di AMDuemila
“La loro media di permanenza in carcere è di circa 190 giorni"
L’Italia è un paese che, a livello penale, è forte con i deboli e debole con i forti. E’ questo il quadro che emerge dall’intervista del presidente della Commissione esecuzione pena del Csm Sebastiano Ardita, rilasciata a “Il Fatto Quotidiano”. “Il guanto di velluto per i colletti bianchi in Italia è particolarmente più evidente che altrove: lo 0,3 per cento dei detenuti appartiene a questa categoria, mentre tutto il resto è suddiviso tra criminalità violenta o professionale e soggetti espressione del disagio sociale” ha affermato Ardita. Numeri alla mano infatti, ha continuato l’ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap, “le statistiche raccolte di recente, ma riferite all’anno 2015, ci suggeriscono che la permanenza media in carcere per un furto è di 250 giorni, solo il 5% dei detenuti viene ammesso ad una misura alternativa”. Diversamente, per quanto riguarda un reato come la bancarotta, “viene ammesso alla misura alternativa il 40% dei condannati e questo fa precipitare la loro media di permanenza a 190 giorni”. “Peccato che - ha continuato Ardita - per una bancarotta - si pensi al caso Parmalat - le vittime possono essere anche decine di migliaia”. Paradossale anche la situazione riguardante il coinvolgimento giudiziario di alcuni soggetti appartenenti a una certa classe di potere per i quali “sono state proposte o varate leggi ad personam pur di tirarli fuori dal carcere o impedire ad altri di entrare”.“Quella del sistema che schiaccia i delinquenti più deboli - ha aggiunto il magistrato - è il logico sbocco dell’esistenza di “strumenti” per modificare o eliminare le conseguenze penali, di fatto, per chi ha più mezzi economici”. Sul punto infatti Sebastiano Ardita ha riportato che nel periodo in cui rivestiva il ruolo di direttore dell’ufficio detenuti “ho sperimentato un carcere fatto di disperati, mentre esso dovrebbe essere riservato solo ai soggetti pericolosi, cioè capaci di commettere altri reati e ledere beni giuridici rilevanti di singoli e della collettività”. Una situazione che tende a non cambiare, anzi, “a ogni riforma non si fa altro che introdurre nuovi reati e alzare le pene di quelli esistenti”. E poi, ha sottolineato Ardita, “siamo il Paese europeo con la più bassa applicazione di strumenti alternativi al carcere. Il nostro sistema penale è impostato su un codice che prevede la detenzione come una costante. Da qui, - ha spiegato - le incongruenze di un sistema che lavora per demolire ciò che le sentenze penali hanno stabilito”.“Sarebbe molto più semplice - secondo il magistrato - irrogare direttamente sanzioni diverse dal carcere: pene anche pecuniarie o semplicemente amministrative. Ma l’Italia - ha concluso - è un paese “carcerocentrico”, non c’è una cultura delle misure alternative e neppure una polizia stabilmente impegnata all’esterno per i controlli quotidiani degli “affidati” e ciò comporta la sfiducia verso questo strumento”.
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