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"C'è rischio di una giustizia spietata con i deboli e con armi spuntate con i potenti"
di Marta Capaccioni - Fotogallery e Video

“Io da giudice non mi sento a mio agio nel momento in cui ho la sensazione di una giustizia spietata, alcune volte esageratamente spietata nei confronti dei criminali da strada e completamente impotente nei confronti della criminalità dal colletto bianco. Io non posso che essere a disagio nel momento in cui il giudice non riesce a far scontare un giorno ad un colletto bianco corrotto che è stato definitivamente condannato”. E' il membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura, Nino Di Matteo, ad essere intervenuto ieri pomeriggio a Pescara nel convegno, organizzato dalla sezione locale dell'Associazione italiana giovani avvocati (Aiga), dal titolo "Legalità corrotta anno secondo”.
E proprio i temi della corruzione e della prescrizione sono stati al centro dei vari interventi e degli argomenti toccati dai relatori presenti Nicola Pisani, ordinario di Diritto penale all’Università di Teramo e Aldo Aceto, consigliere della III Sezione penale della suprema Corte di Cassazione, dando vita ad un acceso dibattito.
Mentre in Parlamento si discute sulla prescrizione e la riforma della giustizia il magistrato, nel suo intervento, ha voluto ricordare alcuni processi che hanno visto il "salvataggio" di alcuni imputati proprio grazie all'intervento della prescrizione, processi che riguardano e hanno riguardato uomini delle istituzioni, soprattutto uomini politici: “Da noi non si prescrivono solo processi bagatellari. In Italia un sette volte presidente del consiglio, il senatore Andreotti sarebbe stato condannato per concorso in associazione mafiosa se non si fosse avvalso di una prescrizione che è scattata in appello. Da noi accade che persone offese, mortificate nel loro legittimo esercizio e nella loro legittima aspettativa di verità e giustizia, sono rimaste completamente a bocca aperta rispetto a prescrizioni che sono scattate in appello”.



La riforma della giustizia
Rispetto a possibili interventi legislativi che andrebbero eseguiti, Di Matteo ha chiarito che "sono altri gli argomenti e sono altre le riforme che devono tendere alla velocizzazione del processo ma non hanno nulla a che fare con l’istituto della prescrizione”, come al contrario ha sostenuto l’avvocato Pisani. Quest’ultimo nel suo intervento ha parlato dell’ipotesi di inasprimento delle pene definendola come una “politica criminale populistica”, ponendo a sostegno della sua tesi i principi costituzionali di rieducazione della pena e ragionevole durata del processo. Considerazione non in sintonia con l’opinione condivisa da Di Matteo e dal consigliere Aceto, che hanno spiegato come le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati, che tengono bloccati i processi per anni mentre il termine prescrizionale continua a decorrere, non debbano essere assolutamente sottovalutate.
Inoltre il magistrato ha affermato che “i due principi possono essere assolutamente compatibili, non è vero che se la prescrizione non decorre più in appello c’è necessariamente la prospettiva di un processo eterno. Ci sono i rimedi, per esempio quello di esercitare l’azione disciplinare nei confronti di magistrati che lasciano per tempi morti, per colpa loro, se c’è una colpa loro, il processo fermo”.
Di Matteo ha inoltre aggiunto che “c’è un altro passaggio importante e decisivo per velocizzare i processi e farli solo quando sono necessari: l’abolizione della reformatio in peius nel grado di appello. Noi dobbiamo cercare di auspicare ad un sistema in cui l’appello si fa non per perdere tempo, ma perché l’imputato condannato ha la legittima pretesa e aspirazione a che venga riconosciuta la sua innocenza. Non l’aspirazione soltanto a perdere tempo senza alcun rischio perché tanto sa che facendo l’appello non rischia nulla”. Sulla reformatio in peius, prevista in appello dal nostro codice di procedura penale, Fabrizia Francabandera, Presidente della Corte d’Appello dell’Aquila, che è intervenuta all’inizio del convegno durante i saluti, si è pronunciata contro l’abolizione del divieto della reformatio in peius, affermando che "il giudice terzo deve giudicare su quello che gli viene offerto e che ogni attore del processo deve fare la sua parte” e ha aggiunto inoltre che “spesso la prescrizione è una via d’uscita, ma spero solo per reati bagatellari”. Come ha ricordato il consigliere togato del Csm però “da noi non si prescrivono solo reati bagatellari”, riferendosi al già citato caso del politico Andreotti.
Di Matteo ha dunque esposto il proprio punto di vista sulla recente Legge Spazzacorrotti, affermando che “fondamentalmente la ratio ispiratrice della legge è da condividere”.


La forza di Cosa Nostra
Nel corso del suo intervento Di Matteo, per l’esperienza vissuta, le funzioni ricoperte come sostituto procuratore e il lavoro svolto in inchieste principalmente di mafia, ha introdotto nel dibattito un punto di vista che fino a quel momento non era stato preso in esame: quello del fenomeno mafioso in relazione al potere politico e istituzionale, e non solo.
“La mafia e la mentalità mafiosa - ha ricordato ai presenti - rappresentano il principale fattore di quotidiana compromissione dei più importanti principi della nostra Costituzione, la mortificazione continua della nostra carta costituzionale, dei principi di libertà, di iniziativa economica, del principio di efficienza e trasparenza della pubblica amministrazione, del diritto al lavoro e del diritto alla salute”.
Guardando ai fatti ed alla storia criminale di Cosa Nostra ha ribadito come questa si differenzi da tutte le altre criminalità organizzate presenti nel mondo: “Cosa Nostra è stata l’unica organizzazione criminale del cosiddetto mondo civilizzato, che fino a tempi recenti ha ucciso, molte volte perpetuando stragi, decine di magistrati, alti ufficiali di polizia dei carabinieri, prefetti della repubblica, esponenti politici di livello nazionale e regionale, sacerdoti, imprenditori e giornalisti e nel dna di Cosa Nostra - ha aggiunto il magistrato - c’è sempre stata una caratteristica ed è la consapevolezza che senza il rapporto con potere politico, imprenditoriale e istituzionale, sarebbe stata una banda di sciacalli debellabile come una normale organizzazione criminale”.
Rapporti emersi anche nel processo sulla trattativa Stato-mafia dove Di Matteo ha rappresentato l'accusa assieme ai pm Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. "Dopo 5 anni di dibattimento, 400 udienze e non so quanti testimoni sentiti - ha ricordato Di Matteo - una Corte d'Assise attesta che, mentre saltavano in aria Falcone, Borsellino, gli uomini della scorta e tanti altri cittadini innocenti come quelli deceduti nelle stragi di Roma, Firenze e Milano, una parte dello Stato trattava con Riina per capire cosa volesse per cessare quella strategia stragista. L'esistenza, il significato e le conseguenze di questi fatti sono ancora oggi oggetto di una ben organizzata operazione di nascondimento, una campagna del silenzio, di costruzione di un vero e proprio muro di gomma contro il quale devono infrangersi anche quelle sempre più isolate voci di chi osa ricordare".

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La lotta alla mafia
Successivamente, riprendendo il tema che è stato centrale in tutti gli interventi dei vari relatori, Di Matteo ha fatto alcune considerazioni e precisazioni sul legame che c’è tra mafia e corruzione, perché “mafia e corruzione sempre più spesso sono due facce della stessa medaglia. Le organizzazioni mafiose per ottenere i propri scopi strategici, soprattutto nel reimpiego degli ammassi di denaro sporco, utilizzano, perché credono sia più conveniente, il metodo corruttivo al posto del metodo della violenza e della intimidazione”.
Ugualmente il magistrato ha sottolineato con preoccupazione come “la lotta a questo cancro, la mafia, che divora dal di dentro la nostra democrazia, non è stata mai un’effettiva priorità dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Abbiamo sempre reagito all’emergenza dei morti, delle stragi, quando invece questo fenomeno si può sconfiggere soltanto con l’impegno di uno Stato che giochi in attacco e non solo quando c’è il sangue dei morti sull’asfalto delle strade, ma uno Stato che capisca che il fenomeno è talmente grave e talmente condizionante la nostra democrazia che deve essere affrontato per decenni con questo spirito e questa volontà”.
Questo impegno purtroppo anche nell’attuale governo è scarso e come sempre è accaduto la politica “nasconde la testa sotto la sabbia” e utilizza, come afferma ancora il consigliere togato del Csm, “il pretesto che ascoltiamo ogni volta, per le indagini che coinvolgono uomini politici, quello di dire aspettiamo la sentenza definitiva della magistratura: non è un principio ma è un pretesto nel momento in cui principio della presunzione di innocenza riguarda la responsabilità penale. Certi comportamenti invece dovrebbero far scaturire responsabilità di tipo politico immediato anche a prescindere della responsabilità penale”.

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Il ruolo del Csm

Il magistrato ha anche espresso delle considerazioni sull'inchiesta di Perugia della scorsa primavera, che ha visto coinvolti molti membri dell’organo di autogoverno della magistratura (Csm): “Quei fatti ci devono indignare ma non ci devono sorprendere, non dobbiamo essere ipocriti. Nel tempo in magistratura e nell’autogoverno della magistratura (Csm) avevano trovato spazio dei fenomeni gravissimi di collateralismo con la politica e di prevalenza nella scelta del Csm di un criterio, appartenenza ad una corrente, quale criterio decisivo per determinare le carriere dei magistrati. Una patologia grave e non più tollerabile”.
Questi fatti, ha poi chiarito il magistrato Di Matteo, devono rappresentare un “punto di non ritorno e un rilancio della funzione, della credibilità, del prestigio del Csm”, perché “l’autonomia e indipendenza dei magistrati è l’argine fondamentale contro autoritarismi di ogni tipo ed è caposaldo fondamentale della libertà e dignità di ogni cittadino, soprattutto dei più deboli e soprattutto di quelli che hanno un pensiero diverso rispetto ai governanti di turno”.
Il consigliere Di Matteo si è ancora pronunciato in modo acceso contro “l’offensiva unilaterale molto ben organizzata con l’appoggio sistematico dei media di una parte della politica trasversale, non contro la magistratura ma contro una parte della magistratura, che ancora si ostina a pensare che il controllo legalità si deve esercitare a 360 gradi, nei confronti del presidente del consiglio e nei confronti del piccolo criminale di città. È stata una guerra condotta nei confronti della parte magistratura in cui purtroppo un’altra parte non si è schierata sempre a difesa colleghi, cosi come non ho visto in questi casi una mobilitazione dell’avvocatura”. E rivolgendosi ai colleghi, agli avvocati e al pubblico Di Matteo ha infine concluso aprendo ad un confronto vero sui temi della giustizia: “Confrontiamoci, però facciamolo anche con la capacità di fotografare la situazione. Io da magistrato ho avvertito e avverto un rischio molto forte, quello di contribuire ad amministrare una giustizia a due velocità: spietata con i deboli e con le arme spuntate con potenti. Rischio che chi ha a cuore i principi della nostra costituzione non può correre e deve contrastare con ogni mezzo”.

Foto © ACFB

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