Le nuove rotte del riciclaggio portano il marchio della “Regina D’Oriente”
Non sarebbe la prima volta che la ‘Ndrangheta “sfonda” una cortina di ferro targata con la falce e il martello. Già ben prima della caduta del muro di Berlino - 9 novembre 1989 - l’esercito faccendieristico ‘ndranghetista aveva investito enormi quantità di denaro nella Germania dell’Est, al tempo sotto l’U.R.S.S. riuscendo così a “lavare” i propri proventi illeciti. Oggi la storia sembra ripetersi, ma questa volta non c’è bisogno di sfondare nessun muro poiché le porte sono spalancate. Le Fiamme Gialle in questi giorni stanno cercando di trovare conferme in merito ad un possibile ruolo della ‘Ndrangheta nel circuito multimilionario di riciclaggio di denaro che lega l’Italia a Pechino. Ma andiamo per ordine.
La Guardia di Finanza - riporta L’Espresso - ha recentemente avviato una grande operazione sul riciclaggio di matrice cinese con l’obbiettivo di riportare in Patria l’enorme quantitativo di denaro contante nero prodotto in Italia. L’indagine ha permesso agli inquirenti di scoprire un flusso finanziario pari a 210mln di euro, un valore cinque volte superiore a tutto il denaro trasferito in Cina da tutta la comunità cinese.
Il punto di inizio di tutta la faccenda è partito da Padova, in corso Stati Uniti, accanto al grande centro commerciale cinese. Le Fiamme Gialle, nel loro rapporto di indagine che ha fatto scattare l’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Trieste, hanno descritto i movimenti di Stefano Cossarini, un imprenditore di Pordenone sospettato di aver costruito una rete per smaltire illecitamente scarti di metallo prodotti dalle fabbriche di Lombardia e Triveneto evadendo così milioni di euro tra Iva e imposte. “Stefano Cossarini - scrivono i finanzieri - si reca spesso in corso Stati Uniti a Padova, entra nel negozio ad insegna Pier Munì e ne esce con buste dalle quali si evince il recupero di qualcosa”. Quel “qualcosa”, come scoperto dai finanzieri con delle telecamere nascoste, era denaro contante. Il colonnello Stefano Commentucci ha commentato, sempre sul L’Espresso, che la scoperta è “la chiusura di un cerchio, perché avevamo trovato la filiera ma non riuscivamo a capire come facevano poi i soldi a tornare alla disponibilità degli imprenditori su cui stavamo indagando. Da qui abbiamo capito il meccanismo complesso che di fatto consentiva agli italiani di evadere le tasse e portare il frutto dell’evasione in banche cinesi e ai cinesi di far diventare di loro proprietà queste somme di denaro nelle banche del loro Paese in cambio di denaro contante” restituito poi “agli italiani per una cifra davvero elevata, probabilmente frutto del lavoro nero creato in Italia dalle aziende cinesi o di altre attività illecite”.
Il denaro quindi arrivava nelle banche in Cina, poi, una volta che i beneficiari ricevevano i proventi, i cinesi restituivano il denaro contante agli italiani. Il sospetto che il governo cinese sappia di questi giri illeciti si basa sul fatto che le somme di denaro non venivano depositate su banche comuni, ma sulle principali banche controllate in gran parte dallo Stato: Bank of China, con conti nelle sedi di Xiamen, Quanzhou, Hangzhou, Xinhua, The agricoltural Bank of China, China city bank, China construction bank corporation, China everbright bank e Industrial and a commercial bank of China.
Ma perché dunque la ’Ndrangheta? Secondo alcune conferme emerse dalle operazioni in corso si evince che i cinesi necessitano, per portare i soldi in Cina, di una categoria ben precisa di soggetti. Ossia chi ha bisogno di evadere oppure chi ha ingenti quantità di denaro contante da nascondere e/o riciclare. La mafia, soprattutto la ‘Ndrangheta, rientra perfettamente in questa categoria, per due motivi: poiché grazie al narcotraffico di cocaina dispone di grandi quantità di denaro liquido e perché dispone di contatti effettivi tra i suoi membri e gli esponenti del sistema di riciclo offerto dai cinesi.
Il meccanismo complesso dell’evasione
La cifra dei 210mln di euro è solo la punta dell’iceberg poiché questa cifra è stata quantificata in base alle risultanze di due operazioni distinte (ma legate da un fine comune) una fatta a Pordenone e l’altra a Portogruaro.
Il colonnello Commentucci ha dichiarato, riferendosi alle due operazioni, che “la gran parte delle aziende cinesi, nel settore manifatturiero e del commercio al dettaglio” è come se “avessero ricevuto un vademecum su come fare nero, evadendo le tasse e su come riportare questa enorme mole di denaro contante in Cina”.
Entrando nel merito dei fatti, gli investigatori hanno scoperto che centinaia di aziende della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna, per smaltire gli scarti metallici da produzione senza pagare le imposte e senza garantire il controllo dell’origine di tali scarti hanno venduto in nero 150mila tonnellate di vari metalli (rame, ottone, alluminio ecc..) a delle società - Metal Nordest, Femet ed Ecomet - create da tre imprenditori, il suddetto Stefano Cossarini, Roger Donati e Fabrizio Palombi. Successivamente le tre società facevano finta di acquistare la stessa quantità di materiale da tre società - la Kovi Trade, la Stell destribution e la Biotekne situate in Repubblica Ceca e Slovenia sempre intestate o controllate da loro - le quali ricevevano come pagamento soldi veri dai tre imprenditori. Per trasferire i soldi in Cina, le società balcaniche fittizie fingevano di comprare materiale in Cina ed inviavano nelle banche cinesi il relativo pagamento. I soldi una volta arrivati in Cina tornavano agli imprenditori sotto forma di contanti.
Ma il meccanismo non finisce qui. La Metal Nordest, Femet ed Ecomet acquistavano anche materiale ferroso in nero in Italia e per mascherarne la provenienza illecita fingevano di comprare dalle tre società balcaniche la stessa quantità di materiale ferroso già spedito in precedenza. Le aziende rilasciavano poi dei certificati di vendita apparentemente in regola. In questo modo il materiale ferroso poteva essere venduto alle grandi acciaierie del nord senza sospetto da parte degli acquirenti.
Inoltre la Guardia di Finanzia di Venezia guidata dal generale Giovanni Avitabile, aveva scoperto nel corso di un’operazione svoltasi qualche mese prima e coordinata dal colonnello Michele De Luca del gruppo di Portogruaro un meccanismo pressoché identico. Le fiamme gialle stavano facendo un approfondimento su un certo Fabio Gaiatto (un finto broker condannato in secondo grado a 10 anni per aver truffato diversi clienti attraverso una sua società finanziaria che prometteva guadagni fino al 10 per cento della somma investita) scoprendo durante una perquisizione in casa di un suo investitore di sessantaquattro anni degli hard disk. I tecnici della Guardia di Finanza, hanno spiegato gli inquirenti, sono riusciti a “recuperare tutti i file e trovano non solo i pagamenti a società cantiere in Bulgaria e Slovenia, sempre per finti smaltimenti di tornami di ferro e finti acquisti della Cina dello stesso materiale con bonifici che finivano questa volta in una banca di Shangai, ma anche le foto di questi bonifici inviate ad imprenditori cinesi”.
Gli investigatori seguendo le tracce sono arrivati sempre in corso Stati Uniti a Padova scoprendo che le somme verso la Cina in questo caso ammontavano a circa 60mln di euro.
“L’indagine ha mostrato che alcuni soggetti di nazionalità cinese oltre ad offrire questo servizio a imprenditori italiani che volevano evadere imposte e tasse per avere più risorse dai loro investimenti, riuscivano a far arrivare in Cina un enorme quantitativo di denaro contante, probabilmente anche frutto di nero e attività illecite bypassando completamente il sistema degli intermediari bancari e, con esso, i presidi antiriciclaggio” ha detto il generale Avitabile.
Il quadro che emerge dalle due operazioni è assai preoccupante. In una economia messa a dura prova dalla pandemia e dalla crisi, sempre più imprenditori si affidano a canali illeciti di guadagno, trovando in questo caso nel dragone cinese un valido e poliedrico alleato.
Le conferme possono essere anche trovate nei numeri: tra il 2008 e il 2020, solo nel Veneto sono state aperte dai cinesi 15 mila partite Iva e il 58 percento ha dichiarato zero euro mentre il 21 percento tra 5 mila e 3.600 euro di fatturato. Inoltre sono state tantissime le partite Iva che dopo due anni sono state chiuse. In Italia gli interventi ispettivi nei confronti delle ditte individuali cinesi negli ultimi anni sono state quasi 20 mila e hanno permesso agli inquirenti di scoprire una maggiore base imponibile ai fini delle imposte dirette pari a 7,3 miliardi di euro e un’Iva dovuta di oltre un miliardo. “Spesso i commercianti o le aziendine fanno anche scontrini e fatture, poi però non presentano la dichiarazione dei redditi e quindi creano un danno enorme all’erario”, fanno sapere dalla guardia di finanza che ha appena creato un osservatore sull’economia cinese nel suo comando generale dopo la scoperta della Via occulta della Seta. “Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà” aveva detto Napoleone Bonaparte, ma prima di lei ad essere sempre state deste sono state le grandi organizzazioni criminali che ora non si fanno di certo scrupoli a sfruttare i suoi canali e le sue risorse.
Fonte: L’Espresso
Artwork by Paolo Bassani
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