di Aaron Pettinari
Tra testimonianza e memoriali nella sentenza 'Ndrangheta stragista l'analisi sulle dichiarazioni del boss di Brancaccio
“Considerato il ruolo di assoluto spessore rivestito all’interno di Cosa Nostra, i legami intessuti per sua stessa ammissione con esponenti politici di rilievo, i contatti intrattenuti con esponenti di vertice delle altre organizzazioni criminali, deve certamente ritenersi che l’imputato potrebbe fornire un contributo rilevante per fare piena luce, oltre che sui fatti per cui è sotto processo, anche su altri gravi episodi criminosi che hanno insanguinato il nostro Paese all’inizio degli anni ’90, tra cui la strage di via d’Amelio”. A scriverlo è la Presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria, Ornella Pastore, nelle motivazioni della sentenza 'Ndrangheta stragista, il processo che lo scorso luglio ha visto la condanna all'ergastolo del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e quello di Melicucco, Rocco Santo Filippone, per essere stati i mandanti degli attentati ai carabinieri avvenuti in Calabria tra la fine del 1993 ed i primi mesi del 1994. Fatti che vanno inseriti in quel disegno di attacco allo Stato che ha visto Cosa nostra e 'Ndrangheta unite in un unico progetto con i Graviano inseriti tra i protagonisti.
“Il Graviano - spiegano i giudici - in virtù del ruolo di spessore rivestito all’interno di Cosa Nostra, delle sue indubbie capacità criminali e della sua spiccata intelligenza, unite alle sue notevoli disponibilità economiche, è stato poi uno dei principali protagonisti di quella triste fase che ha portato alla eliminazione, non solo di magistrati, ma anche di persone innocenti, tra cui bambini, con l’obiettivo in questo ultimo caso di seminare il terrore e di piegare lo Stato, il tutto nella speranza per Cosa Nostra di poterne ottenere un tornaconto”.
Straparole
In questi ultimi anni, Giuseppe Graviano tra dialoghi in carcere, dichiarazioni spontanee, testimonianze e memoriali, ha “parlato” e “straparlato”, mescolando “vero” e “falso”, ma vi sono alcune circostanze che, come hanno scritto i giudici reggini “meritano certamente di essere valutate ed approfondite nelle sedi competenti nella speranza che possano giovare finalmente a fare completa chiarezza su avvenimenti che hanno segnato e continuano tuttora a segnare la storia dell’Italia”.
Certo va sempre tenuto a mente che il boss di Brancaccio, condannato assieme al fratello Filippo per le stragi del '92-'93 e per l'omicidio di don Pino Puglisi ed ora anche per gli omicidi ai carabinieri, non è un collaboratore di giustizia.
Le conversazioni in carcere tra Giuseppe Graviano e Umberto Adinolfi
Nel processo calabrese si è discusso molto delle conversazioni intercettate presso il carcere di Ascoli Piceno intercorse tra il capomafia siciliano e la “dama di compagnia” Umberto Adinolfi. Basti pensare che lo stesso Graviano aveva subordinato la possibilità a sottoporsi all'esame solo dopo l'ascolto di tutti i file audio oggetto delle perizie e alla lettura delle relative trascrizioni. Un vero e proprio “balletto” con la Corte che si è trovata costretta a sollecitare ripetutamente la Casa circondariale di Terni affinché mettesse a disposizione dello stesso l'apparecchiatura necessaria. Del resto, come aveva ribadito il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che rappresentava l'accusa nel processo, vi erano delle “contestazioni puntuali da fare” rispetto ad alcuni punti specifici in cui si parlava del “ruolo degli imprenditori del nord e le richieste sulla prosecuzione delle stragi".
Riferimenti che, è emerso sia nel corso delle intercettazioni che durante la testimonianza innanzi alla Corte, portavano dritti ad un possibile ruolo dell'ex premier Silvio Berlusconi. Proprio nella registrazione del 10 aprile 2016 si parla della "cortesia" che il leader di Forza Italia avrebbe chiesto.
Una deposizione del pentito Gaspare Spatuzza
Ma quale Bolivia
Su quei dialoghi tra Graviano e Adinolfi, intercettati tra il gennaio 2016 ed il marzo 2017, i due detenuti hanno affrontato argomenti di vario genere, anche di carattere molto personale, quale quello riguardante il concepimento del figlio durante la detenzione. Così come era avvenuto nel processo Stato-mafia anche in questo processo non sono mancate alcune discussioni su presunte “discrasie” tra parlato e le trascrizioni. Al centro della polemica non vi è stata quella su “Berlusca”, ma una in cui Graviano, Giuseppe Aloisio, il capomafia palermitano “avrebbe affermato che sarebbe stato possibile avere il paese nelle mani (“aviamo... ogni (inc.) acchiappatu un paise ri chissu ‘nte i mano! Ahhhh...!)”. Secondo l'avvocato in questa conversazione “sarebbe stato fatto riferimento alla Bolivia, paese in cui l’Adinolfi aveva svolto in precedenza la propria attività, riferimento invece totalmente omesso dal perito”. Al riguardo la Corte scrive di aver ascoltato in camera di consiglio la conversazione e di non aver colto alcun riferimento alla Bolivia. “Peraltro - aggiungono i giudici - appare significativo il fatto che il Graviano nel corso dell’incontro avuto presso il bar Doney con lo Spatuzza avesse riferito a quest’ultimo di avere 'Il paese nelle mani', facendo riferimento a Berlusconi e Dell’Utri e ciò induce a ritenere che anche nella suddetta conversazione egli non intendesse certamente alludere alla Bolivia, non essendo agevole comprendere il motivo per il quale l’imputato nel suddetto colloquio avrebbe dovuto menzionare proprio il paese sudamericano”.
Quale attendibilità?
Secondo la giudice Pastore, rispetto alla genuinità del contenuto delle conversazioni “non appare possibile formulare un giudizio di totale attendibilità, atteso che con riferimento a taluni argomenti trattati dal Graviano, quale ad esempio quello riguardante il concepimento in carcere del figlio che, a dire dell’imputato, sarebbe avvenuto durante un momento di distrazione del personale incaricato dei controlli, non può affermarsene la veridicità”. “In ogni caso - si legge nel documento - trattasi di materiale di estrema rilevanza in quanto dalla viva voce del Graviano si apprendono delle circostanze fondamentali e cioè l’esigenza che venisse rivisto il regime di cui all’art. 41 bis, unitamente alle norme che riguardavano i collaboratori di giustizia, le aspettative che il Graviano in un dato momento aveva nutrito tanto da fargli dire, come si vedrà meglio di seguito 'abbiamo il Paese nelle mani', essendo lo stesso convinto che sarebbero arrivati dei benefici a tutte le organizzazioni criminali, e la rabbia del Graviano nel momento in cui comprende dopo il suo arresto che tutte le sue aspettative erano andate deluse”.
Rispondendo alle domande di pm ed avvocati Graviano ha raccontato dei rapporti che la sua famiglia avrebbe avuto con l'allora imprenditore Silvio Berlusconi, sugli incontri che avrebbe avuto con quest'ultimo mentre era latitante, sugli strali contro il 41 bis. Resta scolpito il "per il momento non lo ricordo" alla domanda dell'avvocato Ingroia se Berlusconi fosse il mandante delle stragi, così come l'accenno all'ex senatore Marcello Dell'Utri (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) come soggetto "tradito" e "danneggiato" dall'ex Premier.
E rispetto a quelle sue propalazioni, interrotte improvvisamente, ha evidenziato come il boss di Brancaccio ha contestato le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, soprattutto di Gaspare Spatuzza, escludendo categoricamente di aver incontrato quest'ultimo a Roma presso il bar Doney. “Ciò che comunque emerge - scrivono ancora i giudici della Corte d'Assise - è che il Graviano non ha esitato nel corso dell’esame a fare riferimento ad esponenti politici, a differenza di quanto avvenuto in passato, quando, sentito ad esempio a Firenze nel processo a carico di Francesco Tagliavia, aveva preferito avvalersi della facoltà di non rispondere nel momento in cui gli erano state poste domande su Marcello Dell’Utri, su eventuali investimenti effettuati nel gruppo Fininvest e sul movimento denominato “Sicilia Libera”, motivando tale sua scelta con l’assunto che non era sua intenzione parlare di politica scelta che a dire della Corte poteva anche essere intesa '... come una sorta di segnale obliquo lanciato all’esterno'”.
Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica
L'arresto inaspettato
Nella memoria, depositata agli atti, per quanto attiene l’arresto avvenuto a Milano nel gennaio 1994, l’imputato lo definisce come “singolare e inaspettato”, Graviano rileva che esso deve essere attribuito a Contorno e Berlusconi. La Corte reggina, da parte sua, ricorda le deposizioni degli investigatori del tempo, Brancadoro e Minicucci, che non hanno indicato la fonte confidenziale utilizzata per pervenire all’arresto dei Graviano. “In ogni caso - aggiunge - le circostanze riferite dal Graviano non si evincono in alcun modo dagli atti né sono emersi elementi in tal senso dalle dichiarazioni dello Spataro”. E poi ancora ricorda: “Per quanto attiene invece il coinvolgimento nell’arresto con un ruolo strategico di Silvio Berlusconi il quale avrebbe sempre avuto 'un rapporto stretto e privilegiato con il gruppo Contorno, Bontade e soci' l’imputato ribadisce che dall’ascolto delle conversazioni è possibile comprendere la vera natura del rapporto che lo lega al predetto, il quale, grazie alle manovre messe in atto da 'qualcuno' o più di 'qualcuno', avrebbe guadagnato 'alla fine degli anni '60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20% degli investimenti fatti negli anni dallo stesso'. Con riferimento ai presunti rapporti di natura economica con Silvio Berlusconi riferiti dall’imputato va sottolineato che essi risultano totalmente indimostrati essendo sul punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”.
Nelle sue dichiarazioni Graviano ha parlato anche di molto altro, dalla morte del poliziotto Agostino alla sparizione dell'Agenda Rossa (addirittura avanzando ipotesi piuttosto inverosimili se non addirittura depistanti, ndr), ma la Corte non si è espressa su questi punti, competenza di altre Procure, per cui è stata disposta la trasmissione degli atti per le dovute valutazioni.
Riguardo alla tempistica dell’attentato ai Carabinieri del 18 gennaio 1994 e di quello fallito allo stadio Olimpico la Corte sottolinea come sia emerso il dato che "nel medesimo contesto temporale poco distante rispetto al bar Doney" fossero in corso delle riunioni che avrebbero portato di lì a poco alla ufficializzazione della nuova formazione politica Forza Italia, il cui fondatore Silvio Berlusconi viene spesso evocato dal Graviano nel corso delle conversazioni con Umberto Adinolfi, unitamente ad uno dei maggiori esponenti, Marcello Dell’Utri, soggetto risultato contiguo a Cosa Nostra.
A tal proposito va sottolineato come nel corso del presente dibattimento lo stesso Graviano ha fatto chiaramente intendere di avere intrattenuto rapporti con i predetti esponenti politici e di avere nutrito delle speranze per il fatto che erano arrivati al governo nuovi partiti da cui si aspettavano delle modifiche legislative favorevoli”.
“E’ emerso inoltre un notevole interesse di autorevoli esponenti di Cosa Nostra per portare avanti in un primo tempo dei movimenti di tipo autonomista, così come avvenuto in altre parti del Sud Italia, progetto in seguito abortito in favore del nascente partito politico Forza Italia, sul quale venivano poi dirottati i voti”.
Su tante cose il boss di Brancaccio “ha lasciato chiaramente intendere di conoscere particolari importanti che riguardano fatti sui quali non si è ancora fatta piena luce, pur non volendo poi renderli noti, ma facendo semplicemente un accenno agli stessi”.
Un segnale verso l'esterno a “non dimenticarsi di lui”, perché conosce quegli stessi indicibili segreti di cui anche il superlatitante Matteo Messina Denaro è stato messo a parte.
Come disse Brusca nel processo contro la primula rossa di Castelvetrano erano loro i “picciotti” che, “sapevano tutto”.
Uno è libero. L'altro, arrestato il 27 gennaio 1994 mentre era convinto di avere "il Paese nelle mani", si ritrova da anni al 41 bis.
Ecco la rabbia del boss stragista che, messo alle strette, potrebbe anche decidere di iniziare a parlare per davvero (senza farneticanti considerazioni) con la magistratura. A meno che, come scrive la Corte, “a distanza di quasi 27 anni dal suo arresto, non continui ancora a sperare che possa accadere qualche 'bella cosa'”. Tra scarcerazioni varie, attenuazioni del regime detentivo e discussioni su ergastolo ostativo, permessi premio e interventi Cedu sul carcere duro nell'ultimo anno il dibattito si è fatto acceso. E il boss stragista è tornato a chiudersi nel proprio silenzio. Ma le sue parole restano sullo sfondo. E come ha concluso la Corte in merito a quella campagna stragista “ciò che si ricava ancora è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”. Per questo “anche con riferimento alla identificazione di tali soggetti, compito certamente non agevole in considerazione altresì del lungo lasso temporale decorso rispetto ai fatti in esame” è stata disposta la trasmissione degli atti alla Procura.
Senza pregiudizi, ma con l'intento di andare fino in fondo a quella ricerca della verità che può passare anche dalle parole di un boss.
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