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Trentanove anni dopo restano aperti più filoni d'indagine. Bolognesi: "Attenzione ai depistaggi sui mandanti"
di Aaron Pettinari

Ore 10,25 del 2 agosto 1980. E' in quel preciso momento che una bomba disintegra la sala d'aspetto della stazione di Bologna causando 85 morti (la vittima più piccola era di appena tre anni) e 200 feriti. Ancora oggi l'orologio su Piazza Medaglie d'Oro ricorda l'attentato. Trentanove anni dopo l'Italia torna a stringersi attorno ai familiari delle vittime per chiedere quella verità sulla strage che è ancora oggi negata, nonostante le inchieste, i processi e le condanne.
C'è un'inchiesta aperta, come ricorda il manifesto firmato dai parenti delle vittime, sui mandanti del delitto. E' noto che per la strage sono stati condannati in via definitiva, come esecutori materiali, gli ex militanti 'neri' dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
La ricerca della verità passa dal processo in corso davanti alla corte di Assise di Bologna, nei confronti del possibile "quarto uomo", l'ex Nar Gilberto Cavallini, imputato per concorso nella strage del 2 agosto con l'accusa di aver dato supporto logistico ai tre esecutori materiali, ma anche dall’inchiesta della Procura generale di Bologna, che nell'ottobre 2017 ha avocato a sé le indagini, che si sta concentrando proprio sulla ricerca dei mandanti esterni.
In questi anni sono stati sentiti alcuni testimoni, sono state effettuate delle rogatorie in Svizzera su conti correnti anche riconducibili al venerabile maestro della loggia massonica P2, Licio Gelli, morto nel dicembre 2015 e condannato per il tentativo di depistare le indagini sulla strage così come i dirigenti del Sismi il generale Musumeci, il colonnello Belmonte ed il faccendiere Pazienza.
E sempre in questa inchiesta è finito sul registro degli indagati, con l'ipotesi di concorso nella strage, Paolo Bellini, ex militante di Avanguardia Nazionale. E' stata revocata dal gip, infatti, la sentenza del non doversi procedere emessa dal tribunale di Bologna nell'aprile 1992 nei confronti dell'ex Primula Nera. A riaprire il fascicolo è stato un fotogramma (estrapolato da un filmato amatoriale) in cui compare il volto di un uomo vicino ad un binario negli attimi successivi allo scoppio, ritenuto dalla Procura generale somigliante al Bellini ed ora si procede con tutti gli accertamenti del caso.
Tra gli accertamenti compiuti di recente anche quelli su un reperto rinvenuto la scorsa estate dall'esplosivista geominerario Danilo Coppe alla Caserma di Prati di Caprara, dove per anni sono rimasti i detriti della stazione di Bologna. Nella sua perizia Coppe sostiene che quel reperto sarebbe potuto essere l’interruttore della bomba che la mattina del 2 agosto 1980 fece saltare per aria la stazione, avanzando, inoltre, un parallelismo con l’ordigno trasportato dalla terrorista tedesca Christa Margot Frohlich fermata all’aeroporto di Fiumicino due anni dopo. Un'indicazione che aveva portato da parte dei legali di Cavallini alla riproposizione della nota "pista palestinese". Quella comparazione, però, sarebbe azzardata come ha voluto far intendere lo stesso Coppe, successivamente ascoltato in aula nel corso del processo all’ex Nar.
E proprio sulla "pista palestinese" è tornato oggi a parlare Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime, indicandolo come un nuovo tentativo di depistaggio. "Di nuovo viene tirata in ballo la pista palestinese per intralciare indagini e confondere l'opinione pubblica. Vuol dire che quelli che hanno intralciato la verità sono ancora attivi e in campo", avverte Bolognesi parlando alla cerimonia di commemorazione a Palazzo D'Accursio. "È normale che lo facciano gli avvocati degli imputati, ma quando si cimenta in questa operazione gente che si dice di sinistra, ecco, sappiate che non guarderemo in faccia a nessuno e andremo avanti per la nostra strada, faremo in modo che i nostri avvocati perseguano questi personaggi, di qualsiasi partito siano", avverte Bolognesi, che sembra anche fare riferimento alle parole dell'ex deputato del Pd, Gero Grassi, sugli atti della commissione Moro. "Noi non abbiamo nessuna remora a che vengano desecretati gli atti, ma deve essere fatto in modo globale partendo da piazza Fontana, non separatamente, perché potrebbe essere un altro modo per depistare. La visione deve essere complessiva, perché una visione parziale non è utile", puntualizza il presidente dell'associazione, che ricorda di aver visionati lui stesso i documenti secretati. Negli atti della commissione Moro, scandisce, "non c'è nulla che possa fare riferimento a Ustica o Bologna. Questo bailamme sulla pista palestinese è la ricerca di deviare l'opinione pubblica dall'indagine sui mandanti, ma la verità sui mandanti non deve essere appannaggio solo dell'associazione, ma anche delle istituzioni", ha proseguito Bolognesi. Sulla presenza delle istituzioni ha poi concluso: "Quest'anno possiamo nutrire delle speranze verso la verità. L'anno scorso, ci sono stati degli impegni presi dal Governo che si cominciano ad avviare, come la digitalizzazione degli atti e i fondi messi a disposizione dalla Cassa Ammende e Csm. Vedo qui, in sala, David Ermini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura e non posso che ricordare il grande impegno per la legge sul depistaggio che ora non è più un vocabolo ma un reato". Piccoli passi avanti, certo, ma ora la speranza è che lo Stato si assuma la responsabilità e, finalmente, abbia il coraggio di svuotare gli armadi da quegli scheletri che da sempre hanno imprigionato la nostra Repubblica.

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