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di Aaron Pettinari
Tra 1400 pagine le dichiarazioni di Maria Falcone ed Enza Sabatino
Alla sorella del giudice disse: "Sto cercando di arrivare a delle cose. Altro che Tangentopoli"

In questi giorni il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di togliere il segreto su una serie di verbali risalenti al 1992, l'anno delle stragi in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nei giorni delle commemorazioni della strage di via d'Amelio, in cui oltre al giudice morirono gli agenti della scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina) è il sito di approfondimento di La Repubblica con un articolo di Salvo Palazzolo, a dare la notizia. In tutto vi sono 1400 pagine desecretate in cui si ripercorrono diverse testimonianze raccolte successivamente alle stragi.
Tra queste una di Maria Falcone, sorella del giudice, audita il 31 luglio 1992. "Paolo era appoggiato a una colonna del chiostro della Chiesa di San Francesco era appena finita la messa del trigesimo di Giovanni, mi disse: 'State calmi perché sto cercando di arrivare… state tranquilli, ci riusciremo'".
Da quella frase, "sto cercando di arrivare..." potrebbe esservi una pista fondamentale per comprendere ulteriormente i motivi che si celano dietro l'attentato di via d'Amelio. Che vi sia stata un'accelerazione improvvisa è un fatto certo, così come è evidente che Borsellino stesse indagando sulla morte di Falcone. Basta risentire l'ultimo intervento pubblico di Borsellino, il 25 giugno 1992 a Casa Professa, in cui lo stesso magistrato dichiarò di "essere un testimone" e di voler rilasciare dichiarazioni all’autorità giudiziaria che sarebbero potute esser utili per scoprire la verità sull’attentato del 23 maggio.
La domanda, seppur ovvia, è evidente: cosa aveva scoperto Paolo Borsellino un mese dopo la morte dell'amico fraterno?
Palazzolo, raggiungendo la Falcone, le ha riletto quelle dichiarazioni rilasciate al Csm e lei ha aggiunto ulteriori elementi: "Dopo la messa per Giovanni, Paolo mi aveva portato a vedere il campetto di calcio dove giocavano da bambini. Gli confidai che ero scoraggiata. Mi disse: 'Sto lavorando tanto, state tranquilli'. Paolo mi disse parole ancora più precise: 'Sto arrivando a trovare delle cose, altro che Tangentopoli e Tangentopoli'".
A Caltanissetta si indaga sui motivi che portarono Riina a decidere di spingere sull'acceleratore per uccidere il giudice appena 57 giorni dopo Capaci, nonostante i dubbi di diversi componenti della Cupola.
A Palermo, nel frattempo, i verbali del Consiglio superiore della magistratura sono stati acquisiti nel processo d'appello sulla trattativa Stato-mafia. Perché in essi potrebbero esservi ulteriori elementi di verità su quella terribile stagione. Perché la sentenza di primo grado afferma che "l'unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l'organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo - ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci - pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via d'Amelio".
Ma accanto a quel dato raccolto a vent'anni di distanza anche a causa di testimonianze quantomeno tardive vi può essere dell'altro.
Tra le audizioni risultano esservi anche quelle ai magistrati di Palermo, con gli sfoghi sulle scarse misure di sicurezza, le polemiche all'interno del palazzo di giustizia e le dichiarazioni raccolte in alcuni confronti con lo stesso Borsellino.
Negli atti del Csm, ora pubblici, vi è anche la testimonianza del magistrato Enza Sabatino che allora raccontò davanti al "Gruppo di lavoro del Csm per gli interventi nelle zone più colpite dalla criminalità organizzata" di una confidenza ricevuta.
"Il 30 giugno, gli chiesi (a Borsellino, ndr) di un articolo del Giornale di Sicilia, il titolo era: 'Non fu per i contrasti con Giammanco che Falcone andò via dalla procura'. Riprendeva una sua intervista apparsa sul Mattino tre giorni prima. Quel titolo lasciò tutti un po' perplessi. Mi disse: 'Non è una marcia indietro, devi leggere l'intera intervista, è stata pubblicata male'. E dopo questa interpretazione falsata dell'intervista, lui non interviene più da nessuna parte, preoccupandosi per le indagini in corso". Ma la Sabatino aveva anche riferito delle preoccupazioni che il collega manifestava: "Paolo era teso, preoccupato (…) Nei primi giorni di luglio, mi disse che aveva in corso indagini delicate, mi parlò di alcuni pentiti".
E' un fatto assolutamente noto che in quegli ultimi 57 giorni Borsellino aveva iniziato a prendere a verbale le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Mutolo e Leonardo Messina. Collaboratori che gli stavano permettendo di squarciare il velo sulle collusioni tra mafia e politica, tra mafia e servizi segreti deviati, tra mafia e pezzi delle Istituzioni, tra mafia e mondo dell’imprenditoria e degli appalti.
Se Mutolo aveva rilasciato dichiarazioni su figure come Bruno Contrada e i giudici Domenico Signorino e Corrado Carnevale, Leonardo Messina aveva raccontato del "Sistema Siino". Ma forse anche di altro.
Perché nel corso della sua collaborazione è lui tra i primi a raccontare delle riunioni tra i capi dell’organizzazione, tenutesi tra il ’91 ed il 92, nel corso delle quali discutevano proprio di un “progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati".
E' sempre lui, sentito davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia il 4 dicembre 1992, a rivelare che "molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Disse anche che "Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia" era alla ricerca di un "compromesso" con "l'interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno. ... Cosa Nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada". In un successivo interrogatorio disse anche che "Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono state sin dagli anni ‘70 un’unica realtà criminale integrata".
Si può essere certi che di queste cose non accennò anche a Borsellino?
Ventotto anni dopo le stragi la ricerca della verità non si deve fermare e per farlo è necessario che i più alti vertici delle istituzioni si assumano la propria responsabilità.
In questo senso, come ha detto il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo "il lavoro di desecretazione è certamente utile per conservare la memoria dei magistrati uccisi, ma in certi casi può anche essere utile alla ricostruzione di stragi e omicidi".

Foto © Shobha/Contrasto

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