di Aaron Pettinari
Su Il Foglio l'attacco della segretaria generale di Magistratura democratica
Con l'intervento televisivo alla trasmissione "Non è L'Arena", da parte del consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo, si è innescato un "corto circuito" completato dalle domande di quei giornalisti che si sono interrogati su "possibili 'trattative' intercorse fra lo Stato e i detenuti dopo le rivolte di marzo nelle carceri e sulla relazione con le scarcerazioni disposte in questi giorni dai magistrati di sorveglianza". E' questa l'opinione di Mariarosaria Guglielmi, Segreteria generale di Magistratura democratica che, nei giorni scorsi in un articolo su Il Foglio (“I danni alle Istituzioni generati dal metodo Di Matteo”), non è mancata di puntare il dito contro il collega. Non è la prima volta. Anche lo scorso settembre aveva manifestato il proprio sconcerto sulle parole dette da Di Matteo durante la presentazione della propria candidatura al Consiglio superiore della magistratura, nel momento in cui evidenziò le degenerazioni clamorose del correntismo.
La Guglielmi ha apostrofato i fatti raccontati da Di Matteo in queste settimane come "suggestioni" per cui "non esistono smentite" o "argomenti per dare convincenti risposte alle domande e ai dubbi che, come le suggestioni da cui originano, sono destinati a 'rimanere nell’aria'".
Quale colpa?
La colpa del magistrato è quella di aver fatto degli accostamenti che, a detta del segretario di Magistratura democratica, diventano gravi nel momento in cui insinuano il dubbio nei cittadini "se il nostro è uno stato di diritto solido, in grado di tutelare la sua collettività, o se invece quelle organizzazioni criminali, che hanno duramente colpito le istituzioni della Repubblica e scritto pagine tragiche della storia del nostro paese, ancora oggi riescono ad avere la forza di 'ricattarci' e di condizionare in qualche modo anche le decisioni prese ai più alti vertici dello Stato". Come se non fosse vero che le mafie, con il loro giro di affari di oltre cento miliardi di euro l'anno non siano in grado di alterare già il libero mercato, e anche tramite fenomeni come quello della corruzione, non arrivino ad intaccare nel profondo la nostra democrazia. Non solo. Richiamando al dovere dei magistrati ad "esprimersi con equilibrio e misura, tenendo conto delle ricadute che hanno le nostre dichiarazioni sia nel dibattito pubblico che nei rapporti tra le Istituzioni" ed invitando a valutare bene come e dove intervenire nel dibattito pubblico. Insomma per la Guglielmi il magistrato avrebbe dovuto tacere di fronte alla rappresentazione dei fatti distorta che in quel momento veniva effettuata in diretta televisiva ("L’esigenza di dire la propria 'verità' e di rimettere le 'cose al giusto posto' ci libera da ogni dovere di farci carico del significato che nel circuito pubblico le nostre affermazioni sono destinate ad assumere? E, prima ancora, non è la nostra stessa funzione a richiedere che, dentro e fuori dalle aule di tribunale, il magistrato appaia sempre capace di dubitare, di rimettersi in discussione, più che portatore di verità assolute?"). E nella sua lunga esposizione non è mancato anche un riferimento al ruolo della stampa, rea anch'essa di rappresentare una "suggestione" che incrocia "lo stato d'animo collettivo" nell'affrontare l'argomento delle scarcerazioni disposte dalla magistratura di sorveglianza con una considerazione finale alquanto discutibile: "Non sono le domande senza risposta ma le ineffabili suggestioni che una democrazia, specie quando duramente provata dagli eventi, non può permettersi".
Il consigliere togato, Nino Di Matteo © Imagoeconomica
La replica di Autonomia & Indipendenza
Nella giornata di ieri il Gruppo di Coordinamento di Autonomia & Indipendenza, che vede come principali esponenti Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, è voluto intervenire nel dibattito con una nota in cui, di fatto, pur dimostrandosi d'accordo che via sia "la necessità per i magistrati di mantenere sempre, nelle pubbliche esternazioni, equilibrio e misura", difende comunque la libertà che il magistrato (in questo caso Di Matteo) ha di intervenire nel dibattito pubblico, specie se per porre questioni di così grande rilevanza.
"Con una lunga dissertazione il Segretario di MD propone, ancora una volta, al pubblico dibattito un modello di magistrato con tratti identitari molto chiari - si legge - In sostanza un ligio dipendente di Stato, estremamente cauto nell'uso delle parole anche quando le questioni con le quali impatta sono di portata tale da far sussultare il cuore di chiunque voglia servire lo Stato con dignità ed onore. Non contestiamo la necessità per i magistrati di mantenere sempre, nelle pubbliche esternazioni, equilibrio e misura e, tuttavia, quello proposto dal Segretario di MD non è il nostro modello".
L'oblio della memoria
E poi ancora: "Abbiamo memoria di dibattiti surreali durante i quali le parole spese per rimproverare le modalità espressive o l'eccesso di presenza mediatica di uomini che hanno votato la loro intera vita al servizio dello Stato sono state più numerose ed appassionate di quelle spese per apprezzare la straordinaria opera che costoro stavano compiendo. E' questa una follia dialettica, una trappola maledetta nella quale purtroppo sono caduti e cadono in tanti, magistrati, uomini dell'informazione e della cultura, uomini delle Istituzioni. Il sangue versato ha avuto l'effetto di restituire alle cose il loro reale valore, di ristabilire, in modo fisiologico, il giusto rapporto tra i fenomeni e, per qualche tempo, ci si è guardati dal sostenere che alcuni di questi uomini avessero parlato troppo o in modo inopportuno. Il tempo non sia oblio della memoria".
No al conformismo intellettuale
Secondo il Gruppo di Coordinamento di Autonomia & Indipendenza non ci si deve fermare alla valutazione delle parole, ma anche alla sostanza che esse hanno. Un concetto ribadito nella lunga riflessione, diffusa ieri: "Ben vengano equilibrio e misura nell'espressione, e se è il caso ricordiamolo, ma occorre essere estremamente attenti per evitare che tali virtù si trasformino in un alibi per coltivare, più o meno consapevolmente, un grigio, acritico e pericoloso conformismo intellettuale. Il confine, talvolta sottile, può sfuggire se ci ripetiamo ossessivamente il mantra della continenza espressiva".
Ed infine la nota conclude: "Tornare a porre l'accento sul modo con il quale vengono riferite pesanti verità piuttosto che sul loro contenuto comporta rischi gravi: fa perdere il senso dei valori in gioco; confonde il mezzo (la parola) con il fine (la definizione dei fenomeni); sacrifica sull'altare della continenza il coraggio, le fatiche e i sogni di uomini ai quali questo Paese deve tantissimo. Tanto più i fenomeni sono allarmanti, gravi ed inquietanti tanto più il modo dell'espressione scolora di fronte alla sostanza della narrazione. Crediamo che non abbia più senso continuare a parlare delle parole.
Le inquietanti verità che, su più fronti, si stanno disvelando in questi giorni impongono a tutti noi di preoccuparci della loro devastante portata molto più che del modo con il quale ci vengono rivelate".
Foto © Imagoeconomica
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