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di Aaron Pettinari
L'elenco trasmesso al ministero della Giustizia dal neo vice-capo del Dap, Roberto Tartaglia

Se si guarda ai numeri il dato è più che allarmante. Negli ultimi due mesi sono usciti dalle carceri 376 detenuti tra 41 bis (il carcere duro previsto per i mafiosi), As1 (cioè usciti dal 41-bis), e As3 (i condannati per reati di competenza delle Direzioni distrettuali antimafia, come per esempio il traffico di stupefacenti). Ed ora altri 456 hanno presentato istanza di scarcerazione per il coronavirus. La nuova "lista d'attesa" è stata trasmessa dal vice-capo del Dap, Roberto Tartaglia agli uffici del ministero della Giustizia. Secondo quanto riportato da La Repubblica, nella relazione si dà atto che dei 456 boss che vorrebbero lasciare il carcere "225 sono detenuti definitivi" e “231 sono detenuti in attesa di primo giudizio, imputati, appellanti e ricorrenti”. Il Dap ha subito dato inizio “all’acquisizione dagli istituti penitenziari delle istanze presentate e alla conseguente attività di analisi finalizzata alla predisposizione di idonee misure organizzative”.
Il Dap fa anche sapere che allo stato sono 745 i detenuti sottoposti al 41 bis, mentre 9.069 sono i detenuti appartenenti al circuito penitenziario dell’alta sicurezza divisi a loro volta in tre tipologie: "Appartengono al sottocircuito alta sicurezza 1” in 273, 80 detenuti “al sottocircuito alta sicurezza 2” e 8.716 detenuti appartengono al sottocircuito alta sicurezza 3.
La relazione del Dap è conseguente alle disposizioni che il ministro della Giustizia Bonafede ha voluto dare dopo la "pioggia di polemiche" sulle scarcerazioni dei boss che hanno portato alle dimissioni del capo del Dap Francesco Basentini.
Proprio ieri il Csm ha dato l'ok alla nomina di Dino Petralia come nuovo capo Dap e anche la scelta di Roberto Tartaglia come vice va nella direzione di un rinnovamento di indirizzo rispetto al carcerario.
Sicuramente risposte valide anche se ci si chiede come mai tanto ritardo nell'intervento. Perché è dagli inizi di marzo che la questione carceri si era resa particolarmente delicata. Dapprima con le proteste dei detenuti, scoppiate quasi in contemporanea, di diversi istituti penitenziari. Poi con le prime scarcerazioni che avevano fatto scattare il grido di allarme da parte di diversi magistrati (da Nino Di Matteo a Sebastiano Ardita, fino a Nicola Gratteri), che hanno evidenziato i pericoli rispetto a quanto stava accadendo.
Quando sono giunti i primi provvedimenti da parte dei Tribunali di Sorveglianza, alcuni molto discutibili nella misura in cui si va oltre al semplice "diritto alla salute", il "gioco" era ormai fatto.
Un peso di rilievo lo ha avuto anche la circolare del Dap del 21 marzo (coincidenza vuole che in quel giorno si celebri la Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie), con cui si chiedeva ai direttori delle carceri di comunicare "con solerzia alla Autorità giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza", il nominativo di quei detenuti che hanno più di 70 anni e sono affetti da determinate patologie.

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Federico Cafiero de Raho


L'emorragia di scarcerazioni
Il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, intervistato da Il Fatto Quotidiano, individua proprio in quella nota l'inizio di un "meccanismo che ha portato centinaia di persone alla detenzione domiciliare". Una vera e propria "emorragia di scarcerazioni".
Dopo i primi, Vincenzino Iannazzo, boss di Lamezia Terme condannato a 14 anni e mezzo di condanna in appello per associazione mafiosa e altro, e Rocco Santo Filippone, imputato con Giuseppe Graviano nel processo ‘Ndrangheta stragista, si è arrivati anche ai boss al 41 bis Francesco Bonura e Pasquale Zagaria.
Nei giorni scorsi il quotidiano La Repubblica, partendo proprio dall'elenco inviato dal Dap al ministero, ha aggiornato l'elenco.
Così si è scoperto che sono tornati a casa figure di rilievo come Antonino Sacco, reggente del potente mandamento di Brancaccio, feudo dei boss stragisti Giuseppe e Filippo Graviano; Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli che fino a pochi mesi fa dettava legge sui Nebrodi, la 72enne Rosalia Di Trapani, moglie del capomafia di San Lorenzo Salvatore Lo Piccolo, con in capo una condanna ad 8 anni per estorsione aggravata e favoreggiamento. E' tornato a casa anche Franco Cataldo, 85 anni, all’ergastolo per essere stato tra i carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e sciolto nell’acido. E poi Giacomo Teresi di Brancaccio, il proprietario della macelleria dove i mafiosi progettavano di uccidere il giudice Gian Carlo Caselli.

Mancata comunicazione e ritardato intervento
Certo è che in questi mesi all'interno del Dipartimento amministrazione penitenziaria la gestione dell'emergenza è stata disastrosa e anche nella comunicazione altri organi importanti, come la Procura nazionale antimafia, è stata quantomeno deficitaria. "La Dna viene a conoscenza del problema soltanto il 21 aprile - ha raccontato de Raho a Il Fatto - un mese dopo la nota del Dap. Prima nessuno ci aveva informati. Allora richiamiamo immediatamente l’attenzione del ministro della Giustizia, ricordando che l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario stabilisce che il procuratore nazionale può intervenire nel caso di detenuti per mafia. Abbiamo chiesto di ricevere le istanze di scarcerazione inoltrate ai Tribunali di sorveglianza per poter esprimere un nostro parere".
Di fronte alle rimostranze della Procura il ministro Bonafede è intervenuto tanto che il 30 aprile si è arrivati al decreto legge del governo che per permessi e scarcerazioni rende obbligatorio il parere delle Direzioni distrettuali antimafia (per i detenuti per mafia e terrorismo) e della Direzione nazionale (per i detenuti al 41-bis). Un parere che comunque non è vincolante.

di matteo nino c imagoeconomica 1314212

Nino Di Matteo


Il vecchio e il nuovo
Il ministro della giustizia Bonafede, colpito dalla bufera del confronto con Nino Di Matteo sulla mancata nomina, nel 2018, come capo al Dap, durante il question time alla Camera ha annunciato che è allo studio un "vincolo normativo" per ridiscutere la posizione di quei detenuti mafiosi che, grazie al coronavirus, sono riusciti a ottenere i domiciliari.
“L’indipendenza dei giudici di sorveglianza è sacra, applicano la legge. - ha detto Bonafede - Ma le leggi le scriviamo noi. I domiciliari sono stati concessi per l’emergenza sanitaria. Ma le condizioni ora sono cambiate".
"Vedremo quali saranno le nuove norme che emanerà il governo - ha ribadito oggi de Raho - vedremo se sarà possibile far rientrare in carcere i boss già usciti. Quanto alle nuove domande, quelle dopo il 30 aprile, la Procura antimafia fornisce il suo parere entro due giorni e lo invia ai Tribunali di sorveglianza". Così, ottenuti tutti gli elementi per capire la figura del soggetto che ha di fronte, dovrà comunque decidere, magari valutando anche strade alternative alla detenzione domiciliare.
Tra le idee per la nuova normativa anche la possibilità di una revisione periodica, ogni mese o con altre scadenze, che i giudici di sorveglianza dovranno rispettare per confermare o meno la detenzione domiciliare.
Quel che è certo è che bisogna intervenire con celerità. Tra i boss che hanno presentato istanza per il rischio contagio da coronavirus figura anche Antonino Cinà, palermitano ed ex medico personale di Totò Riina, ergastolano e condannato anche nel processo sulla trattativa Stato-Mafia. Il capomafia si trova nel carcere di Parma, dove è detenuto col regime speciale del 41 bis. 
Intanto nella giornata di ieri il centrodestra ha depositato una mozione di sfiducia in Senato contro il titolare di via Arenula: sotto la gestione delle carceri (dalle rivolte alle scarcerazioni), ma anche per il caso Di Matteo e la mancata nomina al Dap. Una questione, quest'ultima, su cui il ministro della Giustizia continua a non voler dare chiarimenti.

Foto © Imagoeconomica

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