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di Marta Capaccioni
A 50 anni dalla morte del giornalista tanti indizi ma nessun colpevole

È passato mezzo secolo dall’uccisione del giornalista dell’Ora Mauro De Mauro: un vero e proprio giallo che ha lasciato aperti tanti interrogativi e che rimane tuttora senza colpevoli. Era il 1970 quando tre uomini sconosciuti si materializzarono dentro la macchina del cronista che aveva appena parcheggiato davanti a casa sua, in Viale delle Magnolie a Palermo, mentre la sua famiglia lo stava aspettando per cena. L’unico rumore che si sentì prima del silenzio fu una voce in forte accento siciliano che gridò “amuninni” (andiamo).
In 50 anni, con un processo iniziato solo nel 2006, sono emersi vari elementi che hanno evidenziato come ciò di cui era venuto a conoscenza il giornalista, se fosse diventato di dominio pubblico, avrebbe potuto rappresentare un grave ostacolo agli equilibri istituzionali e sovra nazionali del nostro Paese.
Il caso è stato oggetto di un perverso gioco di depistaggi fatto di ricatti, di interventi anomali in giudizio, di false testimonianze e di sottrazione di prove. È a causa di queste mezze verità che non si è riusciti a trovare i colpevoli.
La vicenda di Mauro De Mauro in effetti si inserisce tra le piste più spinose e più imbarazzanti della storia della nostra Repubblica, o almeno di quel decennio: la morte dell’imprenditore Enrico Mattei, avvenuta con lo schianto a Bascapè dell’aereo all’interno del quale viaggiava il 27 ottobre 1962 e il Golpe Borghese che avrebbe dovuto consumarsi nella notte dell’8 dicembre del 1970, organizzato dall’ex comandante repubblicano Valerio Borghese.
Il giornalista poco prima della sua morte aveva confidato ad un collega di avere tra le mani uno scoop che avrebbe fatto tremare l’Italia. Di cosa era venuto a conoscenza De Mauro? Chi erano quei tre uomini senza nome e da chi erano stati mandati?

La pista sul Presidente dell’Eni Enrico Mattei
L’omicidio del giornalista si inserisce all’interno di uno dei casi più sconcertanti della nostra Repubblica, che ha visto un’enorme e sistematica attività di depistaggio e di occultamento delle prove: la morte dell’imprenditore Mattei. In quel periodo De Mauro stava lavorando alla stesura di una sceneggiatura per conto del regista Francesco Rosi, per ricostruire gli ultimi giorni di vita del presidente dell'Eni in Sicilia ed in particolare su quanto accaduto il 27 ottobre 1962. Un'indagine approfondita in cui De Mauro sarebbe anche riuscito a scoprire i nomi delle persone che erano al corrente dell’orario di partenza del volo di rientro di Mattei, all’epoca tenuto segretissimo per ragioni di sicurezza, prima che il piccolo aereo si schiantasse a Bescapé, nei pressi di Pavia.
Il delitto di Mattei è in effetti da inserire nella lista di quegli omicidi maturati all’interno delle alte sfere dello Stato, i cui mandanti andavano ricercati forse nei potentati della politica e negli apparati istituzionali più esposti nella lotta internazionale contro il comunismo, i quali vedevano in Mattei un nemico da abbattere. La sciagura di Bascapé doveva essere conosciuta dall’opinione pubblica come un incidente e tutti coloro che si fossero discostati dalla narrazione ufficiale dei fatti sarebbero stati in qualche modo neutralizzati. Forse è proprio questo quello che è successo al giornalista De Mauro?
Gli esponenti della dc che avevano interesse per il lavoro scottante del cronista erano l’avvocato e imprenditore italiano, Vito Guarrasi, il politico e parlamentare nazionale ed europeo, Nino Buttafuoco e il senatore della Dc, Graziano Verzotto. Inoltre, a differenza di quanto contenuto nella Sentenza di Primo grado, è stato confermato il giudizio dei giudici d’appello che, con la sentenza del 27 giugno 2014, scrivevano: “Peraltro, anche con riguardo ai rilievi concernenti la ricostruzione degli ultimi giorni di vita del De Mauro e l’urgenza di eliminare il predetto giornalista, può condividersi l’assunto del Pm appellante (…) Tuttavia, la fondatezza di tali rilievi non pare che possa comunque giovare alla tesi accusatoria, solo rafforzando il convincimento che - soprattutto in considerazione del lunghissimo lasso di tempo trascorso dai fatti, del relativo atteggiamento di riserbo tenuto dal de Mauro sulla natura della scoperta fatta, degli svariati campi di indagine che il suo lavoro in quegli ultimi tempi poteva avere riguardato; dell’opera di sistematico depistaggio compiuta da soggetti interessati a dissolvere nel nulla ogni elemento utile a ricostruire la vicenda -, risulti particolarmente difficile se non impossibile distinguere con certezza i fatti come realmente accaduti”. Ciò significa che a differenza di quanto scritto dai giudici in primo grado sull’eventuale coinvolgimento di Graziano Verzotto, ex dirigente dell’Eni e all’epoca segretario regionale della Dc, morto il 12 giugno 2010, nelle vicende De Mauro e Mattei, non è affatto da ritenersi certo o “centrale”. Tant’è che il Verzotto non è mai stato imputato in un processo per tali fatti di cronaca.
In ogni caso sono scomparse le bobine e la trascrizione della indiziante telefonata tra Guarrasi e Buttafuoco, il nastro con l’ultimo discorso di Mattei a Gagliano che De Mauro ascoltava incessantemente nei giorni prima di morire e le pagine di quaderno dove il nastro era stato trascritto dalla stessa vittima. Per non parlare della busta gialla nella quale era contenuta la sceneggiatura del film che è sparita e lì era contenuta la verità sull’omicidio Mattei. Scrivono i giudici: “La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè”. E poi ancora: “Nella sceneggiatura approntata dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell’ipotesi dell’attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.
Secondo i giudici di Palermo la rivelazione di un attentato a Mattei, progettato con la complicità di apparati italiani (e forse con il supporto della Cia), avrebbe avuto “effetti devastanti per i precari equilibri politici generali, in un paese attanagliato da fermenti eversivi e tentato da svolte autoritarie”.

Cassazione: movente nelle informazioni riservate di De Mauro ma prove non sufficienti
Il processo per il sequestro e l’omicidio di Mauro De Mauro, che vedeva come unico imputato il boss di Cosa nostra, Totò Riina, accusato di essere mandante, si è concluso con una sentenza di assoluzione decisa dalla Suprema Corte nel 2015 che ha rigettato il ricorso del pg di Palermo. In oltre 2200 pagine di documento vi è comunque una traccia di un quadro inquietante dove restano evidenti pesanti collegamenti con la morte del presidente dell'Eni Mattei, ma anche il coinvolgimento di soggetti come Vito Guarrasi. Inoltre è stato messo in evidenza il depistaggio che fu perpetrato durante le indagini ma la Procura di Palermo si è trovata costretta a chiedere l'archiviazione del caso in quanto il reato è abbondantemente prescritto.
Nel febbraio del 2016 sono state depositate le motivazioni della sentenza. Lì è scritto che la causale dell’omicidio sarebbe “individuabile nelle informazioni riservate di cui la vittima era entrata in possesso in relazione alla sua attività professionale (verosimilmente - anche se non certamente - riconducibili, secondo le risultanze del processo di merito, al coinvolgimento di esponenti mafiosi nella morte di Enrico Mattei)”.
La Cassazione ha in effetti sancito definitivamente quanto scritto dai giudici d'appello (Sentenza del 27 giugno 2014), ovvero che: "Con riguardo ai rilievi concernenti la ricostruzione degli ultimi giorni di vita del De Mauro e l’urgenza di eliminare il predetto giornalista, può condividersi l’assunto del pm appellante”. Tuttavia si è evidenziato come gli elementi di prova raccolti “non hanno permesso di accertare un ruolo diretto o indiretto dell’imputato nel delitto”.

Suprema Corte: insuperabilità dubbi sulla genesi dell’omicidio
Nel giugno del 2013 il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo aveva deposto al processo d’appello a carico di Totò Riina, raccontando di aver saputo da Riina e da Stefano Bontade che nel corso di una riunione, avvenuta qualche settimana prima del delitto, si fosse deliberato il delitto.
La Cassazione ritiene “inaffidabili” le dichiarazioni rese in appello dal pentito Francesco Di Carlo e rimangono dubbi “insuperabili” “sull'individuazione degli autori della deliberazione omicida” e sulla sua “genesi concreta”.

Una lunga storia di depistaggi e una verità mancata
La Cassazione, confermando il giudizio dei giudici di appello, ha dichiarato inoltre la difficoltà, se non l’impossibilità, di “distinguere con certezza i fatti come realmente accaduti”. E una delle cause è stata, come si legge nella sentenza, il “sistematico depistaggio di soggetti interessati a dissolvere nel nulla ogni elemento utile a ricostruire la vicenda”.
Nonostante la sentenza di assoluzione rimangono tanti i fatti e tante le coincidenze. Gli elementi emersi in effetti ci fanno capire quanto il lavoro di studio e di investigazione che stava svolgendo De Mauro fosse insidioso per affari e soprattutto equilibri importanti, non solo all’interno delle nostre stesse istituzioni, ma anche in ambienti internazionali.
Interessi economici, politici e militari che non potevano essere messi in alcun modo a rischio. L’unica soluzione era quindi, come succede spesso quando si supera quel confine invalicabile, eliminare il problema all’origine, facendo sparire ogni traccia della vittima e della verità che Mauro De Mauro avrebbe voluto rivelarci.

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