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Video e Foto
di Marta Capaccioni e Karim El Sadi

Inquietante quanto scontata la totale assenza delle testate giornalistiche nazionali

“Free, free Julian Assange!”. Queste sono state le parole urlate da alcuni manifestanti lunedì scorso davanti all’Ambasciata Americana di Roma. Per alcune ore il coro di questo gruppo di civili è riuscito a coprire il sordo rumore del traffico di Via Vittorio Veneto. In quel piccolo segmento di giornata sembrava di vivere la drammatica realtà di tutti i giorni, in cui pochi lungo il cammino si guardano indietro, mentre la maggior parte prosegue la quotidianità dettata dalla frenesia del lavoro e del proprio egoismo, scordandosi di non essere soli su questo pianeta.
Lunedì quei pochi cittadini hanno aderito al flash mob in difesa dell’emblema della libertà di stampa mondiale, del personaggio che ha fatto tremare tutti i governi e gli stati del mondo e che forse è riuscito a intimorire questo grande sistema di potere che sceglie le sorti dell’intera umanità, Julian Assange.
Il fondatore di Wikileaks si trova attualmente detenuto nel carcere di Belmarsh a Londra e proprio lunedì scorso è ripreso il processo nei suoi confronti per valutare la richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti d’America. Una richiesta che, senza formalità, né troppi giri di parole, equivale ad una vera e propria condanna a morte.
Purtroppo, come era da aspettarsi, tutti i principali organi di stampa si sono fasciati la bocca e legati le mani, dimostrando ancora una volta il loro totale disinteresse, nonché la loro complicità, nella vicenda che più di tutte riguarda il mondo del giornalismo.
Our Voice, Italiani per Assange, Articolo 21 e Amnesty International, sono state le uniche associazioni che hanno mandato un messaggio chiaro e conciso alle finestre dell’ambasciata: no all’estradizione in America e scarcerazione immediata del giornalista. Julian Assange rischia la vita in carcere, soffre di problemi psicologici e fisici e non vede la luce del sole da anni”, ha detto Davide Dormino, organizzatore dell’evento e autore della scultura di fama internazionale “Anything to say” raffigurante Julian Assange, Edward Snowden e Chelsea Manning.



Il prezzo della denuncia
Cosa rischia Assange qualora il tribunale di Londra assecondasse le richieste di Washington? Per rispondere a questa domanda servirebbe ripercorrere brevemente quella che è stata l’odissea giudiziaria del padre di Wikileaks partendo da quel 28 novembre 2010. Giorno in cui Wikileaks divulga circa 250.000 fascicoli classificati degli Stati Uniti riguardanti i crimini di guerra compiuti da questi ultimi e altri paesi NATO nelle campagne militari in Irak e in Afghanistan. Ma anche email tra capi di Stato, servizi segreti, alti apparati diplomatici. Tutti documenti carpiti grazie all’aiuto determinante dell’ex militare Chelsea Manning in servizio a Baghdad - condannata a 7 anni di carcere, rilasciata e incarcerata di nuovo per essersi rifiutata di testimoniare su Wikileaks - che mettono in profondo imbarazzo tutta l’establishment americana, e non solo. Immediata la reazione degli Stati Uniti che chiedono la testa di Assange accusandolo di cospirazionismo. In quei giorni dalla Svezia spicca un mandato d’arresto per Assange. Le accuse sono di stupro, molestie e coercizione illegale. Il giornalista nega tutte le accuse sostenendo trattarsi di un pretesto per estradarlo dalla Svezia agli Stati Uniti. E aveva ragione. Infatti, a distanza di dieci anni, la procura generale di Stoccolma ha archiviato per l’ennesima volta l’inchiesta, che già poggiava su basi non solide costituite per lo più da prove sparute e le sole testimonianze delle due presunte vittime. Ad ogni modo nel 2012 la Corte Suprema britannica decreta la sua estradizione in Svezia. Assange si rifugia, a Londra, nell’Ambasciata dell’Ecuador grazie all’assenso dell’ex presidente Rafael Correa che gli garantisce il diritto di asilo. Qui resta confinato per sette anni, nonostante anche una Commissione delle Nazioni Unite denunci il fatto che Assange è detenuto arbitrariamente e illegalmente in Gran Bretagna. Durante questo infinito lasso di tempo Assange continua a coordinare il lavoro di Wikileakes pubblicando nel 2016 altri 30.000 documenti riservati. Tra questi alcuni scambi di mail tra l’ex segretaria di Stato dem Hillary Clinton e Sidney Blumenthal, ex assistente di Bill Clinton, riguardanti la Libia e la futura destabilizzazione del Paese volta a impedire che Gheddafi usasse le riserve auree per creare una moneta pan-africana alternativa al dollaro e al franco coloniale Cfa. In questi 7 anni di esilio Assange è stato sorvegliato giorno e notte. Telecamere, microspie e cimici sono state installate illegalmente all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador. Spiati anche colleghi giornalisti, avvocati, medici politici e chiunque fosse entrato in contatto con lui. L’11 aprile dello scorso anno Schotland Yard entra nell’ambasciata e arresta Assange dopo che l'Ecuador aveva fatto cadere lo status di rifugiato politico. Il prezzo per quella revoca, e quindi automaticamente del permesso di arrestarlo, è stata la concessione di 4,2 miliardi di dollari promessa dall’FMI all’Ecuador di Lenin Moreno. Assange è di fatto stato "barattato" dal governo dell'Ecuador per un prestito dal Fondo Monetario Internazionale, come ha denunciato il padre John Shipton. Da quella data Julian Assange si trova detenuto in condizioni precarie nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh dove è in attesa di sapere quale sarà il suo destino: se sarà estradato o meno. Negli Stati Uniti il giornalista deve rispondere di ben 17 capi d’accusa, ognuno dei quali rispondente a 10 anni di detenzione per un totale di circa 170 anni di carcere. L’accusa più grave mossa dalla procura è di spionaggio, il cosiddetto “Espionage Act” del 1917. Lo stesso capo d’accusa attribuito all’ex analista dell’NSA Edward Snowden.


Le parole di Our Voice e Articolo 21 in difesa del giornalista
“Noi non possiamo assolutamente accettare che uno Stato che si dichiara democratico e che pretende di esportare la democrazia in altri paesi, poi condanni e non permetta la libertà di parola e soprattutto l’informazione”, ha detto una giovane attivista del Movimento culturale internazionale Our Voice, Francesca Mondin, “questo non è un governo democratico, questa non è democrazia: così come non lo è bombardare, non lo sono le missioni di pace bianche fatte con le armi. Questa non è democrazia e va denunciato e non si può permettere che chi lo denuncia resti in carcere e rischi la vita senza nessun tipo di garanzie”. Al suo urlo in nome delle garanzie sacrosante sancite dai principi fondamentali della nostra Costituzione si è aggiunto anche il giovane attivista di Our Voice Karim El Sadi, che ha ricordato come “estradare Julian Assange significherebbe condannarlo a morte. Noi non possiamo consentirlo da liberi cittadini e da società civile, perché con l’incarcerazione del giornalista si vuole eliminare una categoria di giornalisti, il diritto di parola e di espressione”. Oltre a loro sono stati vari gli interventi che hanno voluto esprimere solidarietà ad Assange e alla sua famiglia, e che hanno voluto soprattutto attaccare e condannare questo sistema di cui fa parte anche l’Italia con i suoi governi di destra e di sinistra che da sempre come marionetta ubbidisce ai diktat americani senza proferire parola contraria.
Tra questi, Vincenzo Vita, Presidente dei Garanti di Articolo 21, nell’intervista rilasciata al Movimento Our Voice e in quella rilasciata a Byo Blu, ha detto: “Se passa l’idea che la libertà di informazione, cioè lo svelamento degli arcani del potere, ivi comprese le guerre, i massacri, gli omicidi, i lavori sporchi dei servizi segreti sull’umanità intera, sui capi di Stato e di governo, di cui Assange è stato portatore, equivale ad un reato di spionaggio, si accoltella la libertà di espressione”.
Una vicenda che non riguarda un singolo uomo, ma l’intera umanità, schiacciata da un potere autoritario che si nasconde sotto belle parole. Non c’è libertà in un mondo in cui dire la verità comporta come conseguenza la tortura e la condanna a morte. Non c’è democrazia in una società dove uomini che si contano sulle dita di una mano si permettono di violare trattati e carte dei diritti internazionali, senza nessuna giustificazione. Infine non c’è giustizia, quando le vittime vengono rinchiuse in celle buie, mentre i veri colpevoli e i veri carnefici rimangono nei salotti del potere a guidare le redini di questo cavallo impazzito, che è il nostro mondo.

Video/Foto © Our Voice

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(del 9 settembre 2020)

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