di Aaron Pettinari
In questo pazzo Paese, dagli albori della Repubblica fondato sul mistero ed il segreto di Stato, la ricerca della verità è stata sempre osteggiata e bistrattata.
Pezzi mancanti, prove sparite e depistaggi, purtroppo, hanno accompagnato lo spartito fin qui scritto.
Per il momento non resta altro che raccogliere i frammenti, porsi domande e cercare di mettere in fila i pezzi. Il risultato che si ottiene è quello di una tela dai colori macabri che mostra le tinte più fosche di uno Stato silente, se non addirittura complice di fatti e misfatti.
C'è chi sostiene che per giungere alla verità serva un "pentito di Stato", ma quando in gioco c'è la vita o la morte ecco che le bocche vengono cucite in maniera quasi indelebile.
"Nella storia delle stragi ci sono 15 morti strane, tra omicidi e suicidi”.
E' questa una delle constatazioni dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, intervenuto questa estate alla conferenza da noi organizzata in occasione delle commemorazioni di via d'Amelio. Morti inspiegabili come quella del giovane urologo Attilio Manca o quella di Luigi Ilardo(boss reggente di Caltanissetta, infiltrato per conto dello Stato ed ucciso poco prima che venisse ufficializzata la sua collaborazione con la giustizia).
Morti come quella del boss di Altofonte, Antonino Gioè.
Era la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 quando venne ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali bollarono frettolosamente il fatto come un suicidio, ma oggi è evidente a tutti che dietro a quel decesso vi fosse molto altro.
Le prime indagini
Secondo gli inquirenti di allora con quel gesto il capomafia, che si trovava a Punta Raisi il giorno della strage di Capaci, si sarebbe tolto la vita prima che fosse la stessa Cosa nostra ad intervenire.
La sua "colpa" sarebbe stata nelle intercettazioni registrate dalla Dia nel covo di via Ughetti (la famosa palazzina in cui si era nascosto nei mesi successivi all'arresto di Riina assieme a Gioacchino La Barbera).
Lì sono stati registrati i dialoghi in cui si parla dell'“Attentatuni” di Capaci, di droga ed anche altri riferimenti su possibili attentati al Palazzo di Giustizia di Palermo o contro gli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Pianosa.
Tra le intercettazioni della Dia anche una conversazione in cui si fa riferimento al capomafia corleonese Leoluca Bagarella. “Ma 'stu Bagarella cu cazzu si senti? Oh, lo dico per scherzare, ah” disse al telefono.
Ma queste non sono prove schiaccianti sulla morte, e quei fatti non hanno mai convinto troppo.
Vi fu anche un'indagine giudiziaria a carico dei tre agenti penitenziari che furono indagati per istigazione al suicidio di Gioè. Nell'abitazione di uno di questi vi era stato il ritrovamento della copia della lettera di "commiato" presumibilmente scritta da Gioè e che fu rinvenuta sul tavolo della cella dopo la sua morte. I tre agenti vennero prosciolti da ogni accusa, il caso venne archiviato, ma rimasero i dubbi su quel decesso.
Nel 2013 i giornalisti Maurizio Torrealta ed Emanuele Lentini, su Left, ripartirono da quei faldoni di indagine per poi giungere ad una conclusione logica: è impossibile che Gioè si sia impiccato.
Basta analizzare le foto scattate in quella notte nella cella numero 3 della sezione B del reparto G7 di Rebibbia.
I segni della corda sul collo non vanno verso l'alto, come sarebbe lecito aspettarsi se si fosse appeso alla grata, ma verso il basso. Il che fa pensare più ad una corda tirata da qualcuno.
Il ritrovamento del corpo di Nino Gioè nella sua cella di detenzione
Ed anche l'autopsia, firmata da tre medici, forniva diversi elementi che andrebbero chiariti. Nella relazione che fu disposta dal pm 8 giorni dopo il decesso di Gioè, si rileva che il detenuto aveva due costole fratturate, la sesta e la settima, nella parte destra. In un altro passaggio, però, si legge che le costole rotte sarebbero quelle di sinistra. Possibile che sia solo distrazione? Ma la cosa più assurda è il dato che le fratture sarebbero state provocate da un massaggio cardiaco esterno. Non si può non evidenziare che la sesta e la settima costola siano le ultime della gabbia toracica mentre il massaggio cardiaco si esegue ben più in alto, ad altezza del plesso solare.
Nelle foto, inoltre, appaiono escoriazioni sulla fronte, a destra, ed una ecchimosi bluastra al sopracciglio sinistro, come se in quei punti fosse stato colpito. Senza considerare che il rachide cervicale era intatto, e ciò significa che il boss di Altofonte non è morto per la classica strattonata dell'impiccagione.
Ma ci sono anche altri aspetti che non tornano.
Basta rileggere i verbali con le ricostruzioni degli agenti su ciò che avvenne quella notte. Gioè si sarebbe ucciso con un rudimentale cappio fatto con i lacci delle scarpe da ginnastica, quindi si sarebbe appeso alla grata della finestra. Dalle immagini si evince che sotto la grata della finestra vi era un tavolo, il che, come evidenziarono i due colleghi, rende impossibile che il corpo sia rimasto sospeso proprio in quel punto.
"Se Nino Gioè si fosse davvero appeso alla grata con il viso rivolto verso la finestra, come viene raccontato dalle guardie penitenziarie, le sue gambe si sarebbero appoggiate sul tavolo, impedendo che il peso del corpo provocasse il soffocamento. Il tavolino, inoltre, nella foto risulta apparecchiato, con ancora l'insalata nel piatto, un bicchiere con un cucchiaio sporco, due bottiglie e una brocca. Su quel tavolo ci sono anche i tre fogli manoscritti di Gioè".
La lettera del mistero
In quella misteriosa lettera il detenuto cerca in ogni modo di allontanare i sospetti di rapporti tra la mafia, i suoi familiari e gli amici e nella sua introduzione presenta queste parole: "Stasera ho ritrovato la pace e la serenità che avevo perduto 17 anni fa. Perse queste due cose ero diventato un mostro e lo sono stato fino a quando ho preso la penna per scrivere queste due righe che spero solo che possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati che solo per mia mostruosità si troveranno coinvolti in vicende giudiziarie".
"In questo mio estremo momento - scriveva ancora - giuro che quello che sto scrivendo è la pura verità. Fra le tante cose che ho detto ci saranno ancora moltissime fandonie in questo momento non ricordo altre persone che ho infangato con le mie chiacchiere e infamie. Io rappresento la fine di tutto e penso che da domani, o a breve, i pentiti potranno tornarsene alle loro case certamente con molto più onore del mio, che non ho".
La lettera si conclude con il boss che chiede perdono "a mia madre e a Dio".
Secondo gli inquirenti della prima ora la "prova" della volontà di farla finita togliendosi la vita. Ma forse c'è dell'altro. Perché nella lettera vi sono diversi riferimenti al covo di via Ughetti a Palermo fino a nominare il boss calabrese Domenico Papalia e l'ex estremista nero Paolo Bellini, oggi sotto processo a Bologna per l'attentato del 2 agosto 1980 alla Stazione Centrale.
Quest'ultimo, addirittura, nella lettera viene definito come un infiltrato (“Dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato; mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo. L’ultima volta che ho incontrato quest’uomo è stato presso la cava Buttitta solo per pura fatalità me lo sono fatto portare in quel posto dove ero andato per cercare di convincere il sig. Gaetano Buttitta a comprare del lubrificante da me…”).
Il peso di Gioè in Cosa nostra
Certo è che Antonino Gioè era uno di quei soggetti che sapeva molte cose all'interno dell'organizzazione criminale. Un elemento chiave di raccordo, capace di mettere in relazione vari mondi.
Lo conferma il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo (oggi deceduto) che in passato aveva parlato di una serie di incontri avuti in Inghilterra, nel carcere di Full Sutton, con agenti dei Servizi di sicurezza, ai quali aveva indicato Nino Gioè (suo cugino, ndr) quale "persona che poteva essere loro utile".
Gioè è l'uomo che, appunto, gestiva il contatto con l'ex estremista nero, il quale si rese protagonista di una trattativa parallela tra Stato e mafia con la proposta di un occhio di riguardo verso alcuni boss in carcere in cambio del recupero di opere d'arte rubate.
I due si conobbero per la prima volta in carcere nel 1981 e caso vuole che i due si incontrassero nuovamente, così come raccontato da Bellini, proprio nel 1991 nelle zone di Enna.
Luoghi chiave nella storia delle stragi perché proprio in quell'anno e in quelle campagne, secondo le testimonianze di diversi collaboratori di giustizia, venne decisa la strategia stragista consultando mondi esterni a quello di Cosa Nostra.
Gioè era presente anche nella collina di Capaci, accanto a Giovanni Brusca. E' emerso nel corso dei processi sulla strage di Capaci che lo stesso utilizzasse un cellulare fantasma. Ovvero Gioè chiamava da un numero che risultava disattivato da mesi. A raccontare il dato è l'ex poliziotto ed ex consulente informatico, oggi avvocato, Gioacchino Genchi. Da quel cellulare il 23 maggio 1992, il giorno della strage, chiamò più volte un numero americano, del Minnesota. Alle 15.17, per 40 secondi; alle 15.38, per 23 secondi; alle 15.43, per 522 secondi. Chi rispondeva, dal Minnesota? E' una delle domande rimaste aperte.
Ma Nino Gioè era anche uno dei pochi boss che aveva un canale diretto con Totò Riina. Quindi conosceva diversi segreti su quella terribile stagione di bombe e sangue.
Strage di Capaci © Shobha
Il covo di via Ughetti. Punto di contatto Cosa nostra-Servizi
C'è anche un'altra singolare coincidenza che riguarda la storia di Gioè e la sua "vicinanza" ai servizi di sicurezza. Un filo che arriva proprio in via Ughetti, in quel covo dove fu arrestato. Un anno fa fu ritrovato un vecchio verbale dell'ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, che già nel 1997 rivelava che il costruttore di quello stabile, Antonino Seidita, successivamente tratto in arresto per associazione mafiosa, era anche in contatto con i servizi di sicurezza. Un verbale finito agli atti dell'inchiesta sull'assassinio del poliziotto Agostino.
Non solo. Nel dicembre 2016, al processo trattativa Stato-mafia, si tenne la deposizione di Salvatore Bonferraro, sostituto commissario di Polizia per anni in servizio presso il centro Dia di Palermo. Fu tra gli investigatori che si occupò delle indagini sulla strage di Capaci. In aula, di fronte alla Corte d'Assise, raccontò gli accertamenti svolti nel corso del tempo da cui emerse che, proprio nell'appartamento di fronte a quello in cui si trovavano Gioè e La Barbera, aveva trovato riparo Salvatore Benigno, uomo d'onore della famiglia di Misilmeri, condannato all'ergastolo in quanto responsabile per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Ad anni di distanza non appare come una coincidenza la presenza dei tre boss nello stesso stabile.
Sempre Bonferraro riferì di aver visto in quel palazzo anche la presenza di esponenti dei servizi segreti. “E' successo un fatto durante un cambio serale - raccontò nel 2016 - La sera del sedici marzo 1993 scesi in ascensore e quando si aprirono le porte del piano terra mi trovai due persone che erano del Sisde. Si trattava di Nunzio Purpura, funzionario del centro Sisde di Palermo (divenuto capo centro nel novembre 1997 fino al 2004, ndr), e Antonina Lemmo, anche lei appartenente al Sisde che diventò poi sua moglie. In merito a questo incontro feci anche una relazione di servizio il giorno successivo”. Ma non fu quello l'unico episodio “inconsueto”. “Parlando con un collega, descrivendo le fattezze del Purpura - ha aggiunto Bonferraro - mi disse di aver incontrato questa persona mentre facevano un servizio di osservazione su Giovanni Scaduto. Scaduto si incontrava giornalmente con Gioè e La Barbera ed è il genero di Salvatore Greco, detto il Senatore. Fa parte dello stesso gruppo di Gioè. Ebbene mentre loro osservavano lo Scaduto il Purpura li guardava. Addirittura si accorsero di essere seguiti durante un pedinamento”.
Morto che parla
Analizzando ogni passaggio è chiaro che quella di Gioè è una morte che parla ed è sempre più evidente che la tesi del suicidio va totalmente messa da parte.
Dopo il suo arresto il boss di Altofonte era stato inserito sotto il regime del 41 bis, ma gli fu immediatamente tolto dopo appena 24 ore. Come riportato da alcuni giornali dell'epoca dal suo arresto aveva avuto solo un colloquio con il proprio difensore di fiducia e tredici colloqui con i familiari, l'ultimo dei quali il 17 luglio.
Famiglia che nei giorni successivi alla morte avanzò i primi dubbi sulla morte di Gioè con tanto di sit-in dietro la cancellata del tribunale di Palermo per chiedere la salma del fratello.
In quell'occasione distribuirono persino dei volantini con un'interrogazione rivolta al ministro Conso da alcuni deputati federalisti per sapere se magistrati e investigatori avevano incontrato Gioè in carcere prima del "presunto" suicidio.
E in questi anni diversi collaboratori di giustizia si sono detti convinti che Gioè stesse addirittura collaborando con la giustizia.
“Mi trovavo presso il carcere di Rebibbia e passeggiavo all'esterno durante l'ora d'aria - aveva raccontato Mario Santo Di Matteo nel 2014, sentito nel processo Borsellino quater - da una finestra si affaccia Gioè. Mi sembrava un barbone per come era messo in viso. Gli chiesi come stava se faceva colloqui con la famiglia. Mi disse che stava bene che mangiava pesce spada e che tutti i giorni vedeva il fratello. In quel momento capii che stava combinando qualcosa e pensai che stesse collaborando. E all'indomani mattina mi portano all'Asinara. Lì dopo qualche giorno che si diffuse la notizia della morte vennero ad interrogarmi e mi dissero che Gioè aveva parlato di me nella lettera. Io sono sempre convinto che si sia ucciso perché aveva saltato il fosso”.
Anche l'ex mafioso Angelo Siino, nel processo d'appello per la strage di Capaci, disse al pm Tescaroli di aver saputo che era stato visto parlare "con agenti o carabinieri o organi dello Stato poco prima del suicidio in carcere".
Altri collaboratori dicono che poco prima quella sera stranamente è stata chiusa la porta che dava accesso al corridoio di Gioè e che molti capiranno che stava per accadere qualcosa di strano.
Ad alimentare il sospetto, in quella notte, il trasferimento, avvenuto alle ore 24.15, del detenuto Orazio Pino a Torino per assistere a un processo. Un orario assolutamente anomalo per una procedura simile, in grado di permettere l'entrata e l'uscita dal carcere di personale esterno.
Di tanti pentiti Francesco Di Carlo è sicuramente stato quello più convinto nel ritenere che il cugino sia stato "suicidato" proprio per quello che sapeva e avrebbe potuto dire.
L'intrigo La Barbera
Ma è possibile anche un'ipotesi ulteriore. Ovvero che Gioè avesse addirittura iniziato un percorso di collaborazione. E' il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera ad alimentare il sospetto nel 2015 quando, in un'intervista rilasciata alla collega Raffaella Fanelli, pubblicata su La Repubblica, aveva affermato: "Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".
Successivamente, sentito nel processo Capaci bis, aveva ridimensionato le proprie dichiarazioni: “Ho esagerato un po’ perché sicuramente ci sarà qualche verbale.. io non lo so però lì parlando con la giornalista ho esagerato nel dire che si sono fatti verbali. Io l’ho pensato e si pensava che lui stesse collaborando con la giustizia ma si parla di verbali tra virgolette, sono cose che penso io ma non sono a conoscenza diretta di verbali scritti”.
Nonostante le spiegazioni, però, è rimasta assolutamente aperta la domanda su quella frase espressa dal pentito in maniera non dubitativa sull'esistenza di verbali, poi fatti sparire, con l'allusione che gli stessi possano essere legati alla morte di Gioé.
D'Ambrosio dixit
La vicenda di Gioè è in qualche maniera entrata anche negli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia, non solo per la vicenda Bellini. Di lui parlò il magistrato Loris D’Ambrosio (deceduto, colpito improvvisamente da un ictus, il 26 luglio 2012 dopo essere stato sentito dai pm di Palermo). Il consigliere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nelle conversazioni intercettate con l'ex ministro Nicola Mancino, affermava: “Questa storia del suicidio di Gioè. Secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso... non è mica chiaro a me questa cosa”. Ai magistrati di Palermo spiegò: “A me quel suicidio non mi è mai suonato... Insomma che cosa in realtà è accaduto nelle carceri in quel periodo, questa è la vera domanda che mi pongo io al di là del 41 bis... insomma questo suicidio così strano... ecco mi... ha turbato, mi turbò nel ’93 e mi turba ancora”. Un turbamento interiore che aveva manifestato anche al Presidente della Repubblica Napolitano nella sua lettera di dimissioni (poi respinte) in cui scriveva “vivo il timore di essere stato considerato un umile scriba usato come scudo ad indicibili accordi”.
Il magistrato Gianfranco Donadio © Imagoeconomica
Le colonne d'ercole per la verità
Per comprendere ulteriormente l'importanza del caso Gioè vale la pena ricordare ciò che disse il magistrato Gianfranco Donadio il 29 novembre 2017 davanti la Commissione Parlamentare antimafia nel momento in cui affermò che i casi delle morti di Luigi Ilardo e Nino Gioé "sono i due pilastri che fissano un po’ le Colonne d'Ercole, i limiti della verità dicibile". In quell'audizione Donadio, facendo riferimento proprio a quell'intervista di La Barbera in cui si parlava del pentimento di Gioè, si poneva alcuni interrogativi: "Con chi parlò Gioè? Furono formati i verbali? Appunti di PG?".
Sul punto ha anche provato a darsi una risposta individuando nel rapporto della Dia a firma del dottor Micalizio, anche noto come Oceano, in cui veniva realizzata un'analisi accurata sullo stragismo negli anni 1992-1993. "Si tratta - spiegava Donadio - di un rapporto di analisi che percorre la strada dell'ibridazione di cosa nostra, che diventa un'organizzazione vicina ad ambienti della destra eversiva, che si interseca con strategie massoniche e leghiste (la Lega nazionalpopolare di cui vi ho parlato, che vuol dire Delle Chiaie) e con le strategie di alcuni ambienti massonici". E sarà quello il rapporto da cui trasse spunto la nota inchiesta sui "Sistemi criminali", condotta dalla Procura di Palermo.
Gioè contribuì dando informazioni? Possibile. Del resto anche il pentito Leonardo Messina al tempo aveva riferito delle riunioni di Enna e del contesto generale in cui maturarono le stragi.
E sempre Gioè avrebbe potuto confermare ciò che la Dia mise nero su bianco nella famosa nota del 10 agosto 1993, dove si informava l’allora ministro dell'Interno, Nicola Mancino, di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
E' quello il documento in cui per la prima volta compare il termine “trattativa”, utilizzato per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi. Erano passati pochi giorni dalle bombe di Roma e Milano, e si parlava di una strategia “per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”.
Quella via stretta
Negli ultimi anni i frammenti di verità raccolti ci hanno permesso di ricostruire diversi pezzi di storia. Il processo trattativa Stato-mafia, il processo Borsellino quater, il processo 'Ndrangheta stragista hanno dato in questo senso un notevole contributo e la speranza è che anche il processo sul Depistaggio di via d'Amelio e ancor di più quello sul delitto dei due coniugi Antonino Agostino e Ida Castelluccio, si possa continuare ad aggiungere pezzi. Magari partendo proprio dai "cold case" e dalle morti anomale di cui parlava Roberto Scarpinato. Le tracce ci sono ed anche se la via appare stretta è giusto percorrerla fino in fondo. A Firenze dal 2017 è stata riaperta l'inchiesta sui mandanti esterni delle stragi. E magari potrebbe anche essere utile riprendere in mano casi come la morte di Nino Gioè.
Lo scorso ottobre il pentito Pietro Riggio, che dal 2018 ha avviato una nuova fase della propria collaborazione con la giustizia raccontando una serie di circostanze sulla strage di Capaci, è stato sentito nel processo Stato-mafia.
Diciamo subito che l'attendibilità del collaboratore è tutta da dimostrare e sul punto vi sarebbero elementi contrastanti.
Certo è che su Gioè il Riggio ha affermato di aver appreso che la morte di Nino Gioè non è ascrivibile alla voce "suicidi". In quel tragico anno del 1993 Riggio si sarebbe trovato molte volte a Roma in quanto membro della Commissione paritetica per i trasferimenti presso il ministero della Giustizia. Ed è in quella veste che sarebbe venuto a conoscenza di una serie di azioni effettuate all'interno delle carceri. "C'era un modus operandi a dir poco barbaro - ha dichiarato di fronte alla Corte d'Assise d'Appello - i detenuti venivano picchiati sistematicamente con metodi quasi nazisti. Io lo so che la polizia penitenziaria aveva delle direttive ben precise e so che lo Stato copriva in quel momento la polizia penitenziaria qualsiasi cosa fosse accaduta. A Roma ho avuto modo da raccogliere le lamentele dei colleghi di Rebibbia e di quelli che avevano avuto a che fare con questo. Una sera parlando con un mio collega, Gianfranco Di Modugno, un pari corso mio, parlai anche della morte di Gioè. Tutti sapevano che non si era suicidato. Mi racconta Di Modugno che Gioè, il giorno in cui decise di voler collaborare, aveva fatto una lettera. Non la lettera che fu ritrovata, ma un'altra ben precisa in cui accusava e faceva dei nomi; dove parlava di stragi e dei contatti con servizi segreti con cui lui aveva avuto a che fare".
In quell'udienza del 26 ottobre il pentito disse anche dell'esistenza di una vera e propria squadra di agenti "persone fidate, in mimetica, che arrivano all'interno delle sezioni, si prendono le chiavi e mandano tutti fuori. I miei ex colleghi devono avere il coraggio di dire che sono stati mandati via e sono entrate altre persone e si sono appropriate della sezione. Devono avere la dignità di parlare, perché è il momento di poter parlare. Loro sono stati esautorati e nessuno sa cosa è successo là dentro". E sempre rivolgendosi alla Corte ha anche raccontato l'esistenza del cosiddetto metodo 'della scala'. "In poche parole - ha spiegato - per far parlare un detenuto o minacciarlo, loro mettevano una corda al collo del detenuto e tiravano dal basso verso l'alto e non il contrario, come si può pensare quando il detenuto si impicca e va dall'alto verso il basso. E per non legargli le mani e lasciargli dei segni, usavano dare dei pugni nel costato in modo che il detenuto, o chi si trovava in quei frangenti, non potesse tenersi per divincolarsi nella corda, perché tendeva a pararsi nel costato mentre loro tiravano con la corda".
La Procura di Roma ha interesse a riaprire il fascicolo? E' facile pensare che il verbale di udienza, per competenza, sia stato trasmesso dalla Procura di Palermo o che, quantomeno, di questo si stia parlando alla Procura nazionale antimafia che da tempo è tornata ad occuparsi, con un pool specifico, di tutte le stragi e di delitti eccellenti.
La morte di Gioè si inserisce in questo contesto.
Il perché lo ha spiegato ancora una volta Scarpinato, nel suo intervento lo scorso luglio: "La cosa che fa riflettere è la continuità nel tempo di questo potere malato e omicida che prima utilizzò le stragi di Capaci e via d’Amelio per condizionare i nuovi assetti di potere dopo la fine della prima Repubblica e poi intervenne sistematicamente per impedire che potessero venire alla luce in sede giudiziaria le verità destabilizzanti per i nuovi soggetti politici che si celavano dietro la strage di via d’Amelio e le altre stragi”. Si tratta di un potere “capace di intervenire tempestivamente, occultamente, chirurgicamente una volta che la maglia dell’impunità rischiava di sfilarsi in qualche punto aprendo una breccia attraverso la quale la luce della verità poteva illuminare il volto dei mandanti esterni”.
Ed è per questo motivo che figure come Nino Gioè e Luigi Ilardo andavano fermate.
Le loro morti, secondo Scarpinato, "sono stati una lectio magistralis, un’esibizione straordinaria di potere che ha chiuso e tappato le bocche. Biondino, Bagarella, Graviano, Madonia, tutti in carcere, sanno che c’è un potere che è in grado di entrare nelle carceri e di ucciderli. Sanno che se hanno dei figli un pirata della strada potrebbe investirli".
Colpirne uno (o in questo caso bisognerebbe dire pochi) per educarne cento.
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