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alpi hrovatin chi l ha vistoLo speciale di “Chi l’ha visto” a 26 anni dall’omicidio della giornalista e del cineoperatore
di Karim El Sadi - Video

Sono sicura che non farò in tempo ad avere risposte alle mie domande sulla morte di Ilaria e Miran. C’è chi aspetta che il buon Dio mi raccolga e che il capitolo Alpi-Hrovatin finisca”. Sono parole amare, quelle di Luciana Alpi, madre della giornalista Ilaria, scomparsa a Mogadiscio il 20 marzo 1994 insieme al proprio collaboratore Miran Hrovatin. Parole purtroppo rivelatesi veritiere: Luciana è spirata due anni fa senza poter conoscere la verità sulla morte di sua figlia. Ora però ad evitare che quel capitolo venga chiuso per sempre ci sono nuove indagini disposte dal gip di Roma, dalle quali pare siano emersi nuovi elementi tali da poter riaprire l’inchiesta, la promessa di declassificazione degli atti, e l’impegno di numerose realtà giornalistiche, dalle più piccole alle più grandi. Tra queste, i colleghi della Rai per la quale Ilaria e Miran lavoravano.
Venerdì sera la trasmissione “Chi l’ha visto?” ha ricordato il macabro delitto tentando di rispondere alle numerose domande rimaste aperte nel corso di questi 26 anni, a partire da quell’annuncio angosciante del collega Flavio Fusi durante un’edizione straordinaria del TG3.
Il lavoro di IIaria per la redazione esteri del TG3 iniziò nel 1992 in Somalia. Lì la giovane reporter raccontò la sanguinosa guerra civile, la missione di pace “Restore Hope” delle Nazioni Unite (alla quale partecipò un contingente militare italiano), la povertà e il colera. Ben presto però, si accorse che attorno a quel conflitto iniziato nel ’91 con la caduta del dittatore Siad Barre, gravitavano interessi internazionali. Affari indicibili da non disvelare, probabilmente con la complicità delle autorità somale e di governi stranieri. Intrighi internazionali sui quali la giovane giornalista iniziò ad indagare. Forse, proprio per questo, venne eliminata.

La nave Faraax Omar
Il puzzo di marcio si concentrava a Bosaso, città portuale situata nella regione semiautonoma del Puntland, a 2000 chilometri dalla caotica Mogadiscio. Uno snodo importantissimo per la cooperazione e gli investimenti miliardari. Lì Ilaria si recò il pomeriggio del 14 marzo del ’94. Con lei non c’era il reporter Alberto Calvi, che l’accompagnò in tutti i precedenti viaggi, ma il friulano Miran Hrovatin. A Bosaso, poche settimane prima del loro arrivo, era stata sequestrata una nave, la Faarax Omar, facente parte di una flotta di cinque pescherecci e una nave madre più grande. Tutte imbarcazioni costruite in Italia e donate dalla cooperazione italiana alla Somalia quando era ancora al potere Siad Barre.



L'intervista di Ilaria Alpi al "sultano" di Bosaso


La Faraax Omar era stata fermata perché non in regola con le norme di pesca su quelle acque. Per il loro rilascio si interessò subito l’esercito italiano che organizzò l’intervento di due motovedette e due elicotteri per liberarla salvo poi fare marcia indietro, come ha raccontato il giornalista Maurizio Torrealta ai microfoni di “Chi l’ha visto?”. La flotta era gestita dall’imprenditore italo-somalo Omar Mugne, personaggio chiave nel giallo Alpi-Hrovatin. Uomo di Barre, laureato in ingegneria a Bologna, divenne amministratore della flotta, una volta entratone in possesso con un abile passaggio di mano tramite la SHIFCO, una società fondata in Italia che permise in qualche modo la privatizzazione delle navi. Informazioni di primo livello queste, snocciolate alla giornalista romana in un’intervista che si rivelerà cruciale negli anni a venire, dal "sultano" Abdullahi Mussa Bogor, l’uomo a capo del gruppo di migiurtini che sequestrò la Faarax Omar. “Mugne era a capo della SHIFCO - disse il “il sultano” a Ilaria Alpi - Parte di questa proprietà apparteneva ad una società italiana in collusione con lui. E’ la società che manovra, Mugne non è niente”. Il nome della società italiana Abdullahi Mussa Bogor, non volle rivelarlo: “Non posso, queste società hanno dei lacchè ovunque”. In pratica c’erano troppe orecchie in giro. Ma perché tanta riservatezza se la nave sequestrata si occupava solo di prodotti ittici? Evidentemente non veniva utilizzata solo per quello. Quelle navi infatti avrebbero trasportato armi da vendere alle milizie somale o rifiuti tossici da sotterrare nel paese africano. Lo sapevano i servizi segreti italiani, che in un'informativa indicavano Mugne come trafficante d’armi, e lo sapeva “il sultano” di Bosaso. L’intervista dura venti minuti circa ma “Chi l’ha visto?” ha sottolineato alcuni aspetti che sfuggirebbero tranquillamente ai più. Il nastro della chiacchierata di Ilaria col “sultano” inizia e finisce bruscamente con un piccolo slittamento, senza presentazioni o ringraziamenti. Come se qualche mano esperta avesse tagliato qualche passaggio della registrazione, sia all’inizio che alla fine. A riprova di ciò, infatti, lo stesso “sultano” di Bosaso, ascoltato anni più tardi dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio, riferì che la sua intervista era durata molto, circa tre ore, al punto che Hrovatin dovette chiedere lo stop più volte per cambiare la cassetta.
E’ possibile dunque che l’intervista fosse in realtà più lunga di 20 minuti? E se così fosse può essere che nella parte tagliata “il sultano” rivelò a Ilaria e Miran alcune informazioni riservate sulle merci trasportate dalla flotta? Domande senza risposta che si aggiungono alla lunga lista di misteri sul caso Alpi. Di certo c’è che, come ha osservato il giornalista Torrealta nel corso della trasmissione, “se si vuole trovare una motivazione per commettere questo delitto è proprio quella del sequestro di questa imbarcazione e di quello che poteva contenere”. Di fatti “se fosse venuta fuori la notizia della presenza di una nave italiana piena di armi o piena di rifiuti radioattivi - ha continuato Torrealta - sarebbe stato imbarazzante, inaccettabile”. Soprattutto perché l’Italia in Somalia era in missione di pace.

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Hashi Omar Hassan

L’omicidio e i depistaggi
A pochi giorni di distanza dai fatti di Bosaso i due inviati del TG3 tornarono a Mogadiscio. Per loro iniziarono ad arrivare minacce di morte, come documentato da informative del Sismi. Evidentemente a qualcuno non andava giù che avessero indagato e probabilmente scoperto qualcosa che non dovevano scoprire su quei pescherecci e le loro rotte.
Erano le 14.30 del 20 marzo 1994, i due reporter stavano viaggiando su un fuoristrada, quando una Land Rover li intercettò nei pressi dell’hotel Amana, vicino all’ambasciata italiana. Il fuoristrada venne crivellato dai colpi di mitragliatore: Hrovatin morì sul colpo, Alpi poco dopo per un colpo alla tempia. I killer si diedero poi alla fuga. Due giorni più tardi la procura di Roma avviò una inchiesta, il fascicolo venne affidato al sostituto procuratore Giuseppe Pititto. Nel frattempo a Mogadiscio iniziarono a palesarsi una serie di coincidenze misteriose: sparirono i taccuini (tra questi quello che utilizzò Ilaria nell’intervista al “sultano”) e le videoregistrazioni, vennero manomessi i bagagli durante le operazioni di rimpatrio. E persino il certificato di morte andò perduto. Iniziò ad attivarsi la macchina del depistaggio, come avvenuto nella stragrande maggioranza dei “cold case” italiani della seconda metà del XX secolo. Per alcuni Ilaria e Miran vennero uccisi per via di una rapina finita male. Per altri a causa di un fallito tentativo di sequestro. Ma la verità era chiara fin da subito: si trattò di un’esecuzione. L’ammiraglio Armando Rossitto, ex capo dei servizi sanitari della nave Garibaldi, uno dei primi ad esaminare i corpi di Ilaria e Miran, ha dichiarato a “Chi l’ha visto?” che si trattò di due delitti fatti “a bruciapelo da distanza ravvicinata”. Quindi un’esecuzione. I tre referti fatti da Rossitto, tra l’altro, vennero consegnati ai magistrati dopo due anni. Il 4 maggio 1996, la salma di Ilaria Alpi venne riesumata su ordine del pm Giuseppe Pititto per chiarire la dinamica dei fatti e il 25 giugno dello stesso anno la perizia balistica decretò che il colpo fatale venne esploso a distanza, probabilmente con un kalashnikov. Troppi dubbi, troppe magagne, il caso Alpi doveva chiudersi prima che fosse troppo tardi, quindi serviva un capro espiatorio. Il colpevole venne trovato nel gennaio del 1998. Il cittadino somalo Hashi Omar Hassan venne portato a Roma dall’ambasciatore Giuseppe Cassini per testimoniare insieme ad altri connazionali sullo scandalo, uscito sul settimanale Panorama, concernente le presunte violenze dei soldati italiani in Somalia. Insieme a lui c’era anche l’autista di Alpi e Hrovatin, Sid Abdi, nonostante quest’ultimo non fosse vittima di abusi. “Perché allora venne portato in Italia insieme agli altri Somali?”, si è chiesta la giornalista di “Chi l’ha visto?”. Ad ogni modo l’autista sostenne che Hashi fosse uno dei sette uomini del commando che sparò sui due giornalisti italiani. Abdi, come si è visto durante la trasmissione, al suo arrivo a Fiumicino venne circondato dai giornalisti che gli chiesero se fosse a conoscenza dell’identità dei killer di Ilaria e Miran. “No, non conosco nessuno di loro”, rispose scuotendo la testa. Alla sua destra però, in quel frangente, c’era proprio Hashi, il ragazzo che accuserà il giorno seguente di essere uno dei sicari. Possibile non si sia accorto di averlo accanto in quel momento?
Ecco quindi che nel giro di 24 ore il giovane Hashi, finito in manette, da vittima divenne improvvisamente carnefice. Ad accusarlo c’era anche un altro somalo: il “testimone oculareAli Ahmed Ragi detto “Gelle” che, rilasciata la propria testimonianza (fece solo il nome del ragazzo), svanì nel nulla poco prima che questi arrivasse a Roma. Eppure, come è stato mostrato nello speciale di “Chi l’ha visto?”, gli agenti che si occupavano di “Gelle” lo seguivano nei suoi movimenti, gli fornivano denaro e gli trovarono un mestiere, insomma sapevano dov’era. Possibile sia diventato un fantasma così facilmente? Intanto il pm Franco Ionta, che prese il posto di Pititto, firmò la richiesta d'arresto per Hashi. Ionta successivamente chiese per il ragazzo la condanna all'ergastolo, ma nel luglio del 1999 il giovane venne assolto. Nel mentre, stando a una nuova perizia balistica sull’omicidio, i colpi mortali vennero sparati a bruciapelo, da distanza ravvicinata. Ad un anno circa dall’assoluzione in primo grado la corte d'Assise d'Appello ribaltò la sentenza condannando Hashi all’ergastolo. Si tratta di "una sentenza nera, non ci accontentiamo di questa verità. Vogliamo i mandanti veri" commentarono i genitori di Ilaria. Nell’ottobre del 2001, la Cassazione annullò la sentenza d'appello limitatamente all'aggravante della premeditazione e alla mancata concessione delle attenuanti generiche, ma confermò la condanna per omicidio volontario e rinviò il procedimento per nuovo esame ad altra sezione della corte d'assise d'appello. Il 26 giugno 2002, la corte di Assise d'Appello di Roma ridusse a 26 anni la pena per il somalo.

La commissione della discordia
Il 31 luglio 2003 nacque a Palazzo San Macuto la Commissione parlamentare d'inchiesta Alpi-Hrovatin presieduta dall'avvocato Carlo Taormina. La Commissione durò tre anni, fino al 2006, quando, senza una soluzione unanime, Taormina si fece portavoce della tesi del rapimento fallito e dichiarò che "Ilaria Alpi era lì in vacanza”. Per giunta ipotizzando che le voci di un'esecuzione furono fatte circolare ad arte. Verdetto, questo, che scatenò l’indignazione di amici e parenti di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i genitori su tutti. Ufficialmente la Commissione si schierò per l'ipotesi di un tentativo di rapina o di rapimento "conclusosi accidentalmente con la morte delle vittime". La versione alternativa, invece, ipotizzava che la giornalista avesse scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali nel quale erano coinvolti anche l'esercito e altre istituzioni italiane.

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Ali Ahmed Ragi detto “Gelle”

La svolta, “Gelle” confessa
Gelle”, il supertestimone, sparì a Birmingham, in Inghilterra, dove aveva iniziato una nuova vita. Lo scovò nel 2015 proprio la trasmissione “Chi l’ha visto?”. Gelle era imputato in un nuovo processo in contumacia per calunnia al fine di sviare le indagini. Ai microfoni di “Chi l’ha visto?” l’uomo raccontò una volta per tutte la verità. “Non sono un testimone oculare - rivelò in esclusiva alla giornalista recatasi a casa sua - arrivai sulla scena del crimine subito dopo l’attentato. Ho mentito, non ho visto niente coi miei occhi”. “La mia fu una falsa testimonianza contro Hashi in cambio di soldi - aggiunse in quell’intervista - perché gli italiani avevano fretta di chiudere la faccenda”. “Si è montata la storia che Ilaria venne uccisa per una rapina”. Dichiarazioni esplosive, le sue, che consentirono agli avvocati di Hashi di chiedere la revisione del processo per il loro assistito davanti alla corte d’Appello di Perugia. Il 19 ottobre 2016 dopo 17 anni (di cui dieci in isolamento), 5 mesi e 8 giorni di carcere la Corte d’Appello di Perugia assolse Hashi Omar Hassan per non aver commesso il fatto.
Quattro gradi di giudizio, ventuno anni di inchiesta della Procura di Roma, cinque pm che si sono susseguiti dal 1994, per poi scoprire che l’unico “colpevole” era in realtà un innocente. Per i giudici di Perugia non ci sono dubbi: si tratta di un “depistaggio”. Gelle era stato cercato per mettere in atto un depistaggio, ha depistato, e poi è stato lasciato fuggire senza che nessuno gli desse la caccia. A sentenza si arrivò anche grazie alla desecretazione degli atti delle commissioni d’inchiesta sui rifiuti radioattivi e sul caso Alpi disposta nel 2013 dalla Camera su iniziativa di Laura Boldrini.
Ringrazio i magistrati di Perugia per averci restituito la speranza dopo che la procura di Roma per 23 anni ci ha e mi ha elargito” era stato il commento di Luciana Alpi.

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Luciana Alpi © Imagoeconomica


Apri e chiudi

L’anno seguente alla sentenza la madre della giornalista, rimasta quasi sola a combattere per ottenere la verità sulla morte della figlia, annunciò di voler gettare la spugna perché "ho dovuto assistere alla prova di incapacità data, senza vergogna, per ben 23 anni dalla Giustizia italiana e dai suoi responsabili". Poco più tardi la procura di Roma riaprì le indagini per poi chiederne l’archiviazione: la famiglia Alpi si era però opposta, e nel giugno del 2018 il gip aveva disposto ulteriori accertamenti nel limite di 180 giorni di tempo. Una decisione arrivata appena due settimane dopo la morte di Luciana. Al termine dei 6 mesi previsti, a febbraio 2019 la procura ha presentato l’ennesima richiesta di archiviazione alla quale si sono opposti il 13 marzo 2019 la Federazione nazionale della stampa, l’Ordine dei giornalisti e Usigrai che, insieme alla famiglia della giornalista, hanno chiesto di approfondire nuovi spunti investigativi. Ecco dunque che si arriva a ottobre dello scorso anno quando il gip Andrea Fanelli ha disposto altri sei mesi per ulteriori indagini respingendo per la seconda volta la richiesta di archiviazione avanzata dal pm Elisabetta Ceniccola. Nei prossimi giorni scadrà anche questa decorrenza. La speranza degli avvocati della famiglia Alpi è che i magistrati capitolini abbiano "raccolto elementi utili a chiarire una volta per tutte lo scenario reale del duplice omicidio. In modo da riaprire un’inchiesta che taluni vorrebbero chiusa al più presto, senza colpevoli”.

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