nelle proprie case. A Gaza oltre 2 milioni di palestinesi vivono sotto un blocco israeliano che ha creato una crisi umanitaria. È quasi impossibile per gli abitanti di Gaza viaggiare all’estero o in altre parte dei Territori palestinesi occupati e sono quindi segregati dal resto del mondo.

Per i palestinesi, la difficoltà di viaggiare all’interno e all’esterno dei Territori palestinesi occupati è un ricordo costante della loro impotenza. Ogni loro mossa è soggetta all’approvazione da parte dell’esercito israeliano, e la più semplice attività quotidiana è condizionata da una rete di controlli violenti”, ha detto Agnès Callamard.

Il sistema di permessi nei Territori palestinesi occupati è emblematico della spudorata discriminazione di Israele nei confronti dei palestinesi. Mentre loro sono circondati da un blocco, fermi per ore ai checkpoint o in attesa del rilascio dell’ennesimo permesso, i cittadini israeliani e i coloni possono muoversi liberamente”, ha sottolineato Callamard.


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Amnesty International ha esaminato ciascuna delle giustificazioni di sicurezza che Israele cita come base per il trattamento dei palestinesi. Il rapporto mostra che, mentre alcune delle politiche di Israele possono essere state elaborate per conseguire obiettivi di sicurezza legittimi, la loro applicazione gravemente sproporzionata e discriminatoria non è in regola con il diritto internazionale. Altre politiche non mostrano alcuna ragionevole base in termine di sicurezza e derivano chiaramente dall’intenzione di opprimere e dominare.

Apartheid, le ultime vicissitudini
Tornando alle cronache, l’uccisione illegale di manifestanti palestinesi è quasi certamente la più chiara illustrazione di come le autorità israeliane ricorrano ad atti vietati per mantenere lo status quo. Nel 2018 i palestinesi di Gaza hanno iniziato a tenere proteste settimanali lungo il confine con Israele, rivendicando il diritto di fare ritorno per i rifugiati e chiedendo la fine del blocco nelle cosiddette “Marce per la terra”. Prima ancora che le proteste iniziassero funzionari israeliani di alto grado hanno avvertito che si sarebbe aperto il fuoco contro chiunque si fosse avvicinato al confine. E così è stato: a fine 2019, le forze israeliane avevano ucciso 214 civili, inclusi 46 minorenni, per non parlare delle persone ferite, moltissime mutilate a causa dei proiettili a “Farfalla”, in dotazione all’IDF (Israel Defence Forces) in grado di tranciare gli arti all’impatto.


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Le richieste e le condanne di Amnesty
Nel documento l’ONG fornisce numerose raccomandazioni specifiche affinché Israele possa smantellare il sistema di apartheid e la discriminazione, la segregazione e l’oppressione che lo sostengono.

Come primo passo, l’organizzazione chiede la fine della brutale pratica della demolizione di case e degli sgomberi forzati. Inoltre, Israele deve permettere uguali diritti a tutti i palestinesi in Israele e nei Territori palestinesi occupati, in linea con i principi del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Deve riconoscere il diritto dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti di fare ritorno nelle case dove vivevano loro o i loro familiari vivevano. Deve fornire piena riparazione alle vittime di violazioni dei diritti umani e di crimini contro l’umanità.

L’ampiezza e la gravità delle violazioni documentate nel rapporto di Amnesty International richiedono un drastico cambiamento nell’approccio della comunità internazionale alla crisi dei diritti umani in atto in Israele e nei Territori palestinesi occupati.

Tutti gli stati possono esercitare la giurisdizione universale nei confronti di persone ragionevolmente sospettate di aver commesso il crimine di apartheid definito dal diritto internazionale. Gli Stati parte dello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale hanno l’obbligo di agire in questo senso.

La risposta internazionale all’apartheid non deve più limitarsi a blande condanne e formule ambigue. Se noi non ne affronteremo le cause, palestinesi e israeliani rimarranno intrappolati in un ciclo di violenza che ha già distrutto moltissime vite”, ha dichiarato Agnès Callamard.


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Israele deve smantellare il sistema di apartheid e iniziare a trattare i palestinesi come esseri umani con pari diritti e dignità. Fino a quando questo non succederà la pace e la sicurezza rimarranno una prospettiva lontana per gli israeliani come per i palestinesi”, ha aggiunto. Non solo. Alla luce delle sistematiche uccisioni illegali di palestinesi documentate nel suo rapporto, Amnesty International chiede al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di imporre un embargo totale sulle armi verso Israele. Questo embargo, viste le migliaia di uccisioni illegali di palestinesi da parte delle forze israeliane, dovrebbe includere tutte le armi e le munizioni così come le forniture di sicurezza. Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe inoltre imporre sanzioni mirate, come il congelamento dei beni dei funzionari israeliani implicati nel crimine di apartheid. E infine viene chiesto al Tribunale penale internazionale (TPI) di includere il crimine di apartheid nella sua indagine sui Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati ad esercitare la giurisdizione universale per portare i responsabili di crimini di apartheid di fronte alla giustizia.

La risposta israeliana e la carta “antisemitismo”
Il documento di Amnesty ha creato scalpore nella comunità internazionale e Israele ha iniziato a denunciarlo preventivamente ben prima della sua pubblicazione. Il ministero degli esteri israeliano ha infatti pubblicato una dura risposta contro Amnesty International. “Nel pubblicare questo falso rapporto, Amnesty usa doppi standard e la demonizzazione per delegittimare Israele. Queste sono le componenti esatte da cui è fatto l’antisemitismo moderno”, si legge in un comunicato diffuso ieri sera. Si tratta della solita strategia di Israele e delle realtà sioniste o filo-sioniste, che si trincerano dietro vittimisticamente dietro alla formula “dell’antisemitismo” (completamente fuori contesto e fuori luogo) con la quale riescono a smarcarsi sempre davanti alla comunità internazionale ogni qual volta Tel Aviv viene accusata di crimini e violazioni. Amnesty International, dal canto suo, ha infatti respinto ogni accusa di antisemitismo considerandola un tentativo di distogliere l’attenzione dalla violazione dei diritti umani dei palestinesi.

Fonte: pagineesteri.it

Foto: it.depositphotos.com

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