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di Aaron Pettinari

Depositate le motivazioni della sentenza di Cassazione contro gli esecutori e mandanti interni di Cosa nostra

Una cosa è certa quando Gino Ilardo fu ucciso il 10 maggio 1996 lo Stato perse una delle voci più dirompenti, dopo Buscetta, all'interno di Cosa nostra. Una figura che avrebbe davvero potuto scardinare un intero sistema di potere.
Per il delitto lo scorso novembre la Corte di Cassazione ha condannato all'ergastolo i boss Giuseppe Madonia, il boss catanese Vincenzo Santapaola (figlio di Salvatore, ndr), in qualità di mandanti, Maurizio Zuccaro come organizzatore, ed a Orazio Benedetto Cocimano, come esecutore materiale. L'accusa, per l'appunto, era quella di concorso in omicidio pluriaggravato dalla premeditazione, dai motivi abietti e dalla finalità di agevolare Cosa Nostra. Nei giorni scorsi sono state depositate le motivazioni della sentenza con i motivi per cui sono stari respinti i ricorsi presentati dagli imputati.
E nelle pieghe della sentenza vengono ripercorsi alcuni fatti, tra cui l'esistenza di un depistaggio "interno" a Cosa nostra per non rendere evidenti i reali motivi dietro ai quali si rendeva necessaria l'eliminazione di quello che al tempo era vice capo mandamento a Caltanissetta, nonché cugino di Giuseppe “Piddu” Madonia.
Ricordano gli Ermellini che quanto ricostruito "nelle due decisioni di merito ha consentito di ritenere congruamente dimostrata la scelta di Ilardo Luigi di offrire collaborazione - informale - agli apparati investigativi (in una fase caratterizzata da estrema vitalità dell'organizzazione mafiosa), con capacità di raggiungere obiettivi di particolare rilievo (l'arresto di alcuni esponenti mafiosi già avvenuto) e favorire la individuazione del nascondiglio dell'allora latitante Bernardo Provenzano (si veda la rievocazione dei contenuti della deposizione del col. Riccio)". "In simile quadro - si legge -, pur non essendo stata dimostrata la modalità specifica della 'diffusione' della notizia circa la 'vicinanza' dell'Ilardo ad esponenti delle forze dell'ordine, risulta del tutto congruo affermare che le fonti dichiarative che hanno introdotto conoscenze specifiche circa la volontà dei vertici del gruppo Madonia di 'posare' Ilardo (dichiarazioni del Di Raimondo e del Vara), in epoca prossima all'agguato, inquadrano la volontà di sopprimere il soggetto divenuto scomodo e fonte di 'pericolo' per l'intera organizzazione mafiosa".
Secondo la Corte è necessario avere una "visione complessiva dell'episodio" per cui si può ritenere "pienamente logica e congruamente dimostrata - in sede di merito - la tesi per cui Ilardo 'doveva' essere eliminato in quanto confidente delle forze dell'ordine, con mandato proveniente da Giuseppe Madonia e veicolato tramite Santapaola Vincenzo".

Il contributo di Ilardo
I giudici di Cassazione ricostruiscono il contributo offerto da Ilardo e nero su bianco sottolineano come "le informazioni fornite in via confidenziale da Ilardo, che nel frattempo continuava in larga misura a gestire le vicende associative di sua competenza, al col. Riccio hanno consentito di procedere all'arresto di taluni latitanti di rilievo della organizzazione mafiosa e di avviare una complessa indagine sulle famiglie di Caltanissetta e Gela, poi sfociate in un processo celebratosi dopo la morte di Ilardo".
Non solo. "Durante tale periodo di informale collaborazione Ilardo aveva altresì fornito al col.Riccio notizie di estrema rilevanza circa la latitanza di Bernardo Provenzano, soggetto con cui Ilardo intratteneva rapporti epistolari e, in una occasione (nell'autunno del 1995) personali diretti". E poi ancora: "La mancata attivazione - all'epoca - di un idoneo servizio di polizia giudiziaria teso alla cattura di Provenzano Bernardo, da parte dei superiori del col. Riccio, in occasione dell'incontro tra il confidente Ilardo e il noto latitante è stata oggetto di un giudizio penale conclusosi, peraltro, con l'assoluzione dei soggetti tratti a giudizio (essenzialmente per assenza di prova sulla finalità di agevolazione del latitante da parte degli imputati, ma con conferma del dato storico rappresentato dall'incontro tra l'ardo e Provenzano). Sta di fatto che la scelta dell'Ilardo - in prossimità della sua eliminazione fisica - era quella di ufficializzare la propria collaborazione con l'autorità giudiziaria, tanto che otto giorni prima del suo omicidio si era tenuto un incontro a ciò finalizzato, cui avevano preso parte i vertici delle Procure di Palermo e di Caltanissetta".

Il depistaggio interno a Cosa nostra
I giudici evidenziano le tragedie messe in atto all'interno dell'organizzazione criminale per non rendere noti a tutti le reali motivazioni di quel delitto.
“È apparso “pienamente verosimile – scrivono gli ermellini – che la reale motivazione della decisione di uccidere Ilardo fosse la intervenuta consapevolezza – in capo al Madonia ed ai suoi più stretti accoliti – della attività di confidente da Ilardo posta in essere ma tale ragione, come spesso è avvenuto nei contesti mafiosi, non venne in quel momento disvelata e si preferì ‘addossare’ ad Ilardo la responsabilità dell’omicidio Famà , sì da determinare la sicura adesione – asseriscono i giudici della Suprema Corte – dei Santapaola al progetto omicidiario”.
Si evidenzia in un altro passaggio come "anche la introduzione del movente 'posticcio', rappresentato dal coinvolgimento dell'Ilardo nell'omicidio dell'avvocato Famà (ucciso nel 1995, ndr) non è estranea alle logiche operative del consorzio mafioso - come ritenuto in sede di merito -, rappresentando una proiezione di stili comportamentali ispirati alla regola dell'omertà interna, per cui notizie particolarmente riservate (come l'esistenza di una collaborazione occulta tra l'ardo e gli apparati investigativi) potevano essere appannaggio di pochi soggetti di vertice, con dissimulazione delle reali ragioni ispiratrici della deliberazione omicidiari".

Le altre responsabilità
Certo è che la sentenza definitiva di questo processo mette un primo punto, ma contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, è tutt'altro che esclusa la possibilità che elementi esterni a Cosa nostra posano aver avuto interessi, o anche aver avuto responsabilità ulteriori, per la morte di Ilardo.
Il perché è presto detto. Scrivono i giudici di Cassazione, che non fanno considerazioni di merito, la seguente affermazione: "Ciò che rileva, come si è detto esaminando la posizione del mandante primario Madonia, è infatti - sul piano processuale - l'esistenza e la convergenza di plurimi dati probatori che hanno consentito la ricostruzione complessiva della compartecipazione al fatto degli attuali imputati, esponenti della associazione cosa nostra, nei termini già illustrati. Non può parlarsi, dunque, di incompletezza della cognizione, in virtù del fatto che dalla attività istruttoria non sono emerse - in concreto - ipotesi alternative di ascrivibilità della condotta a soggetti diversi. La possibile esistenza di altri soggetti interessati ad evitare il consolidamento della attività collaborativa di Ilardo Luigi non si pone, sul piano logico, come fattore idoneo a ridimensionare il valore dimostrativo delle fonti raccolte nel giudizio, dotate di quei caratteri di specificità, autonomia e convergenza che consentono di ritenere validamente espresso il giudizio di responsabilità".
Ciò significa che comunque i soggetti che sono stati condannati hanno comunque avuto una responsabilità sulla decisione e sull'esecuzione del delitto. Ma i misteri restano così come le domande: come fecero i boss di Cosa nostra a sapere che Gino Ilardo fosse un confidente del Ros? Qualcuno tradì Ilardo? E perché?
Una delle poche certezze nel caso Ilardo è che vi sia stata una forte accelerazione dell’ordine di morte. E collaboratori di giustizia di primissimo piano come Giovanni Brusca e Antonino Giuffré hanno riferito di "soffiate" che sarebbero giunte a Cosa nostra proprio sulla seconda identità di Luigi Ilardo. Addirittura l'ex boss di Caccamo parlò di una fuga di notizie interna ad ambienti giudiziari di Caltanissetta. Anche il colonnello Michele Riccio riferì un dato simile dopo alcuni colloqui avuti con un altro ufficiale dell'Arma: "Il giorno in cui Ilardo fu ucciso ci eravamo incontrati nella sua azienda agricola di Lentini. Nel pomeriggio mi accompagnò in aeroporto e mi salutò dicendomi che la sera sarebbe andato a cena con la moglie. Poco dopo mi raggiunse il capitano Damiano dei Ros. Era cadaverico, mi disse che il procuratore di Caltanissetta Tinebra aveva fatto trapelare la voce della collaborazione di Ilardo. Istintivamente accesi il registratore che tenevo in tasca e registrai tutto".
E' da questi elementi che si deve ripartire anche perché la storia di Ilardo non è quella di un mafioso qualunque.
Come ricordato di recente dal consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo "Ilardo era un personaggio che sarebbe stato in grado e aveva già detto di voler riferire su rapporti tra mafia e ‘Ndrangheta da una parte, e dei rapporti tra esponenti della massoneria e l’eversione di destra dall’altra. Questo è il target della collaborazione che sarebbe iniziata. Una bomba ad orologeria che è stata disinnescata il 10 maggio 1996 a Catania". Motivi per cui non è possibile archiviare definitivamente quell’omicidio all'interno di una visione minimalista, di un semplice omicidio di mafia.
Visti i recenti spunti investigativi che provengono dalle Procure di Palermo e Firenze, che hanno raccolto le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Riggio è facile pensare che anche a Catania il fascicolo sui “mandanti occolti” che era stato aperto a Catania parallelamente all’inchiesta mafiosa, possa essere stato nuovamente aperto.

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