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di Sebastiano Ardita

Era il 9 Novembre del 1995 quando Serafino Famà usciva dal suo studio legale in compagnia di un collega. Percorse a piedi qualche decina di metri per addentrarsi nel parcheggio di Viale Raffaello Sanzio, quando una voce impetuosa lo chiamò per nome. Si girò di scatto e vide il suo killer che gli esplodeva alcuni mortali colpi di pistola al petto e al volto.
L’avvocato Famà era un uomo tutto d’un pezzo. Non era un avvocato di corridoio, era un legale da campo aperto di battaglia. E in questo suo atteggiamento non conosceva riverenze, né sottomissioni. Nè verso interlocutori istituzionali, né verso i mafiosi suoi clienti. Ma soprattutto era un uomo per bene, che agiva con correttezza ed onestà.
Un’importante indagine della Procura di Catania ha consentito di ottenere la condanna definitiva all’ergastolo di otto boss appartenenti al clan dei Laudani. Movente ricostruito: uno sgarbo fatto dall’avvocato ad un boss che avrebbe preteso da una sua cliente una versione di comodo, che l’avvocato avrebbe impedito. I responsabili dell’esecuzione grazie a quella inchiesta sono stati condannati. Un mistero avvolge ancora i veri motivi della morte di Serafino Famà. Ed anche l’identità di coloro i quali dettero il loro consenso per l’omicidio di uno dei legali più importanti, che aveva difeso esponenti di primo piano. Un omicidio troppo importante per essere stato deciso dal reggente di un gruppo mafioso esterno alla famiglia di cosa nostra catanese. Un altro delitto per molti versi ancora avvolto nel mistero.

Tratto da: facebook.com

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