di Davide de Bari e Karim El Sadi - Video
Nella trasmissione di La7 anche Ingroia, Ardita, Amurri e de Magistris
Poco più di un mese è passato da quando il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo è intervenuto per la prima volta a Non è l'Arena, raccontando la vicenda della sua mancata nomina a capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) da parte del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nel giugno 2018. Ieri, intervistato dal conduttore Massimo Giletti, è tornato sul punto ribadendo quanto già detto in altre occasioni: “Io ho raccontato fatti, non interpretazioni né percezioni. E sono pronto sempre a ribadire fatti”.
Lo farà anche giovedì prossimo quando, secondo indiscrezioni, dovrebbe essere sentito davanti alla Commissione parlamentare antimafia che sta approfondendo da settimane la vicenda delle scarcerazioni. Nonostante i tentativi di Giletti di avere qualche commento in più, Di Matteo ha ribadito che “quella è una vicenda istituzionale” per cui “quello che umanamente ho provato io non conta nulla me lo tengo per me”. “Certo che mi sono chiesto perché non sono stato scelto - ha proseguito - però ripeto e mi sono dato delle spiegazioni ma non sarebbe serio se le spiegazioni le fornissi, perché sono le mie spiegazioni”.
Le scarcerazioni dei boss, segnale devastante
Nella trasmissione, Di Matteo ha dunque parlato del significato che le scarcerazioni dei boss mafiosi, in tempi di Coronavirus, possono avere assunto negli ambienti criminali. “E’ un segnale che viene colto dalla maggior parte della popolazione come un segnale quasi di impunità del mafioso o comunque un segnale di speranza anche per chi è stato condannato più volte. - ha detto - Anche il peggiore dei mafiosi ha diritto alla tutela della sua salute ma lo Stato ha il dovere di fare di tutto perché la salute di ciascun detenuto venga tutelata all'interno delle strutture". Non solo. Quando Massimo Giletti ha ricordato che sono stati scarcerati diversi detenuti (oltre 300), il magistrato ha ricordato che “è un segnale devastante dal punto di vista simbolico e comunque il ritorno a casa è idoneo a produrre anche degli effetti concreti pericolosi per il futuro. Un mafioso anche al 41 bis si industria sempre per cercare di fare arrivare, soprattutto se è un capo, le direttive fuori dal carcere ai suoi. Figuriamoci se quel mafioso ha avuto la possibilità di tornare a casa".
Celle aperte
A intervenire sulla questione delle carceri è stato anche il consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, ex dirigente del Dap, che ha parlato di un altro problema che si sta manifestando all'interno delle carceri: l'utilizzo del sistema delle “celle aperte”. In cosa consiste? “Durante la giornata delle 8 ore del giorno le celle rimangono aperte e i detenuti possono anche stare fuori dalla cella di detenzione, - ha spiegato il pm antimafia - che può essere positivo, ma si presuppone che ci sia un controllo da parte della polizia penitenziaria. Se invece è una decisione che riguarda tutti i soggetti, questo può comportare disordini di ordine pubblico interno, ma questo può comportare il pericolo che qualcuno subenti alla polizia penitenziaria, che esce fuori dal reparto in quel caso, per il controllo del carcere”. Secondo il consigliere togato “non sono una cosa sbagliata, se si riferisce a detenuti comuni che partecipano alla rieducazione, anzi si utilizza per gestire meglio il trattamento penitenziario”. Il problema, però, si pone quando “ci si rivolge anche a coloro i quali sono soggetti pericolosi”.
Ardita ha tenuto a precisare che le “celle aperte” non sono “previste per l’alta sicurezza, la normativa non prevede questo, ma che per i detenuti in alta sicurezza le celle siano chiuse”. Ma anche “aprire a tutti i comuni potrebbe essere un errore. Se fossero aperte anche all’alta sicurezza ci sarebbero molti altri problemi di natura prevenzionale. Io so che ci sono stati dei tentativi per aprire, ma che ritengo essere esperimenti pericolosi”. Ardita poi è andato più nello specifico spiegando che spesso quando si parla di “alta sicurezza” si “riferisce ai mafiosi, che tendono a controllare ogni realtà, dalla quale non c’è uno spazio controllato dallo Stato, immagini se non controllano il carcere. Immagini se c’è uno che è dentro per reati di mafia che intende collaborare e incontrare un magistrato è chiaro che non può farlo perché la sua cella è aperta e c’è uno spazio in cui decine di persone lo controllano in ogni momento e quindi non può più gestire la sua scelta di collaborare con la giustizia. Secondo me è impossibile che siano aperti i detenuti di mafia e se lo fosse sarebbe molto grave”. Sempre riguardo le celle aperte, Giletti ha mostrato una circolare in cui si evince che ben 13 sezioni penitenziarie attuano la politica delle celle aperte anche ai detenuti in alta sicurezza.
Le difficoltà sull’indagine Trattativa Stato-Mafia e l’Anm e Csm contro
In un altro passaggio di intervista con Nino Di Matteo si è parlato dell’inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia e delle difficoltà riscontrate durante le indagini. “Quando partì questa indagine sulla trattativa Stato-mafia molti pensavano che fosse frutto di una costruzione di un teorema politico di magistrati un po' fantasiosi. Nel tempo molti si resero conto che l'indagine si riferiva anche a dei fatti concreti e non era frutto di una fantasia”. “Noi - ha aggiunto - abbiamo avuto difficoltà di tutti tipi, non potevamo non prevederle perché la nostra indagine si indirizzava non solo nei confronti dell'alta mafia ma anche nei confronti di appartenenti di alto livello ad apparati sicurezza all'Arma dei Carabinieri a funzionari di polizia a politici, non potevamo non prevedere che sarebbe stata anche una difficile indagine e che non avremmo avuto il plauso di nessuno e d'altra parte un magistrato non deve assolutamente né pretendere né sperare questo”. Il pm antimafia ha poi ricordato la serie di attacchi che arrivarono in seguito al caso delle intercettazioni tra l'allora indagato Nicola Mancino (poi assolto per il reato di falsa testimonianza ai pm, ndr) e l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, poi distrutte dalla Corte Costituzionale. “C’è stato un momento - ha spiegato il magistrato - in cui soprattutto dopo la vicenda delle intercettazioni che erano state legittimamente disposte dal Gip su nostra richiesta per le utenze in uso al senatore Mancino e alla registrazione di alcune telefonate con il presidente Napolitano, che a noi è stato detto di tutto siamo stati definiti ricattatori del Capo dello Stato, eversori, quando morì il compianto dottor D'Ambrosioassassini e in quell'occasione, rispetto a queste affermazioni, che non sono mi consenta di semplice critica ma di ingiuria e calunnia, non ci ha difeso nessuno". In quel momento difficile, ha poi ricordato Di Matteo, “Anm e Csm anziché diciamo difendere non Nino Di Matteo,ma l'operato dei magistrati che indagavano e non lo avevano fatto in maniera scorretta perché nessuno ha mai detto che abbiamo violato una qualsiasi norma di legge, in quel momento hanno preferito per motivi di opportunità schierarsi dalla parte del potere politico”.
Non riforma, ma la svolta etica
Il pm antimafia ha anche parlato della bufera e degli scandali che hanno colpito la magistratura e il suo organo di autogoverno: “Privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell'appartenenza ad una corrente o ad una cordata di magistrati è molto simile all'applicazione del metodo mafioso. La valutazione del lavoro di un magistrato o le nomine fatte per incarichi direttivi nei confronti di un magistrato condizionate da un criterio dell'appartenenza sono assolutamente inaccettabili, - ha proseguito - lo dissi allora, lo ripeto ancora e adesso che sono stato eletto al Consiglio Superiore della Magistratura la mia battaglia attuale e futura sarà sempre quella di cercare di dare un taglio netto o di contribuire a dare un taglio netto a questa mentalità”.
Dunque, per Di Matteo c’è bisogno “più che le riforme serve a mio parere una svolta etica, un cambiamento vero che deve riguardare la mentalità dei consiglieri ma deve riguardare la mentalità di tutti magistrati”. “L’appartenenza - ha spiegato - non può condizionare le scelte, quando si tocca il fondo è il momento buono per ripartire e in questo momento come si suol dire il re è nudo, dobbiamo trovare la forza necessariamente a tutti costi di invertire per primi noi la rotta, prima che invece qualcuno possa approfittare di questa situazione di difficoltà della magistratura, di mancanza di credibilità della magistratura per riforme che hanno uno scopo che noi non possiamo mai accettare, quello di sottoporre di fatto la magistratura a un controllo da parte del potere politico".
Di Matteo e le porte sbattute in faccia dai 5Stelle
In studio è intervenuto anche l’avvocato Antonio Ingroia, già procuratore aggiunto di Palermo nonché “padre” del processo trattativa Stato-mafia. Ingroia, che con Di Matteo ha condiviso per anni un lungo rapporto di collaborazione professionale, ha raccontato quello che è stato il suo calvario quando i 5Stelle, che hanno sempre usato Di Matteo come bandiera, gli avevano proposto importantissimi incarichi politici al tempo della formazione del primo governo Conte nel 2018. “Io ho una chiave di lettura che elenca una serie di fatti che danno una risposta ai quesiti posti finora”, ha esordito l’avvocato. “La prima data è il 4 marzo 2018, giorno in cui vincono i due partiti presentatisi come partiti anti-sistema, Lega e 5stelle. Il sistema criminale ha paura. Esce sui giornali che Di Matteo sarà il ministro della giustizia perchè membri autorevoli del Movimento 5 Stelle gli avevano prospettato questa possibilità. Altra data: 10 aprile 2018,Di Matteo va alla convention di Ivrea dei 5Stelle e fa una proposta per rivoluzionare la giustizia. Altro che le proposte che ha fatto passare Bonafede, nella quale, per citarne una, propone il sequestro dei beni dei politici corrotti. Si semina il panico. La candidatura di Nino Di Matteocome ministro della Giustizia del Movimento 5 Stelle scompare e a ricoprire quella carica andrà Alfonso Bonafede che, con tutto il rispetto, con una storia e un’esperienza di lotta alla mafia e alla corruzione neanche lontanamente comparabile con quella di Di Matteo”. Ma il tempo dei “voltafaccia” non si è certo esaurito con quel primo episodio. Tempo dopo “escono sui giornali notizie che Nino DI Matteosarà o vice ministro o sottosegretario al ministero della Giustizia con specifica delega del settore della lotta alla mafia, oppure capo del Dap. Ovvero l’unico ruolo nevralgico al ministero che potesse mettere in rilievo l’esperienza di Nino Di Matteo”, ha continuato Ingroia nella sua spiegazione dei fatti. “Cominciano ad arrivare le minacce dei boss in carcere i quali dicono che se Di Matteo va al Dap per loro è la fine. Ciononostante il ministro, che ritengo in buona fede, chiama Di Matteo e gli propone la dirigenza del Dap, oppure solo in alternativa il Direttore Generale degli Affari Penali. Questo lo dice Di Matteo in questa trasmissione. E Di Matteo non afferma assolutamente il falso. L’indomani succede che il ministro cambia idea e nomina Francesco Basentinia capo del Dap, che possiamo dire essere il meno adatto a ricoprire quel ruolo”. Poco più avanti “da quello stesso ministero e dal Dap - ha aggiunto l’avvocato - arriva la circolare del 21 marzo nonostante le proteste della dottoressa Malagoli alla quale viene detto che era stata condivisa in alto, non si sa da chi se solo dal capo del Dap o anche con il ministro della Giustizia”. Di fronte a questo quadro a dir poco inquietante rimangono, secondo Ingroia, alcune domande aperte. “Perché Nino Di Matteonon è stato nominato a capo del Dap, cosa è successo in quelle 24 ore in cui Bonafede ha fatto dietrofront sulla sua nomina, e chi gliel'ha chiesto?”. Ma soprattutto la domanda che Antonio Ingroia ha lanciato in diretta sulla scorta delle quantomeno insolite nomine di collaboratori in via Arenula che poi si sono resi protagonisti della circolare del 21 marzo e di altri interventi discutibili, è: “Quel sistema che non voleva Nino Di Matteo al Dap, come non voleva Luigi de Magistris in magistratura e il dottore Ingroia, è intervenuto anche sul ministro della Giustizia?”.
L’apparato sistemico-correntocratico italiano
Durante la trasmissione è intervenuto in video collegamento anche il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, già sostituto procuratore di Catanzaro che ha fornito alcuni interessanti spunti di riflessione sulle varie tematiche toccate in trasmissione. De Magistris, riprendendo e condividendo a pieno le parole di Nino Di Matteo sul sistema delle correnti, ha detto che “il metodo con cui si opera nel sistema criminale, interrogazioni parlamentari, inchieste disciplinari, ispezioni ministeriali, procedimenti penali e civili per annientare magistrati scomodi, è un metodo mafioso, come dice Di Matteo, ma anche piduista”. “Perché - ha spiegato - come abbiamo potuto vedere dalla vicenda Palamara, molte decisioni da parte di politici, esponenti delle istituzioni, magistrati non vengono prese dal Csm ma ratificate nel Csm. Quindi questo è un caso che somiglia per certi versi al metodo mafioso, in quanto si colpiscono persone oneste e servitori dello Stato, e piduista perché lo si fa in maniera occulta”. Nel corso del suo intervento il sindaco di Napoli ha poi spiegato di star collegando alcuni punti con vicende passate che hanno riguardato lui e Di Matteo, con quanto emerso dall’inchiesta di Perugia sullo scandalo procure e Luca Palamara.
“Io rimasi sbalordito quando la procura nazionale antimafia allontanò Nino Di Matteodal pool stragi prendendo come pretesto un’intervista. Di Matteo oggi lo correla all’apparato sistemico-correntocratico del nostro Paese. E infatti - ha spiegato - molte cose si stanno rileggendo perché in quelle vicende ci sono i contatti tra Palamara ed esponenti apicali dell’ordine giudiziario. Io sto scoprendo alcune cose - do un dato, ha continuato de Magistris nella sua riflessione - Dopo che vennero cacciati i pm di Salerno io andai a raccontare diverse dinamiche alla procura di Perugia 10 anni fa. E avevo molta fiducia perché il magistrato con cui avevo parlato si diceva essere un buon magistrato. Recentemente scopro, dalle intercettazioni del Trojan, che quel magistrato aveva rapporti con Palamara. Inoltre - ha affermato - nelle mie denunce c’erano molte delle persone di cui si sta parlando in questi giorni. Quindi - ha concluso - come dice Di Matteo: o si ha il coraggio di mettere a posto questo sistema oppure sarà una narrazione che fra un anno o due continueremo a fare ma il sistema resterà lo stesso”.
L’estromissione dal pool stragi
Riavvolgendo i fili della storia degli ultimi anni è stato rievocato un altro caso discusso, che ha riguardato Di Matteo: l’estromissione da parte del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, nei confronti del magistrato palermitano dal pool stragi e delitti eccellenti, avvenuto nel maggio 2019. “In quell'intervista in occasione dell'anniversario della strage di Capaci - ha spiegato Di Matteo nell'intervista - io mi limitai a ricostruire tutta una serie di elementi consacrati in sentenze definitive o comunque ampiamente pubblici perché processualmente depositati a disposizione delle parti, che messi insieme l'uno agli altri spiegavano perché la procura nazionale antimafia aveva sentito il dovere di continuare ad approfondire il tema dell'eventuale partecipazione di soggetti non mafiosi al concepimento, all’'organizzazione e all'esecuzione della strage di Capaci. Non ho rivelato assolutamente nulla di segreto, non ho anticipato nessuna attività investigativa che avremmo potuto fare in futuro”.
E' stato ricordato come dall’inchiesta di Perugia, da cui sono emersi scandali all’interno della magistratura italiana, sono venute a galla delle intercettazioni in cui l’ex presidente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati), Luca Palamara, si dimostrava soddisfatto dell’allontanamento di Nino Di Matteo dal pool stragi. “Sono stato estromesso dal gruppo stragi, ho poi verificato dagli atti dell'indagine di Perugia che il dottor Palamara (indagato per corruzione, ndr) - ha detto - prima che avvenisse questa esclusione si era diciamo lamentato del fatto che io facessi parte di questo gruppo e nel momento in cui venne resa nota la mia estromissione, accolse la notizia diciamo con molta soddisfazione, non devo essere io a dire cosa penso”. Una dimostrazione, per certi versi, di come il magistrato palermitano sia tanto scomodo ed inviso anche all'interno della sua stessa categoria professionale. “Io appartengo a quella categoria di magistrati - ha aggiunto il pm antimafia, ora al Csm - che lavorano senza speranza e senza timori, non calcolo le conseguenze di quello che dico però non reputo giusto riferire diciamo dei miei giudizi”. Per Di Matteo l’estromissione dal pool stragi è stata una “enorme amarezza, perché io ho lavorato per decenni sulle stragi, la vita professionale di molti magistrati ancora più autorevoli, prima di me è stata costellata da continue amarezze continue, delegittimazioni e solitudini".
De Raho: “Volevo che Di Matteo tornasse nel pool stragi, ma lui non volle”
A sorpresa, riguardo all’estromissione dal pool stragi del pm antimafia palermitano, in diretta telefonica è intervenuto il procuratore nazionale antimafia, autore dell’allontanamento di Nino Di Matteo con un provvedimento "immediatamente esecutivo”. “L'intervista (di Nino Di Matteo, ndr) non fu sulla trattativa ma sulla strage di Capaci e su quel tema si erano tenute ben due riunioni, con la presenza di vari procuratori distrettuali, si parlava di indagini, di interpretazione di alcune dichiarazioni e le dichiarazioni di Di Matteo finiscono per toccare proprio quei temi. - ha detto in trasmissione - Tanto che uno dei procuratori che aveva partecipato, proprio quello che stava sviluppando le indagini, mandò, proprio il giorno 20, una manifestazione di disagio per quello che era stato detto proprio in relazione a fatti sui quali stava procedendo quella procura". De Raho ha poi spiegato che quel gruppo di lavoro specializzato nelle indagini sulle "entità esterne nei delitti eccellenti di mafia" fu costituito da lui stesso e “avevo chiamato a comporlo proprio Di Matteo, Imbergamo, Del Bene. Mando gli atti alla Commissione del Consiglio superiore perché si valuti la situazione ma non per creare un contrasto ma perché avrei voluto che Di Matteo mantenesse in futuro una condotta regolare. Anche perché io avevo imposto per questi temi un rigore assoluto, una riservatezza che doveva rispettare gli orientamenti che gli altri procuratori della Repubblica stavano seguendo”. Il procuratore nazionale antimafia, dopo aver fatto la nota, un mese dopo, chiese al Csm di riascoltarlo con l’intenzione di “reintrodurlo nel gruppo ma volevo la certezza che da quel momento in poi non vi sarebbero state delle fughe in avanti”. Per quanto riguarda le intercettazioni di Palamara che parlano della soddisfazione del magistrato romano per l’allentamento di Di Matteo, de Raho ha spiegato che “nessuno si è mai permesso di parlare con me di fatti di ufficio, io non ho mai avuto nessuno che mi parlasse per orientarmi o per indicarmi delle strade, ho sempre adottato ogni decisione autonomamente. - ha proseguito - Quando mi sono rivolto alla commissione ho chiesto che Di Matteo fosse reintegrato nel gruppo con il vincolo delle direttive, io ho atteso mesi, non ho coperto il terzo posto fino a che Di Matteo non è stato eletto ed è stato posto fuori ruolo. Per me Di Matteo è un magistrato di grandissimo valore ma non si può violare la riservatezza”. A seguito della telefonata in studio di Federico Cafiero de Raho, Massimo Giletti, ha lasciato la parola alla giornalista Sandra Amurri: “Con tutto il rispetto che ho per il procuratore Nazionale antimafia sono sconcertata dalla sua versione, ma non abbiamo elementi per contestare se non attenersi a ciò che ha detto il dottor Di Matteo. La trovo una cosa un po’ inusuale”. La giornalista infine si è chiesta, alla luce di quanto detto qualche attimo prima da de Raho, “se il procuratore nazionale antimafia, come ha affermato, voleva reintegrare Nino Di Matteo nel pool stragi per quale motivo allora non revoca il provvedimento?”. Allo stato, però, quella domanda è rimasta senza risposta. E per saperne di più, forse, bisognerà attendere che il Csm si pronunci sull'intera vicenda dopo aver già sentito, ormai un anno fa, entrambe le parti.
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