di Salvo Vitale
Da più parti viene posta la domanda: “Cos’è rimasto dell’eredità di Peppino?” La risposta non è facile. Va riscontrato che in Sicilia i mutamenti sono lentissimi per tutta una serie di ragioni storiche. Nel caso di Peppino dobbiamo valutare che cosa è rimasto nel suo paese, Cinisi e che cosa invece è maturato fuori, nel resto d’Italia. A Cinisi formalmente c’è la cosiddetta via del mare che è intestata a lui, idem dicasi per l’aula consiliare. C’è poi una parte di Casa Nove Maggio, già appartenuta al mafioso Tano Badalamenti e adesso divisa tra l’Associazione Impastato e Giovanni Impastato, che rappresenta l’Associazione Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato: questa Associazione, che ha sede nella casa che fu di Peppino e Felicia è diventata un punto di riferimento per scolaresche e persone di qualsiasi età che si dedicano al cosiddetto “turismo civile”: si calcola che è visitata, in media da 10 a 20 mila persone l’anno. E non si tratta solo di visite formali, perché a ognuno Giovanni racconta di Peppino, di sua madre Felicia e di tutto quello che è stato fatto in loro nome. Per il resto una parte del paese stenta ancora a dare cittadinanza a Peppino: parecchi genitori, ai loro figli che chiedono informazioni, riferiscono che Peppino era “uno sfardatu, lagnusu, bestemmiatore, provocatore, senza rispetto per la sua famiglia, senza voglia di lavorare ecc.” Insomma, ancora fango sulla sua figura, ed il motivo è semplice, lo ha scritto la Commissione Antimafia nella sua relazione sul depistaggio delle indagini seguite alla morte: “Peppino Impastato è stato ucciso perché non era omogeneo al sistema di potere del suo paese... Egli aveva lucidamente individuato un percorso di contrasto alla mafia fondato sulla pubblica denuncia, coraggiosa e originale, di persone e fatti concreti, denuncia calata nel più generale contesto di un lavoro politico e culturale ricco, approfondito e impegnato, volto a far nascere e consolidare, soprattutto tra le nuove generazioni, una coscienza antimafia. Ma, soprattutto, Giuseppe Impastato aveva compreso che la forza del gruppo di giovani che in lui si riconoscevano, avrebbe potuto dispiegarsi utilmente in favore della legalità e della giustizia, utilizzando anche la postazione del Consiglio Comunale di Cinisi, al quale era candidato nelle liste di democrazia Proletaria. Troppe cose aveva capito Giuseppe impastato e troppo lucida e determinata era la sua battaglia, perché la mafia potesse tollerarne l’azione instancabile e, nella prospettiva del Consiglio Comunale, ancora più efficace e documentata. Con le sue battaglie egli poneva in pericolo gli interessi mafiosi della speculazione edilizia e quelli del traffico dell’eroina che avevano nell’aeroporto di Cinisi uno snodo fondamentale, come dimostreranno le indagini giudiziarie degli anni successivi e le sentenze definitive di condanna, proprio per quei reati denunciati a Radio Aut da Giuseppe Impastato”.
(Nota: Peppino Impastato: Anatomia di un depistaggio, relazione della Commissione Parlamentare Antimafia - Editori Riuniti - Roma 2001 pag. 184)
Il Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato continua la sua battaglia spesso isolata di denuncia contro le mafie del pianeta ed è attualmente impegnatissimo nella realizzazione del Memoriale-Laboratorio della lotta alla mafia.
Il casolare in cui è stato ucciso Peppino, dopo anni di promesse, di impegni, da parte dei politici regionali, per una sua sistemazione, è ancora abbandonato all’incuria e al degrado, adibito a recinto per vacche e praticamente inagibile.
Dei compagni di Peppino è rimasto ben poco, per questioni anagrafiche, per problemi di divisioni interne, per mancato ricambio generazionale, per difficoltà economiche motivate dal rifiuto di accedere a finanziamenti pubblici, e perché non si è verificato un momento d’incontro e di apertura con i segmenti di un contesto sociale spesso diffidente e ostile. Di fatto c’è ancora chi si trincera dietro il momento dell’ortodossia, chi sostiene di essere il depositario unico della personalità e dell’opera di Peppino, ritenendo abusivo chi ne parla, ne scrive o ne usa l’immagine, e chi invece sostiene che Peppino appartiene a tutti e che si può fare riferimento a lui da qualsiasi parte politica e persino religiosa.
Per il resto esiste, come sempre la solita divaricazione tra impegno e commemorazione, tra la tensione morale e il formale momento del ricordo, con tutto il suo contorno di retorica. Quello che Peppino non avrebbe mai voluto era di essere ridotto a icona, a un santino utile in qualche ricorrenza, a un personaggio o a un episodio di un certo momento storico oggi non più attuale e tramontato. Molti ragazzi ogni anno, il 9 maggio vengono a Cinisi e riempiono il paese di festosi momenti di vita, di slogan il più gridato dei quali è “Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”. Ma se dobbiamo poi scendere a fondo in quelle che furono le idee di Peppino tutto diventa più problematico. Quali idee?
Le idee
Peppino è stato un comunista, nel senso ortodosso del termine. Era uno di quelli che credevano in una società senza ingiustizie, senza separazioni di classi, senza ricchi e poveri, senza detentori dell’autorità e sudditi che la subiscono, senza detentori della cultura e proprietari dei suoi mezzi di diffusione. In una sua agendina c’è scritto: “Il comunismo non è oggetto di libera scelta intellettuale, né vocazione artistica: è una necessità materiale e psicologica”. E quindi il comunismo come “necessità”, per dare un senso alla vita, per motivarne le scelte, ma soprattutto per non fermarsi alla contemplazione o all’ideologia, ma per farla diventare “prassi”, azione concreta, lotta per realizzarlo.
Peppino credeva nella forza dell’informazione e della comunicazione, nella circolazione delle idee alternative e nel possesso degli strumenti per realizzarla. Radio Aut è stato il primo e, forse, ad oggi, l’unico esempio di come fare informazione parlando attraverso il microfono dei problemi reali della gente, dei loro drammi, denunciando la corruzione e gli affari, ma soprattutto stimolando la formazione di un certo modo di pensare che non fosse quello omogeneo e omogeneizzato dell’informazione di regime. Il messaggio è attualissimo se si guarda all’odierna gestione dell’informazione, imbalsamata da paletti e da censure, oltre che dalla mancata protezione dei giornalisti, che ha condotto l’Italia ad occupare, secondo la classifica di Reporters sans frontières, il 77° posto nel mondo per quel che riguarda la libertà di stampa. Meglio di noi anche Burkina Faso e Botswana.
La radicalità delle scelte di Peppino è un altro elemento che ben pochi oggi saprebbero o vorrebbero condividere: “Peppino ruppe l’incantesimo che vuole ciascuno al suo posto, chi sotto e chi sopra e incarnò una contestazione a tutto tondo: contro il padre, il padrino, contro la famiglia e il familismo, contro la Cinisi del “don” e dei suoi sicari, contro l’isola dei gattopardi e della gente perbene, contro le tre “scimmiette” appese alle scalinate di un Duomo o di un Municipio che verrà ribattezzato Mafiopoli, contro anche i modi tradizionali della protesta antimafiosa che gli parevano retorici e inefficaci” (NOTA: Contributo di Nichi Vendola ad “Anatomia di un depistaggio”, op.cit. pag. 14). Si può osservare che oggi i tempi sono cambiati, che la mancanza di lavoro ha finito con il restituire alle famiglie quel ruolo di punto di riferimento che la contestazione del ’68 aveva cercato di demolire attraverso la denuncia dei meccanismi autoritari di trasmissione dei codici comportamentali, ma bisognerebbe attentamente analizzare quanto di queste convivenze sia frutto di libera scelta e non di necessità e quali tipi di rinunce comporti.
All’eredità lasciata da Peppino appartiene anche il suo modo “unico” di fare la lotta contro la mafia: nomi e cognomi senza mezzi termini, a parte le deformazioni di “Onda pazza”, denuncia aperta e senza mezzi termini degli intrallazzi tra potere politico e mafia, denuncia dettagliata degli affari in mano alle imprese mafiose della zona, salvaguardia del territorio dalle speculazioni affaristiche, ma soprattutto uso della satira per distruggere l’immagine degli “intoccabili” nella mentalità popolare: l’immagine del sindaco di Cinisi Geronimo e di Tano Seduto che stipulano il patto di sangue mescolando le loro urine, anzi la loro merda” è una delle più efficaci usate per denunciare uno di questi immondi connubi. Tra la satira televisiva attuale e quella di Radio Aut la differenza è che alla Radio non c’erano limiti né censure e non è mai intervenuta neanche una denuncia o una minaccia di denuncia, cosa che invece oggi è ricorrente. Va aggiunto che non si trattava di vera e propria improvvisazione, perché alla base c’era la predisposizione di un “canovaccio” su cui lavorare, alternando battute, scene e brani musicali che con esse avevano qualche riferimento. Anche quella della denuncia del traffico d’eroina, di cui negli anni ’70 Punta Raisi era un crocevia, va citata come un momento importantissimo dell’attività di Peppino.
L’eredità
Sarebbe facile dire che dell’eredità di Peppino oggi è rimasto ben poco, che le tensioni degli anni ’70 sono finite, che viviamo in un tempo in cui, come spesso banalmente si dice, non ci sono più ideologie, in cui l’acquiescenza e l’omologazione dei comportamenti è diventata abitudine.
Sarebbe facile dire, come ha scritto Stefano Venuti in una sua poesia, che quella di Peppino è stata una “nobilissima illusione”, irripetibile e impossibile da realizzarsi, che Peppino è stato un “eroe”: gli eroi, per definizione, sono individui non comuni, dotati di particolari capacità, uomini controcorrente o superuomini, è questo basta per farceli ritenere inarrivabili, inimitabili, per imbalsamarli nel loro ruolo mitico.
Sarebbe facile dire che Peppino era un visionario, uno che credeva in qualcosa di impossibile, cioè la realizzazione di una società comunista attraverso la rivoluzione e la fine dei privilegi: un’utopia resta tale fino a che la si ritiene tale.
Peppino è stato un uomo, un ragazzo come tanti del suo tempo, che ha fatto le sue scelte tra quelle del suo tempo, che non si è fermato a guardare e ad aspettare che passasse il treno, ha avuto molto coraggio nell’operare le sue scelte di rottura, rispetto a chi preferisce dormire comodo nella bambagia, ha utilizzato o inventato gli strumenti per la costruzione di un nuovo mondo, individuando nel suo paese, che era uno degli ambienti più difficili, il terreno su cui lavorare.
Un uomo con tanta voglia, per dirla con lui, di “sorridere e vivere intensamente”, con i suoi drammi interiori, con i suoi bisogni inespressi, con le sue esplosioni di gioia, con le sue alternanze tra impegno politico e divertimento, tra delusioni e bisogno d’amore.
Peppino non sarebbe esistito senza i suoi compagni, che è riuscito a coagulare grazie alla sua grande capacità di fare aggregazione, di comunicare idee ed entusiasmi e di andare oltre la banalità. Anche questa è una dote preziosa, ancor più in un tempo in cui la società contemporanea ci ha ritagliato addosso cappe di solitudine relegando la nostra capacità comunicativa e ricreativa al cellulare o al computer o al televisore. Tornare ad incontrarsi e a parlarsi è fondamentale se non vogliamo perdere la nostra “aristotelica” capacità di essere cittadini di una polis, di far politica.
A distanza di quarant’anni la sua storia non ha smesso di creare ammirazione, soprattutto tra i giovani, che lo sentono vicino, ma la sua eredità è ancora da scoprire, da portare avanti, con tutte le difficoltà che comporta per chi, emotivamente ha deciso di farne un punto di riferimento.
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