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Il neo pentito Cataldo conferma il progetto di morte. Tra il 2014 e il 2015 a Reggio Calabria la lunga scia di intimidazioni contro i pm

“Confermo, voglio collaborare con la giustizia”. Dopo aver fatto parziali ammissioni, scritto lettere ai magistrati, soffiato - fa capire - agli investigatori dove meglio piazzare le cimici, Antonio Cataldo ha deciso di pentirsi.
Un passo deciso qualche mese fa e formalizzato a giugno 2021, ma è nel corso dell’estate che Cataldo, elemento di vertice dell’omonimo clan con quasi 30 anni di detenzione alle spalle e un nuovo processo per mafia da affrontare, ha iniziato a parlare in dettaglio di tutto quello che sa. A partire da quel progetto di attentare alla vita del figlio dell’attuale procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, all’epoca papabile ministro della Giustizia, cui già in passato aveva accennato in missive poi rese pubbliche. “Specifico che non volevano spararlo - mette a verbale il neo pentito al pm di Reggio Calabria, Giovanni Calamita -  ma che lo avrebbero investito con una macchina". Il ragazzo, che all’epoca girava in moto, per loro sarebbe stato un obiettivo facile.
A parlargliene, Guido Brusaferri, “uno dei Cordì”. Un affiliato, spiega, che “gli badava i biliardi a Locri ed è il nipote dei Cordì, Cosimo, Antonio”. Per anni, nemici giurati dei Cataldo in quella faida iniziata nel 2005 con l’omicidio di Giuseppe, il fratello del neopentito. Una guerra in cui anche Brusaferri, dice, potrebbe aver avuto un ruolo. “È stato lui o la moglie ad indicare che mio zio Mimmo era nell’orto che stava facendo lavori e lo hanno sparato”. 
Sospetti e risentimenti da seppellire. Fra le due famiglie di Locri si è arrivati alla pace e tutto - questo è stato l’ordine - è passato in cavalleria. Anche se la diffidenza, spiega Antonio Cataldo, è rimasta. “Mi avevano invitato al pranzo di Natale in cella, ma io non sono andato” dice. Con Brusaferri però ci parlava. Più volte ha condiviso l’ora d’aria quando insieme erano detenuti nel carcere di Reggio Calabria.
“Il discorso dell’attentato è uscito - spiega Cataldo al pm Calamita che lo incalza - perché si stava facendo ministro della Giustizia Gratteri e c’era l’allarme delle persone detenute, in generale dei locresi, così è venuto il discorso”. Si temevano, aggiunge, “processi, leggi più ferree”. Una nomina poi saltata - ha denunciato più volte l’attuale procuratore capo di Catanzaro - nonostante il suo nome fosse già sulla lista dei ministri sottoposta all’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. 
Ma di certo i clan non hanno smesso di averlo nel mirino. Anzi, proprio nel 2014 contro di lui, come contro l’attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo arrivano nuove e più inquietanti minacce.
Di Gratteri si iniziava a parlare come procuratore di Catanzaro. Lombardo aveva in mano fascicoli delicatissimi, dal caso Scajola - all’epoca “fresco” di esecuzione - a ‘Ndrangheta stragista e Mammasantissima, su cui si lavorava nel più assoluto riserbo.
Proprio in quei mesi, iniziano ad arrivare inquietanti telefonate in Questura. Dieci in tutto, fra novembre 2014 e dicembre 2015. Quando poco dopo il misterioso telefonista è stato beccato, è stato bollato come mitomane ed in carcere è rimasto solo qualche settimana. Eppure nel corso delle ripetute chiamate sembrava perfettamente informato su luoghi di residenza, abitudini, spostamenti. Non ha detto come lo sapesse, né potrà più farlo. È stato trovato morto in casa circa un anno dopo, senza mai aver rivelato se - come in molti hanno sospetto - qualcuno lo abbia incaricato di fare quelle telefonate.
(Prima pubblicazione: 18 settembre 2021)

Foto originale © Imagoeconomica

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