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di Aaron Pettinari

L'avvocato Repici chiede la trasmissione in Procura del verbale della testimonianza dell'ex ministro. Per la prima volta sentito in aula anche il generale Borghini

Quando fu chiamato a deporre nel processo Borsellino quater Nicola Mancino era un imputato di reato connesso, accusato di falsa testimonianza a Palermo nel processo per la trattativa Stato-mafia, e scelse di avvalersi della facoltà di non rispondere”.
Ora che da quell'accusa è stato definitivamente assolto, in quanto né la Procura di Palermo né la Procura generale ha appellato per la sua posizione la sentenza pronunciata dalla Corte d'assise, lo step successivo, “complice” a suo dire il lungo lasso di tempo trascorso da certi fatti, è quello del ricorso quasi sistematico ai “non ricordo”.
L'ex ministro è stato sentito come testimone al processo sul depistaggio sulla strage di via d'Amelio che vede imputati i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra.
Una testimonianza al termine della quale Fabio Repici, legale di parte civile di Salvatore Borsellino, ha chiesto ufficialmente al Tribunale la trasmissione in Procura dei verbali della deposizione.
E il Presidente del Tribunale Francesco D'Arrigo si è riservato di decidere sul punto.

“Dico non ricordo”
L'ex ministro degli Interni, sentito in videoconferenza, più volte ha mostrato una certa insofferenza nel rispondere alle domande dell'avvocato, come quando ha fatto presente di aver depositato tre volumi della propria attività di ministro al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia (“Se ritiene ne può fare richiesta presso la Procura della Repubblica di Palermo. E' pubblico e può essere letto in udienza a prescindere dall'udienza del testimone qui presente. Non mi può dire niente. Io ho fatto quella dichiarazione e mi riporto a quella dichiarazione”).
Una visione distorta del compito che ogni cittadino, ancor di più se ha avuto un ruolo istituzionale, dovrebbe avere. Evidentemente c'è un certo fastidio nel salire sul banco dei testimoni. Fastidio ingiustificato se l'idea è quella di offrire un contributo di verità su quella terribile stagione di bombe.
Uno dei temi affrontati durante l'esame, ovviamente, il famoso incontro del primo luglio con il giudice Paolo Borsellino.
“Aveva mai visto una sua immagine in tv o sui giornali?” ha immediatamente chiesto Repici. “Io all'epoca ho detto di non ricordare. Come posso oggi dire che ricordo? Ho detto di no ed oggi non posso dire di sì” ha risposto l'ex Presidente del Senato, dimostrando la propria insofferenza.




Il magistrato, Paolo Borsellino © Shobha


Quindi ha aggiunto: “Non ho mai avuto contatti con lui, non lo conoscevo e non avevamo mai avuto rapporti - ha dichiarato - Ci siamo limitati solo a una stretta di mano il giorno in cui mi insediai come ministro. Ma non ci siamo parlati”.
In quel giorno, al Viminale, è certo, si recarono in tanti. Ma anche in questo caso i ricordi sono stati ad intermittenza. “C'erano molte persone quel giorno che volevano congratularsi con me per la mia nomina. Io non conoscevo fisicamente il dottor Borsellino. Poi ho potuto dire, solo a distanza di tempo, che lo avevo incontrato solo perché il capo della Polizia mi aveva detto che, dovendo andare al Viminale, si poteva approfittare della sua visita per salutare il Ministro dell'Interno. Borsellino era accompagnato da Vittorio Aliquò ma questo l'ho saputo dopo. Chi era presente? Non ricordo. Erano tanti che volevano congratularsi col ministro. C'era una folla notevole, parecchi amici, funzionari, persone che facevano politica, altre persone interessate a conoscere il ministro”.
Alla richiesta di riferire qualche nome dei presenti, o a chi diede l'incarico di dirigere la propria segreteria, però, la risposta è stata sempre la stessa: “Non ricordo”.
Però l'ex ministro ha ricordato altre cose, come l'esser stato a Palermo tra il 5 ed il 7 luglio per incontrare i Prefetti e gli appartenenti alle Forze di Polizia; l'incontro con il cognato di Falcone, Alfredo Morvillo; e lo scambio di battute con Parisi "sulla necessità di catturare Totò Riina”.
Poi il solito mantra per ricordare le proprie attività parlamentari in favore del 41 bis.
Durante la deposizione Mancino ha anche raccontato un dettaglio in riferimento ad un incontro avuto con l'ex Sisde Bruno Contrada. Ciò non sarebbe avvenuto il giorno dell'insediamento, ma a dicembre: “Ho incontrato Bruno Contrada solo una volta, per un saluto, alla vigilia di natale del 1992, quando ero ministro dell'Interno. Mi disse 'Io non sono responsabile delle accuse che mi vengono mosse' e io gli augurai che potesse venir fuori la verità. Se mi disse che l'autorità giudiziaria lo stava indagando? Non lo ricordo. Dico di no”. Quell'incontro, a detta del teste, fu promosso dal Capo della Polizia Parisi (“Mi disse che Contrada voleva parlarmi”). Certo è che Contrada fu arrestato nel Natale 1992.
Sulla propria nomina a ministro degli Interni Mancino ha dichiarato che nessuno parlò con lui, parlamentare e membro della Prima commissione degli affari Costituzionali, della designazione. Quindi ha escluso che qualcuno gli abbia chiesto la disponibilità a ricoprire quel ruolo tanto da averlo appreso “solo nel momento in cui fui incaricato”.
Poi ancora ha aggiunto di non aver mai conosciuto l'allora capo della squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e di non essere mai stato coinvolto dall'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso in materia di applicazione dei decreti del 41bis.
Altri argomenti “caldi” il rapporto con Martelli (“Non sempre ci siamo incontrati nella trascrizione delle versioni... Certo che non ho avuto trattamenti di buona collaborazione da parte di Martelli...”) e la natura delle fonti da cui ricavò le informazioni sul dualismo tra Riina e Provenzano e sulla imminente cattura di Totò Riina, così come disse nel dicembre 1992 come riportato dal Giornale di Sicilia (“L'intento di catturare Riina non è un intento astratto ma è obiettivo concretamente perseguibile. Si deve perseguire con tenacia questo obiettivo, prefetto Parisi, attraverso l'impegno quotidiano delle energie migliori che dispongano ogni mezzo di indagine (…) La mafia sta cambiando. Forse è alla vigilia di una scissione come quella che spaccò la Camorra indebolendola”). Come aveva appreso quelle informazioni? “Io ho sempre sostenuto che bisognasse liberarsi di Riina con l'arresto. Non ricordo. Non sarei stato così imprudente da annunciarla. La spaccatura? Se ne parlava sui giornali. I quotidiani ne parlavano spesso” ha ribadito il teste.
Quando fu sentito in Commissione antimafia, l’8 novembre 2010, disse di essere stato consapevole, già nel 1992, di una spaccatura tra l’ala stragista di Cosa nostra di Riina e quella moderata di Provenzano e disse anche che potrebbe averlo saputo dai due maggiori responsabili della Dia del tempo: De Gennaro ed Arlacchi. Tuttavia è noto che il dato, in quel momento, non era noto da quegli organi giudiziari e che l'unica fonte che aveva paventato una possibilità simile era Vito Ciancimino, l'ex sindaco mafioso di Palermo, che fu contattato dal Ros. Ma Mancino di quella vicenda non ha mai riferito nulla.




L'allora capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, mentre si allontana dalla strage di via d'Amelio con la valigetta di Borsellino


La testimonianza di Borghini
Altro audito nell'udienza di venerdì, per la prima volta in un processo sulla strage di via d'Amelio, è stato il generale Emilio Borghini, oggi in pensione e al tempo Comandante del gruppo carabinieri Palermo uno. Una testimonianza resasi necessaria dopo che lo stesso era stato individuato in un video da Angelo Garavaglia Fragetta (agenda rossa e collaboratore di Salvatore Borsellino).
Nelle immagini di quel 19 luglio 1992 lo si vede lasciare l’auto di servizio in via Autonomia Siciliana per dirigersi a piedi, tra idranti, fumo e macerie, verso la Croma blindata di Paolo Borsellino, saltato in aria con i cinque agenti di scorta poco tempo prima.
L'orario del suo arrivo, calcolato misurando l’ombra del sole sul muro del palazzo di via D’Amelio, è quello delle 17.28. Un'ora contestuale a quei frame, registrati pochi minuti dopo, in cui compare l’allora capitano Giovanni Arcangioli mentre si allontana dal luogo dell’esplosione, con la borsa del giudice assassinato in mano, per dirigersi verso via Autonomia Siciliana.
Rispondendo alle domande di Repici ha ricordato quanto vissuto il giorno dell'attentato: “Mi trovavo nella mia abitazione, vicino al Teatro Massimo. Sentii l'esplosione molto forte e da quel momento fu un susseguirsi di telefonate. Mi recai in via d'Amelio oltre mezz'ora dopo l'esplosione”.
Una volta giunto sul luogo “c'era una devastazione totale. C'era molta confusione, sembrava un evento post bellico. In vent'anni successivi di servizio, mai visto una cosa del genere. C'era sgomento. C'era un'area a sinistra con i muri distrutti, carcasse di auto e molta acqua a terra. Una parte centrale dove c'erano uomini della polizia, carabinieri e guardia di finanza. C'erano molte persone ma non in divisa. Sulla destra persone attonite, vestite anche in maniera elegante e magistrati”.
Rispetto alle gerarchie all'interno del reparto operativo e quelle che erano le funzioni di polizia giudiziaria Borghini ha riferito che il responsabile “era il maggiore Marco Minicucci che collaborava con il capitano Arcangioli (colui che compare in immagini e video con in mano la borsa di Borsellino, ndr), quel giorno di turno al nucleo operativo. Ricordo di aver incrociato a piedi Arcangioli. Non ricordo se avesse qualcosa in mano, ma aveva un abbigliamento estivo, poco formale”.
Borghini, che in alcune immagini appare vicino al capitano dei carabinieri, ha riferito di non aver parlato con Arcangioli in quel giorno (“Tra me e lui c'erano tre livelli gerarchici, ma se non ricordo male era alle dipendenze di un soggetto che poi andò al Ros, credo che si chiamasse De Donno”). Non solo. Non avrebbe parlato con nessuno del personale operante nel luogo della strage. Una scelta precisa (“E' opportuno lasciare lavorare le persone nelle loro sfere di competenza”). Così sarebbe rimasto in disparte, con il cellulare in mano, per rispondere alle continue telefonate ricevute.
Tra le persone che riconobbe in quel giorno vi era anche Giuseppe Ayala, ex magistrato che del prelievo della valigetta in pelle dall’auto carbonizzata di Borsellino ha fornito diverse ricostruzioni contrastanti.
Nel proseguo dell'esame Borghini ha anche ricordato quel che avvenne il giorno dopo l'attentato: “Ci fu una scelta di campo istituzionale. In queste indagini il ruolo principale spettava di diritto alla Polizia di Stato perché colpita nella strage con gli uomini della scorta. Poi la scelta cadde sul Ros e sulla Dia e sostanzialmente il mio Comando, non dico che fu estromesso, ma si dedicò alla gestione ordinaria. E Minicucci mi disse che avevano provveduto ad inviare l'attività di reperimento alla Procura della Repubblica”.
Il processo è stato poi rinviato al prossimo 15 gennaio quando sarà sentito l'ultimo teste delle parti civili, Don Franco Neri. Successivamente, a partire dal 22, sarà la volta dei tre poliziotti imputati.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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