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Nel corso dell’udienza ascoltate anche le testimonianze di Andrea e Giustino Piazza

Falcone mi disse che giunse alla conclusione secondo cui dietro Cosa nostra si muoveva la presenza di ‘menti raffinatissime’ che guidavano la mafia dall’esterno. Lui capì che non era soltanto farina del sacco della mafia”. Sono le parole dello storico giornalista, nonché nostro editorialista, Saverio Lodato, udito questo pomeriggio al processo sul duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie incinta Ida Castelluccio, avvenuto il 5 agosto 1989. Davanti alla Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Sergio Gulotta (Monica Sammartino, giudice a latere) sono imputati il boss dell’Arenella Gaetano Scotto (presente in videocollegamento), con l’accusa di essere stato esecutore materiale del delitto insieme ad Antonino Madonia (già condannato in rito abbreviato la scorsa estate) e Francesco Paolo Rizzuto, accusato di favoreggiamento aggravato.
Quella odierna è stata una lunga udienza - durata quasi otto ore - nella quale si sono susseguite le testimonianze di Guido Longo (vicedirigente della squadra mobile di Palermo nel 1988), Andrea e Giustino Piazza (rispettivamente fratello e padre dell’agente di polizia scomparso Emanuele Piazza), Massimo Grignani (già funzionario del Sisde, ora funzionario dell’Aise) e Vincenzo Di Blasi (già agente di polizia, ora detenuto). Presenti in aula anche i periti trascrittori nei confronti dei quali la Corte ha deciso di acquisire le perizie di trascrizione e, in assenza di domande da porre agli stessi con rinuncia di tutte le parti alla loro discussione orale, licenziarli subito.

Falcone, l’Addaura e le “Menti raffinatissime” con lo spettro di Bruno Contrada
Ricordo che conobbi per la prima volta il dottor Giovanni Falcone nel Palazzo di Giustizia a metà degli anni ’80, ma forse anche prima - nell’82 - in occasione dell’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa”. Una lunga e profonda conoscenza, quella che Saverio Lodato ha avuto con Giovani Falcone prima che venisse brutalmente assassinato nella strage di Capaci, da cui è nata una sincera e reciproca stima. All’epoca giornalista dell’Unità, Lodato fu uno dei pochi, se non l’unico, a poter intervistare il giudice Falcone subito dopo il fallito attentato all’Addaura, sventato il 21 giugno 1989. Un incontro avvenuto nell’immediatezza, “sollecitato più da lui che da me nel senso che dopo quell’attentato Falcone evidentemente aveva necessità di far conoscere la sua posizione all’indomani dell’agguato - ha detto Lodato in aula -. Per cui ci incontrammo oserei dire su sua richiesta nella villa dell’Addaura”. Ai pm il nostro editorialista ha spiegato come la necessità che Falcone aveva di parlare probabilmente scaturisse dal fatto che “era diffuso il ‘tam tam’ che lui stesso fosse l’artefice di quello che veniva definito un presunto attentato”.

Un’intervista che passò alla storia. “Lui parlò del fatto che era giunto alla conclusione che secondo lui dietro cosa nostra si muovevano la presenza di ‘menti raffinatissime’ che guidavano la mafia dall’esterno. Lui capì che non era soltanto farina del sacco della mafia - ha detto il giornalista - Davanti a tale dichiarazione insistetti affinché Falcone mi desse un nome e un cognome in riferimento alle ‘menti raffinatissime’. E poi mi fece il nome del dottore Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde, ndr) come uno di quelli che remava contro”.


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Bruno Contrada, a sinistra, in uno scatto di Letizia Battaglia


"Falcone rimase sorpreso del fatto che io non ci arrivai da solo - ha proseguito Lodato -. Non mi disse che dietro l’attentato all’Addaura c’era lui, ma disse: ‘Non l’hai capito? Bruno Contrada. Falcone lo vedeva come un grande regista di quelle ‘menti raffinatissime’ che guidavano la mafia dall’esterno”.

Saverio Lodato: “Non parlai subito di Contrada perché mi impegnai con Falcone”
Secondo il giornalista, già dagli anni ’80 Bruno Contrada era uno degli uomini più in vista dell’apparato investigativo palermitano. Noto anche tra gli ambienti investigativi e giudiziari in cui “si percepiva la pesantezza del nome del dottore Contrada come uno che sapeva cose, indipendentemente da quello che potesse essere il suo incarico in quel momento”. “Il mensile ‘I Siciliani’ di Fava aveva pubblicato dei numeri monografici (nell’83 e nell’84, ancora prima dell’attentato all’Addaura) - ha sottolineato Lodato - sui ‘Cavalieri del lavoro’ in cui veniva tirato in ballo proprio Bruno Contrada come uomo in qualche modo legato ad ambienti non proprio adamantini”. Questo per dire che “c’era un precedente pubblico per cui si avevano sospetti su Contrada”, ha affermato il giornalista in una dichiarazione spontanea.

Secondo l’ex giornalista dell’Unità, inoltre, “l’intera città riteneva che Contrada era una cosa e Falcone un’altra” e quest’ultimo “sicuramente faceva sempre allusioni a questo ‘convitato di pietra’ nella lotta alla mafia (senza mai scendere nei dettagli) dicendo che lo reputava essere una persona molto intelligente”. Il tutto con "tratti di ambiguità nel momento in cui Falcone diceva che Contrada era troppo intelligente”.

Ma la rivelazione fatta dal giudice a Saverio Lodato è emersa solo di recente, quando il giornalista - autore, assieme al Consigliere togato al Csm Nino Di Matteo, del libro “I nemici della giustizia” (ed. Rizzoli) - lo scorso 20 maggio 2020 è intervenuto su La7 durante lo speciale di “Atlantide”, condotto da Andrea Purgatori, dedicato alla memoria del giudice ucciso a Capaci il 23 maggio 1992.

Dopo la strage di Capaci non disse nulla per due motivi. Il primo “perché Contrada era sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, sulla base di dichiarazioni di pentiti e di funzionari di polizia, e quindi andare a raccontare il ricordo di Falcone morto per dire che… non sarei stato nemmeno in grado di far acquisire un valore in termini di prova di questa affermazione”. Il secondo, in quanto “chiesi se potevo scrivere questo nome, ci fu una discussione lunga, insistetti, e Falcone mi disse: ‘Questo nome non può e non deve uscire’. A quel punto gli chiesi cosa sarebbe successo in caso lo avessi scritto, e lui mi disse tipo che non mi avrebbe più ricevuto. Per questo mi chiese l’impegno di non scriverlo”.


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Arnaldo La Barbera © Imagoeconomica


L’omicidio del Barone D'Onufrio, Contorno e Arnaldo La Barbera
Altro tema dibattuto in aula sono state le “lettere del corvo” del giugno 1989, anche se Lodato non ricorda essere state oggetto dell’intervista fatta a Falcone dopo il fallito attentato all’Addaura. Ma per aprire questa compagine l’avvocato Repici ha allargato il campo con le sue domande rivolte al teste: punto di partenza l’omicidio del Barone D'Onufrio. Con Falcone “non credo di averne mai parlato in occasione dell’Addaura, bensì in occasione del fatto che quando fu ucciso il Barone venne messo in circolo la notizia che quest’ultimo era stato ucciso da Buscetta, che Falcone e De Gennaro avevano fatto entrare clandestinamente dall’America - in cui erano sotto programma di protezione sia Buscetta sia Contorno - per andare a fare piazza pulita dei corleonesi nelle loro borgate”. “E si favoleggiò addirittura di un incontro avvenuto fra il Barone D'Onufrio e l’allora capo della Polizia De Gennaro, il tutto sotto la regia di Falcone - ha detto Lodato -. E, occupandomi dell’uccisione del Barone D'Onufrio, quando scrissi che nel ‘tam tam’ cittadino veniva coinvolto in qualche modo anche Giovanni Falcone, lo chiamai e lui smentì categoricamente. Era letteralmente furibondo”.

Nella vicenda il nome di Bruno Contradaveniva dato per scontato”. “Era lapalissiano negli ambienti cittadini che una delle fonti di ispirazione della tesi secondo cui Falcone era dietro al ritorno dei pentiti insieme a de Gennaro a Palermo era l’ufficio del dottore Contrada - ha continuato Lodato -. E la cosa le posso assicurare che non destava stupore: si sapeva che c’erano due schieramenti dell’antimafia”.

E quando Repici chiese a Lodato se “il riferimento di Buscetta e Contorno avviene prima della lettera del corvo?” il giornalista ha risposto: “Si perché già lui (Falcone, ndr) in quel momento viene accusato, non pubblicamente ma in maniera trasversale, di aver favorito questo rientro che poi diventerà materia della ‘lettera del corvo’”.

Curioso l’aneddoto riesumato da Lodato in merito a Contorno quando intervistò Arnaldo La Barbera, il quale disse: “‘Abbiamo arrestato Contorno. Era sorpreso di vedere me e io ero sorpreso di vedere lui’. Una frase alquanto enigmatica visto che lo stavano andando ad arrestare”. Così come merita attenzione ciò che La Barbera disse a Saverio Lodato una volta giunto a Palermo: “Sono venuto a combattere gli intoccabili, anche quelli dell’antimafia”. “Non ricordo di aver parlato di tale affermazione con Falcone - ha detto il nostro editorialista -, però feci riferimento a La Barbera di Falcone. Gli chiesi: ‘Ma lei si riferisce al dottore Falcone?’ E lui mi rispose: ‘Tutti gli intoccabili’”. Lodato infine ha voluto ricordare come “in quell’estate del 1988” lui e il collega Bolzoni avevano avuto “una vicenda giudiziaria” e quando fecero “un’intervista al dottor Paolo Borsellino, pochi mesi dopo quelle vicende, il capo dell’ufficio istruzioni di allora Antonino Meli attaccò pubblicamente Borsellino dicendo: ‘Io a differenza di Borsellino non avrei mai fatto un’intervista con due pregiudicati’”.


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Un momento della deposizione dell'ex questore, Guido Longo


Guido Longo e il duplice omicidio Agostino

Guardando alle indagini che furono sviluppate nell’immediatezza del delitto è noto che la Squadra mobile di Palermo, allora guidata da Arnaldo La Barbera, puntò le proprie attenzioni sulla motivazione passionale.

Sul punto oggi è stato sentito Guido Longo, ex questore di Palermo e al tempo vicedirigente della Squadra Mobile, che si recò sul luogo del delitto in quel 5 agosto 1989. “Io non ho mai creduto alla pista passionale - ha detto di fronte alla Corte d’Assise -. Questo anche per le modalità efferate del duplice delitto che era per me un omicidio di mafia per tecniche e modalità di esecuzione. Era stata uccisa anche la moglie, e poi c’era la moto che era stata bruciata e dalle indagini emergeva essere stata notata nei giorni precedenti in quelle zone. Erano tutte modalità mafiose”.

Quelle perplessità, a detta dell’ex questore, furono anche manifestate ad Arnaldo La Barbera, ma senza suscitare particolari effetti. Sollecitato anche dalle contestazioni dei pm De Giglio e Gozzo, Longo ha anche ricordato che già nell’immediatezza, quando si trovava in visita all’obitorio, si iniziò a parlare della pista passionale e di una ex fidanzata.

Nel corso dell’esame Longo ha anche parlato delle indagini sul fallito attentato all’Addaura che lo videro protagonista nel momento in cui si occupò degli accertamenti sull’ordigno (“Era stato utilizzato un congegno a bilancino, azionato con dei telecomandi tipo quelli degli aerei di modellismo. In quell’occasione si sarebbe fatto azionare tutto il contenuto della scatola metallica contenente candelotti di dinamite. Fu dunque appurato che l’ordigno avrebbe potuto esplodere”). Quindi il prefetto ha confermato i contenuti del rapporto, a sua firma, del 15 luglio 1989, in cui si fa riferimento a informazioni confidenziali su una particolare articolazione mafiosa del territorio, del gruppo dell’Arenella con riferimento, tra gli altri, anche a Gaetano Scotto, oggi imputato.

Dagli accertamenti della Procura generale e a seguito dell’interrogatorio davanti ai magistrati nel febbraio 2017 fu lo stesso Longo a recuperare una nota riservata interna del 12 luglio 1989 proveniente dall’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, in cui si parlava proprio di quegli elementi. “C’era questo, ma non escludo che vi fossero anche altri fonti confidenziali per giungere al rapporto - ha ricordato Longo -. A carico dello Scotto c’era il fatto di ubicazione di una villa in sua disponibilità vicino al luogo dell’attentato e il fatto che fu visto pranzare in compagnia di due personaggi, proprio il 21 giugno, sconosciuti dei quali uno aveva una quarantina di anni. E poi anche la sua disponibilità di un natante in un ormeggio vicino alla villa di Falcone. Queste cose le apprendemmo nel rapporto dell’Alto Commissario”. Rispondendo alle domande del legale della famiglia Agostino, Fabio Repici, Longo ha anche ricordato l’arrivo di un poliziotto da Pescara, Guido Paolilli (ieri condannato a risarcire la famiglia Agostino), che fu aggregato alle indagini. “La cosa mi parve strana - ha detto in aula - la decisione di aggregarlo fu presa dal dirigente della Squadra mobile. La Barbera diceva che era uno bravo e che poteva dare una mano. Alle mie indagini non è stato di ausilio perché lui non lavorava con me”. Rispetto alle perquisizioni domiciliari che furono effettuate presso la casa di Antonino Agostino, Longo ha dichiarato di non ricordare gli esiti di quella attività (“Se fossero emerse delle circostanze importanti per indagini mie lo avrebbero dovuto comunicare ed io ritenni che non avevano trovato nulla perché non comunicarono nulla”) né la circostanza di aver sequestrato alcuni documenti consegnati da Annunziata Agostino l’11 agosto 1989.





L’intricata vicenda di Emanuele Piazza
Successivamente a salire sul pretorio sono stati Giustino ed Andrea Piazza (padre e fratello di Emanuele, poliziotto, collaboratore del Sisde, scomparso a soli 29 anni il 16 marzo di 1990).

Quando fu sentito nel processo Capaci bis, nel 2015, Giustino Piazza dichiarò che suo figlio stava svolgendo degli accertamenti sulla scomparsa dell'agente Nino Agostino. I verbali di quell’udienza sono stati acquisiti così come altre testimonianze rese nei processi e durante le indagini.

In particolare, Andrea Piazza ha confermato il rapporto tra il fratello ed il capitano Grignani, definito il trait d’union per il rapporto con il Sisde. “So che aveva un rapporto con lui e che fu lui a dare a mio fratello la lista latitanti. C’era anche un’altra lista con i premi per l’attività investigativa”.

Rispondendo alle domande del sostituto Pg Domenico Gozzo, Andrea Piazza ha ricordato le indagini che furono fatte sull’omicidio. “Tra i documenti acquisiti e sottoposti a sequestro c’erano agende telefoniche e bigliettini da visita. In alcuni di questi c’era riportato il nome dell’impresa Onorato. Quando vi furono le indagini il dottore Falcone incaricò il dirigente della Mobile, Arnaldo La Barbera, di fare riferimento al personale di polizia che avevano avuto a che fare con Emanuele e di ascoltarli accuratamente. La Barbera, anziché sentirli, trasmise delle relazioni di servizio e in dibattimento si accertò persino che le stesse erano state concordate. Inoltre, vi fu la stranezza che nessuno chiamò Francesco Onorato, nonostante non fosse un incensurato (era reggente di Partanna Mondello) e vi fosse l’evidenza di quei bigliettini da visita”. Infine, sia Giustino che Andrea Piazza hanno anche riferito che Emanuele non stimava Gianni De Gennaro.

Le testimonianze complicate di De Blasi e Grignani
Successivamente è stata la volta di due testimonianze piuttosto complicate. La prima dell’ex poliziotto Vincenzo De Blasi, oggi detenuto, ed il funzionario dell’Aisi, Massimo Grignani. Durante la deposizione di quest’ultimo il processo si è celebrato a porte chiuse. Diversi i “non ricordo” detti durante la testimonianza. A suo dire Emanuele Piazza fu “attivato con il compito di riferire ciò che raccoglieva dalle frequentazioni abituali”. Ma tra le fonti che lo stesso Piazza gli avrebbe fatto non vi sarebbe stato Francesco Onorato, oggi collaboratore di giustizia. A poco sono valse le continue domande della Procura generale.


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Eppure, poco prima, anche De Blasi aveva raccontato che Emanuele Piazza aveva un rapporto diretto con l’ex boss di Partanna Mondello. “Con Emanuele eravamo come due fratelli - ha raccontato rivolgendosi alla Corte -. Lui era convinto di voler entrare nei Servizi e ci teneva moltissimo. Lui andava alla ricerca dei latitanti. Ed io una volta lo rimproverai perché aveva un metodo che non andava bene. Andava in giro a far vedere a tutti l’elenco dei latitanti. Io dicevo di non farla vedere quella lista. Avevo tanti confidenti a Palermo e qualcuno mi chiamava avvisandomi”.

De Blasi ha confermato che tra i contatti di Piazza vi era anche Onorato: “Io sapevo chi era. Una volta a Sferracavallo e mi dice di aspettare. Arriva Onorato con una Y di colore verde. Lui scende, me lo presenta e mi elogia come che io ero uno bravo nella ricerca dei latitanti. Io risposi che erano solo fesserie e che non mi interessavano i latitanti, ma mi interessava solo guadagnare la pagnotta onestamente. Quindi me ne andai. Per questo litigammo”. 

De Blasi ha poi dichiarato che Emanuele Piazza non conosceva Nino Agostino. Eppure in un’intercettazione telefonica registrata dagli inquirenti nel febbraio 2019, aveva dichiarato testualmente: “La mattina del funerale a San Lorenzo... eravamo io e Emanuele...e lui mi dice: ‘Enzo ma tu lo conoscevi questo?’ Ed io risposi ‘No completamente e mai a che fare’... e lui mi dice che era un grande lavoratore…Però Emanuele non lo conosceva…”. La contraddizione in termini è evidente. Come faceva a sapere che Agostino era un gran lavoratore, se non lo conosceva? Sul punto non è stato possibile andare oltre al solito “non ricordo” che spesso salva da situazioni scomode. Quegli stessi “non ricordo” che il teste Grignani ha utilizzato intervallandolo con metodiche impossibilità di riferire su “identità delle fonti del tempo” e “superiori gerarchici”.
Il processo è stato infine rinviato al prossimo 9 dicembre quando ad essere sentiti saranno i collaboratori di giustizia Drago, Giuffré, Palazzolo e Di Natale.

Foto e Video © Emanuele Di Stefano

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