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di Marta Capaccioni - Video Intervista
Oggi il 36° anniversario della morte del giornalista

“In una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenta la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. Parole tanto sagge quanto drammaticamente attuali quelle di Pippo Fava, giornalista e direttore de “I Siciliani". Come un innamorato rincorre instancabilmente la sua donna, anche Fava rincorreva la sua amata. Senza mai stancarsi la cercava, in lungo e in largo nella sua terra siciliana, resistendo agli ostacoli, alle difficoltà e a chi provava a fermarlo. Andava avanti con costanza mentre il tempo sembrava potesse da un momento all’altro scivolargli dalle mani, e finire. E quindi scriveva articoli, creava romanzi, ideava opere teatrali. E l’unica protagonista della sua vita rimaneva lei, la sua amata: la Verità.

Un giornalista “incontrollabile”
Per colei, la verità che in tanti scherniscono, Pippo Fava rischiò la pelle, fino a dare tutto se stesso e quindi perdere la vita. E’ avvenuto 36 anni fa, in una serata invernale, il 5 gennaio del 1984. Venne ucciso a Catania da cinque colpi di pistola sparati dai sicari di Cosa Nostra.
All’indomani della sua morte si continuò nell’omertà e addirittura nell’ostilità, con critiche e depistaggi, a prendersi gioco del giornalista: come fece il sindaco della città catanese Angelo Munzone, secondo il quale “Catania è una città che non ha mafia”, perché “la mafia è a Palermo”.
Dopo tanti anni finalmente, nel 1998, grazie alle dichiarazioni di Maurizio Avola, collaboratore di giustizia che decise di patteggiare sette anni di pena auto accusandosi dell’omicidio, si arrivò alla condanna all’ergastolo di due boss appartenenti alla famiglia mafiosa siciliana dei Santapaola-Ercolano: Nitto Santapaola come mandante e Aldo Ercolano come esecutore. Mentre gli altri imputati, Marcello D’Agata, Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola, accusati di avere agito come organizzatori ed esecutori dell’omicidio, vennero assolti nel grado di appello dalla Corte di Catania con sentenza diventata definitiva nel 2003.
Quella verità, di cui Pippo Fava si faceva portavoce, dava così tanta noia? Evidentemente sì. “Fava non era controllabile”, disse Avola in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”, "con la stampa si andava d'amore e d'accordo e qualche 'incomprensione' giornalistica da allora si risolse senza bisogno di minacce. Fava invece non era più controllabile” - e aggiunge - “uccidendolo, Cosa nostra ha tutelato anche i propri interessi economici”.



Una minaccia agli interessi di Cosa Nostra, e non solo
Sì, Pippo Fava era proprio un “grattacapo” per Cosa Nostra e forse anche per gli esponenti di quel potere politico-imprenditoriale ai quali nauseava vedere come il loro mondo, complice e connivente, riuscisse a prendere spaventosamente forma nei pezzi di giornale, nei romanzi e nelle pièce teatrali del giornalista.
Fava nel corso degli anni portò avanti vari inchieste. La più famosa fu quella che durò due anni e che trovò la sua realizzazione nel 1983 nel primo numero pubblicato nel giornale de “I Siciliani”, ristampato tre volte per il grande interesse e partecipazione che suscitò tra la gente. Il pezzo era dedicato ai quattro maggiori imprenditori catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro, identificati anche come “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” o “i quattro cavalieri del lavoro”. Legami tra imprenditoria, politica e mafia, in particolare legami che coinvolgevano il boss Nitto Santapaola: ecco quale verità ricercava il direttore del giornale.
Anche Avola, dopo 31 anni, spiegò che "l'omicidio Fava è servito allo scopo della mafia e dei Cavalieri" di cui "Fava aveva scritto molto, parlando, in particolare, della mafia dei colletti bianchi". Tuttavia nessuno degli imprenditori catanesi è stato mai condannato come mandante del delitto.
Inoltre il direttore de “I Siciliani” stava studiando (e dai suoi appunti questo lo si capisce) i veri moventi della morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre 1982 insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo (per la quale era stato accusato sempre Nitto Santapaola) e i veri moventi della morte del giudice Rocco Chinnici, ucciso l’anno dopo, il 29 luglio del 1983. E non solo di questi. Personaggi che dovevano assolutamente essere fatti fuori, come anche Pippo Fava. Erano andati tutti oltre quel limite di verità invalicabile, superato il quale non c’è più via di ritorno. Si interessavano dei rapporti che non riguardavano l’agire della piccola criminalità di strada, ma che coinvolgevano i padroni delle banche, il mondo imprenditoriale, gli esponenti politici e i grandi personaggi che garantivano l’impunità al sistema criminale mafioso. Quei rapporti che probabilmente si celano ancora oggi dietro la maschera della democrazia.
E lo dice lo stesso Fava, nelle parole di risposta ad Enzo Biagi durante l’intervista nella trasmissione “Film Story” andata in onda il 28 dicembre 1983 su Rai Uno. Parole che dovrebbero risuonare a tutti ancora oggi, soprattutto oggi, come un campanello d’allarme: “c’è un’enorme confusione sul problema mafia. I mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee; i mafiosi stanno in Parlamento, a volte sono banchieri, sono quelli ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo, insomma non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la piccola taglia sulla tua piccola attività: questa è roba da piccola criminalità che ormai abita in tutte le città italiane ed europee. Il problema della mafia è molto più tragico ed importante, è un problema di vertice della Nazione che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale l’Italia”.



Ecco il campanello di allarme!
Lo scorso dicembre 2019, arriva la notizia che il boss di Cosa nostra catanese e killer del giornalista Pippo Fava, Aldo Ercolano, condannato all’ergastolo ostativo nel 1998 insieme allo zio Nitto Santapaola, non si trova più sotto il regime del 41 bis. Motivo di questa pericolosa decisione? Non lo sappiamo. La preoccupazione di Claudio Fava, figlio del giornalista e presidente della commissione regionale Antimafia siciliana, si è fatta sentire. E infatti, molto dura e allarmante è stata la lettera inviata da quest’ultimo al ministro della giustizia Alfonso Bonafede e, per conoscenza, al procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro, in cui emerge chiaramente il timore di fronte all’insensatezza di questa scelta e alla minaccia che essa potrebbe rappresentare: “Un elemento di comune preoccupazione - ha scritto Fava - emerso nel corso di tutte le audizioni, riguarda la caratura criminale del capomafia catanese Aldo Ercolano (classe 1960, da non confondersi con l’omonimo cugino classe 1974), attualmente detenuto con una condanna all’ergastolo. - ha continuato - Gli auditi hanno tutti messo in evidenza lo stridente contrasto tra l’intatta autorevolezza e la pericolosità criminale che viene a tutt’oggi riconosciuta all’Ercolano, e la revoca del regime carcerario del 41 bis che ha restituito l’Ercolano al circuito detentivo normale. Fatto incongruo, preoccupante, non comprensibile”. Fava ha evidenziato inoltre che “recenti indagini giudiziarie, e la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia, hanno confermato la capacità di controllo e di comando che l’Ercolano, sia pur detenuto da molti anni, conserva pressoché intatta sugli affiliati del suo gruppo criminale (si ritiene che i Santapaola-Ercolano raccolgano oltre la metà di tutti gli affiliati a Cosa Nostra di Catania)”.
Come si possono allora non considerare attualità e realtà le parole di Pippo Fava, quando parla del problema mafia come un “problema mafia molto più tragico ed importante, un problema di vertice della Nazione che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale l’Italia”? E come possono queste parole non farci ricercare anche a noi, come a Giuseppe, incessantemente, la verità?

Dossier Giornalisti uccisi dalla mafia

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