di Aaron Pettinari
Su L'Espresso pubblicate le immagini di quattro volti femminili descritti dopo gli attentati di Firenze e Milano
Capaci, Palermo, Firenze, Roma, Milano. Sono i luoghi delle stragi che nei primi anni Novanta hanno messo a ferro e fuoco il nostro Paese.
Stragi di mafia, sicuramente, ma anche stragi di Stato.
Tanti pezzi che, messi in fila, portano alla luce un piano terroristico-eversivo volto a destabilizzare le nostre istituzioni.
Perché sullo sfondo di quei delitti, come attestano inchieste, processi e sentenze (da ultime quelle sulla Trattativa Stato-mafia e 'Ndrangheta stragista) restano le tracce della presenza di concorrenti e mandanti esterni.
Su questo indagano le Procure di Palermo, Caltanissetta, Firenze e da ultimo Reggio Calabria, con il coordinamento della Procura nazionale antimafia.
Oggi il settimanale L'Espresso ha pubblicato quattro identikit dell'epoca che riguardano i volti di quattro donne che potrebbero aver avuto un qualche ruolo in particolare negli attentati del 1993 di Milano e Firenze. Un elemento importante tenuto conto che nessuna donna ha fatto mai parte di un gruppo di fuoco mafioso.
A descriverle, al tempo, alcuni testimoni oculari. Elementi che non furono approfondite al tempo e che a quasi trent'anni di distanza si cerca di sviluppare.
In via dei Georgofili una ragazza dai capelli scuri
A Firenze, nei pressi dei luoghi della strage avvenuta nella notte tra il 26 ed il 27 maggio 1993 in via dei Georgofili (vicino alla Galleria degli Uffizi), un testimone notò la presenza di una donna dando una descrizione precisa: "Età 25 anni, corporatura magra, capelli scuri, corti a caschetto e bruni".
Un fotofit, rinvenuto in un archivio dei carabinieri di Firenze, fu trasmesso alla procura, ma non venne mai diffuso (a differenza di altri).
Il testimone parlò anche della presenza di altri soggetti. Due giovani "che cercavano di recuperare una busta dall'infisso di una porta di un palazzo vicino al luogo della strage". Lo riferì in Commissione antimafia il magistrato consulente Gianfranco Donadio.
Il racconto del testimone proseguiva con la descrizione di una "Mercedes di coloro scuro, da cui uscì la donna, e l’arrivo di un Fiorino Fiat bianco (non può passare in secondo piano che in via dei Georgofili esplose proprio un'auto di quel modello)".
Quella donna "indossava un 'tailleur' scuro, che quando ha raggiunto i due uomini ha detto una bestemmia e poi ha aggiunto: 'ci vogliamo muovere o no?'. I due allora hanno preso una grossa e pesante borsa da viaggio e l’hanno depositata nel sedile posteriore della Mercedes che è quindi ripartita, con a bordo la ragazza, seguita subito da un furgone 'Fiorino' che stava in sosta a pochi metri dalla donna, mentre i due si allontanavano a piedi dalla parte opposta".
Quella notte a Firenze vi furono decine di feriti e, soprattutto, persero la vita i coniugi Fabrizio Nencioni (39 anni) e Angela Fiume (31 anni) assieme alle loro figlie Nadia (9 anni) e Caterina (di 50 giorni), e lo studente Dario Capolicchio (22 anni).
Da Firenze a Milano
Ovviamente competente per le stragi del 1993 è la Procura di Firenze, diretta da Giuseppe Creazzo, che ha creato un pool che vede l'impegno dei procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco. E sono loro ad aver ripreso in mano gli identikit da cui emerge che le figure femminili sarebbero non una, ma addirittura quattro. Donne che non farebbero in alcun modo parte di Cosa nostra.
A ventisette anni di distanza dagli attentati la Dia del centro operativo di Firenze, spiega il settimanale, avrebbe individuata: si tratterebbe di una donna nata nel 1957, riconducibile al circuito dell’organizzazione paramilitare di Gladio.
Poi ci sono le testimonianze raccolte nel capoluogo lombardo dopo la strage del 27 luglio in cui morirono l'agente Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno ed un immigrato marocchino Moussafir Driss, che venne raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina
In Commissione antimafia sempre Donadio evidenziò anche l'esistenza di un "rapporto della Digos in cui si parla di una donna terrorista appartenente ad un’organizzazione parallela, che avrebbe agito insieme a Cosa nostra nelle stragi del ’93. Qui vi è un’espressa menzione del Sisde che viene richiamata dall’analisi documentale". Non solo. Aveva anche ricordato che "nella strage successiva di via Palestro (poco distante dalla sede del Pac - Padiglione d'arte contemporanea, ndr) dalla Fiat uno era discesa una donna, e che anche di questa esiste un identikit che venne pubblicato dal Corriere della Sera. Ed è quello famoso di una donna bionda di via Palestro dove c’è scritto che i capelli sono biondi tinti. A dirlo sono due testimoni che guardarono la donna discendere dalla Fiat Uno”.
Adesso i verbali con le testimonianze raccolte dopo le stragi sono stati ripresi dalla Procura fiorentina.
"La sera del 27 luglio 1993 stavo percorrendo via Palestro, e giunta quasi davanti al museo del Pac, ho notato una donna accanto a una Fiat Uno che apriva la portiera destra e aveva scatti repentini per guardare chi c’era intorno - diceva una testimone - La donna si è chinata all’interno dell’auto, dava l’impressione di sistemare qualcosa dentro l’abitacolo, ma una volta che si è accorta della mia presenza si è alzata di scatto, forse addirittura urtando con la testa il tetto dell’auto, si è tirata fuori e guardandomi con aria sorpresa ha velocemente richiuso lo sportello, senza usare la chiave, e si è diretta verso un’altra Fiat Uno di colore bianco che la attendeva con il motore acceso e la portiera destra aperta sulla quale è salita".
E nello stesso verbale vi è anche la descrizione dell'uomo alla guida della macchina: un soggetto con i capelli lunghi neri, legati sulla nuca a codino, con all’orecchio destro un piccolo orecchino a forma di anello, e con un naso "particolarmente sporgente ed appuntito".
Anche la donna viene descritta con dovizia di particolari. "Ho avuto modo di vedere la donna molto bene in viso e pure come era vestita - spiegava ancora la testimone - Posso dire che mi colpì una sorta di fascia di caucciù o di stoffa larga un paio di centimetri che aveva al collo e sul davanti, al centro, aveva una targhettina color argento con un cammeo di colore scuro, un tipo di monile usato dalle donne greche e albanesi. Le scarpe che portava mi hanno incuriosito perché erano di quelle con il tacco alto, con il cinturino alla caviglia. I capelli erano biondi, corti, a caschetto".
Ma c'è anche un altro soggetto che riferì agli inquirenti dei movimenti sospetti lungo via Palestro. Quella sera, prima dell'attentato, ebbe modo di percorrere la via per due volte.
Anche la sua testimonianza è riportata nell'articolo de L'Espresso: "All’andata la mia attenzione è stata richiamata dal fatto che dalla Uno che era parcheggiata con il muso rivolto verso via Manin, contromano, era scesa una bella ragazza bionda, sui trent’anni, dava l’idea di un fisico ben fatto e belle gambe". Al ritorno, prosegue la testimonianza, "c’era un’auto dalla quale usciva del fumo, ed era quella da cui aveva visto scendere la bionda. Quando sono passato ho visto che attorno alla Uno si affaccendavano Vigili Urbani e Vigili del Fuoco intenti con gli estintori a spruzzare nel bagagliaio da cui usciva fumo. Sono certo che si trattava della stessa auto da cui avevo visto scendere la donna". Ed anch'egli avrebbe parlato della presenza di un uomo che in un'altra auto attendeva la ragazza.
Il Dna femminile di Capaci
Un possibile ruolo di un soggetto femminile nelle stragi emerge anche dal ritrovamento a 63 metri dal cratere della strage di Capaci di un paio di guanti di lattice, rinvenuti assieme a una torcia, delle batterie e una lampadina. Nel processo Capaci bis, la genetista dell’Università di Bari Nicoletta Resta ha confermato che in quei campioni "c’è qualche traccia dalla quale non si può escludere che ci possa essere stata anche una donna sul luogo della strage”. Ai magistrati nisseni la genetista aveva già presentato una relazione dove spiegava che “i risultati mostrano chiaramente un profilo misto derivante da almeno tre individui diversi dove però la componente attribuibile ad uno o più soggetti di sesso femminile risulta essere maggiormente rappresentata".
La donna accanto a Faccia da mostro
In questi anni di inchieste sulle stragi ed omicidi eccellenti un nome che è spesso emerso è quello di Giovanni Aiello, ex poliziotto della Squadra mobile di Palermo anche noto come "Faccia da mostro". Tre anni fa, mentre portava a riva la sua imbarcazione in spiaggia, in provincia di Catanzaro, Giovanni Aiello è morto, ufficialmente per un infarto.
Diversi collaboratori di giustizia hanno associato più volte il suo nome a stragi come quelle di via d'Amelio e di Capaci, ma anche agli omicidi del vicequestore Ninni Cassarà e del duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie, Ida Castelluccio (che era incinta). Si disse anche di un suo possibile coinvolgimento nell’assassinio del piccolo Claudio Domino ucciso nel 1986 mentre si celebrava il maxiprocesso.
Fu anche descritto come uomo appartenente ai Servizi di sicurezza, anche se Aisi e Aise hanno sempre smentito una sua appartenenza all'intelligence.
Anche sulla sua figura hanno compiuto accertamenti più Procure e, stando alle conclusioni dei magistrati di Palermo che indagavano sul delitto Agostino, vi è la certezza che fosse lui "la persona con il volto deturpato che, reiteratamente nel corso degli anni, aveva personalmente partecipato a vere e proprie riunioni mafiose, tenutesi nel luogo - tanto noto quanto strategico - di Fondo Pipitone, nella disponibilità ‘storica’ e diretta della famiglia Galatolo”. Nella richiesta di archiviazione dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, nell'ambito delle indagini sul delitto del 5 agosto 1989, si scriveva nero su bianco che gli elementi raccolti erano tali "da poter ritenere Aiello soggetto certamente in contatto qualificato con l’organizzazione mafiosa Cosa nostra (se non, addirittura, a questa intraneo)”.
Accanto alla sua figura, secondo diversi collaboratori di giustizia come i calabresi Nino Lo Giudice e Consolato Villani, vi era spesso una donna bionda. Ed una delle donne mostrate negli identikit pubblicate da L'Espresso, la riguarderebbe in prima persona.
Di questa donna, recentemente nel processo d'appello sulla trattativa Stato-mafia, ha parlato il collaboratore di giustizia Pietro Riggio riferendo di averla vista in un incontro che tenne assieme a "Faccia da mostro" e Giovanni Peluso (da lui accusato di aver avuto un ruolo nella strage di Capaci, ndr). Ha dato anche una descrizione della donna: "Ricordo che venne a bordo di una Bmw, accompagnato da un'altra persona con il volto deturpato, come una sorta di sfregio, ed una donna. Questa scese dalla macchina per un attimo. Aveva i capelli lunghi, la carnagione olivastra ed i pantaloni mimetici".
Elementi che si aggiungono e portano lavoro agli inquirenti.
L'ottica fuori Cosa nostra
Passo dopo passo sempre più elementi stanno venendo alla luce corroborando l'ipotesi che dietro le stragi, sia quelle del 1992 che quelle in Continente, non vi fosse solo la mano mafiosa.
Il dato emergeva già nei processi di Capaci e via d'Amelio, in particolare con le dichiarazioni dell'ex boss di Porta Nuova Totò Cancemi (“Riina è stato preso per la manina per fare le stragi”), per poi arrivare al pentito Gaspare Spatuzza, che con le sue dichiarazioni ha dato un importante impulso per ricostruire la storia di quegli attentati.
E' l'ex boss di Brancaccio ad evidenziare come, in particolare nel 1993, Cosa nostra si era spostata verso "un'altra ottica che non ci appartiene”.
Non solo. Il pentito aveva anche raccontato ai magistrati che il cosiddetto “tecnico” di cui la famiglia mafiosa di Brancaccio disponeva per gli attentati esplosivi era Salvatore Benigno. Quest'ultimo fu definito come “scarsamente preparato", come dimostrano i falliti attentati a Maurizio Costanzo e ai carabinieri allo stadio Olimpico in cui ebbe un coinvolgimento diretto. Diversamente, dove Cosa nostra ebbe successo, ha parlato di un'altra mano tecnica. E il riferimento è anche a quella presenza, il 18 luglio 1992 nel garage di Villasevallos, di un soggetto che "non era di Cosa nostra", durante le fasi di imbottitura di tritolo nell'auto che uccise Borsellino e gli agenti di scorta.
L'inchiesta sui possibili concorrenti esterni per le stragi si affianca a quella sui mandanti che a Firenze vede come indagati due nomi di peso: Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri (quest'ultimo già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa).
Entrambi sono accusati di essere i mandanti occulti delle stragi mafiose in Continente, che colpirono Firenze (in via dei Georgofili), Roma (chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro), ma anche gli attentati al pentito Contorno e al conduttore Maurizio Costanzo) e la mancata strage dell'Olimpico.
Un'inchiesta riaperta nel 2017, dopo che la Procura di Palermo trasmise a Firenze le intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia "Berlusca mi ha chiesto questa cortesia, per questo c'è stata l'urgenza”.
Intercettazioni che si aggiungono alle parole dette dallo stesso Graviano nelle sue deposizioni fiume nel processo 'Ndrangheta stragista che in primo grado lo ha visto condannato all'ergastolo per gli attentati ai carabinieri avvenuti in Calabria tra il 1993 ed il 1994.
Tanti elementi che vanno approfonditi.
Del resto già vent'anni addietro Berlusconi e Dell'Utri erano finiti sotto indagine a Firenze, sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, e a Caltanissetta, come "Alfa" e "Beta", ed entrambi i fascicoli furono al tempo archiviati.
Nel decreto di archiviazione del Gip di Firenze, datato 1998, si legge che secondo gli inquirenti quei fatti di sangue rientravano “in un unico disegno che avrebbe previsto una campagna stragista continentale avente come obiettivo strategico (anche) quello di ottenere una revisione normativa che invertisse la tendenza delle scelte dello Stato in tema di contrasto della criminalità mafiosa” e "nel corso di quelle indagini erano stati acquisiti diversi elementi che avvaloravano l’ipotesi di un’unitaria strategia dell’organizzazione mafiosa finalizzata a condizionare le scelte di politica criminale dello Stato e a ricercare nuovi interlocutori da appoggiare nelle competizioni elettorali”.
E' da tutto questo che si riparte per dare una risposta ai tanti quesiti rimasti aperti e far emergere definitivamente quelle verità che troppo spesso si è preferito non vedere o nascondere sotto il tappeto.
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